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Frammentarie memorie di un perduto produttore consumatore – Giampiero Bigazzi

INGSEYFS0349Mi capita spesso di pensare a come ho vissuto, da quando ero un ragazzino appassionato di canzoni, le trasformazioni del modo di ascoltare musica. Poi, da professionista, i cambiamenti nei sistemi di registrazione e di riproduzione del suono, e quindi i differenti supporti per la diffusione. Infine i luoghi dove poter acquistare la musica registrata. È una lunga storia, che si è svolta in poco più di mezzo secolo, e quindi memoria e novità s’intrecciano continuamente. Una storia di cui non ho perso un passaggio…

Quando ho cominciato a comprare dischi erano ancora “mono” e in seguito “mono compatibili” (cioè monofonici, ma suonabili anche nei primi rudimentali impianti stereofonici). Quando poi è arrivato lo “stereo” vero e proprio è stato un magnifico sballo: si ascoltavano i dischi dei The Beatles o di Hendrix con l’audio diviso con l’accetta, la chitarra e la batteria da un lato e le voci dall’altra. Era una specie di mono modificato, soluzioni un po’ maldestre ma utili. Infatti si imparava a suonare chiudendo un canale: quelli del disco suonavano e ci si poteva cantare sopra, oppure loro cantavano e noi si poteva accompagnarli con la chitarra o con la batteria. Ho cominciato a registrare anch’io così: utilizzando lo stereo come due tracce diverse.

L’avvento del 4 piste fu una rivoluzione totale: si poteva veramente “separare”! I diversi sistemi di registrazione (dal nastro analogico nei suoi vari formati, al DAT, alle cassette per l’ADAT, al computer…) sono andati di pari passo con le differenti modalità e supporti di ascolto. Il dibattito infinito sulle magnifiche capacità del vinile rispetto al digitale non arriverà a mettere d’accordo tutti, ma domina la sensazione che il microsolco in vinilite sia “più caldo”, più vero, più vicino al suono dal vivo. Quando, negli anni Ottanta, è apparso il compact disc, mi ci sono affezionato subito: meno ingombrante, più comodo da conservare, può contenere più musica, più a portata di mano anche il booklet con le informazioni (e in generale più simile a un libro… oggetto che amo particolarmente). Non mi sono soffermato molto sulla resa nell’ascolto. La compressione digitale dello spettro sonoro si sentiva nettamente, ma la facilità di utilizzazione del nuovo supporto – per quanto mi riguarda – vinceva (con buona pace delle centinaia di LP e 7” che collezionavo).

Circa un quarto di secolo fa, il gruppo che inventò l’MPEG-1 ha “risolto il problema”, diciamo così: veniva creato un formato digitale che avrebbe cambiato per sempre la diffusione, l’ascolto e anche l’archiviazione della musica registrata, quello che verso la fine degli anni Novanta si è conosciuto come mp3. Una bella trovata che ha decretato la moltiplicazione del multiplo a livelli globali e ha superato perfino il concetto di “pirateria”: nel senso che con la musica registrata ridotta a dei semplici “file”, quindi straordinariamente “trasportabile”, si è minato l’idea stessa di proprietà e quindi di diritto di autore. L’affermazione dell’mp3 (nato e considerato già vecchio rispetto all’mp4 della Apple) è andata di pari passo con la trasportabilità degli impianti di ascolto, dal walkman per le cassette fino all’iPod, la musica si ascolta in cuffia. Alla fine è ovunque e ce la possiamo portare dietro, in centinaia di possibilità multimediali e situazioni differenti (i social, il cinema, i video giochi, la televisione…). Un fiume sonoro, intrecciato, diluito, che crea perfino inconsce esperienze sonore. Tutto ciò ha ridotto al minimo lo spazio di ascolto consapevole. Oggi, questa “rivoluzione” (o “contro-rivoluzione”?) ha portato a un ascolto prevalentemente sommario. I cultori rimangono, ma sono sempre meno. Internet ha moltiplicato le occasioni, ma ha ridotto le capacità di concentrazione. E di conservazione: nei sistemi come Spotify non viene neppure archiviata nel proprio computer. Per dire: credo che non esista una Biblioteca del Congresso che raccolga gli mp3 come raccoglieva i primi dischi… Lo stesso concetto di hi-fi non esiste quasi più nel vasto pubblico. Da questo punto di vista è interessante cercare di capire gli effetti che le tecnologie hanno sulle relazioni umane. Si privilegia quasi più la “macchina” rispetto al contenuto: oggi le file fuori dai negozi si fanno per l’ultimo modello di qualcosa e purtroppo assomigliano alle file che si facevano per l’ultimo disco di qualcuno. Quindi la memoria va anche ai luoghi dove si accedeva alla musica. Dove la si poteva comprare: oggi (nonostante la fievole ripresa del mercato del vinile) son talmente cambiati fino quasi a scomparire. Più che comprare o vendere dischi, all’epoca si capitava nei negozi per conoscere musica e per parlarne. Sul bancone c’era sempre un giradischi disponibile e negli scaffali i migliori dischi d’importazione. Ci si avventurava in complicate teorie e analisi, vere e proprie recensioni fra musicisti, aspiranti discografici, studenti, affabili ragazze, creativi perditempo.

Il cammino tecnologico del suono riprodotto è intimamente connesso alla messa sul mercato e alla vendita del medium fonografico, il microsolco nei vari storici formati – 78, 45, 16, 33 giri tra lavagna e vinilite – e poi il compact disc: comunque un oggetto partecipativo, aggregante, condiviso fra musicisti e ascoltatori, grazie anche al luogo che presenta, vende, scambia, ma pure richiama, seduce, accoglie, informa, assiste. Una specie di zona franca di acquisto, di conoscenza e d’intrattenimento. Il negozio di dischi che è ormai un’oasi rara e oggi dalle caratteristiche “sociali” spesso diverse. (Meno male che, rispetto ai decenni precedenti, c’è una grande presenza di musica dal vivo, che resta impossibile da clonare: un concerto lo puoi videoregistrare, ma le emozioni che ti dà nel momento in cui si svolge sono impossibili da riprodurre artificialmente).