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I pensieri dei valutatori: Giampiero Bigazzi

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

Ok. Pensieri in libertà… riflessioni d’inizio dicembre. Anno orribile 2020.
Cosa posso afferrare dai molti pensieri che in tutti questi mesi hanno affollato la mia mente? E che si condensano in questi fiacchi giorni invernali?
Mi sono stancato di fare e vedere le cose in streaming, on line, digitali, fondamentalmente finte. Meno male che per la second wave nessuno ha avuto il coraggio di affacciarsi da un balcone con la chitarra. Come invece ci siamo scatenati nei primi mesi del Covid. A parte i cori dalle terrazze (obbligatoriamente ripresti con i telefonini e subito affidati ai social), è stato tutto un prolificare di dirette (o quasi) digitali, zoom, skype…
La successiva seconda esplosione della pandemia ha istituzionalizzato questi sistemi di comunicazione (ora abbiamo anche webinar!), dopo un’estate di tiepida ripresa dello spettacolo dal vivo. In molti, mancando alternative lavorative, si sono dedicati a proporsi come improbabili maestri della diretta in streaming. Ormai siamo abituati, per non sparire del tutto, ad apparire per forza su un computer o simili. La cosa positiva è che, mentre nella prima fase si chiedeva l’intervento casalingo degli artisti, adesso ci sono situazioni, sempre più diffuse, che hanno accettato l’idea che è giusto pagare il lavoratore dello spettacolo e della cultura anche per la sua creazione digitale. E la qualità giustamente – anche se non sempre – se ne è avvantaggiata. Da questo punto di vista l’uso del web e dei social per esprimerci in modo compiuto e “vivo”, resterà un congegno espressivo e di diffusione che continueremo a usare. E, senza esagerare, sarà un bene.
Si diceva il lavoratore dello spettacolo… Nelle divisioni cromatiche delle norme anti virus, un colore rosso totale ha coperto spettacoli e cultura. Spesso non se ne è capito la necessità, visto la serietà con cui tutti noi in estate abbiamo gestito i nostri spazi rivolti al pubblico. Ancora oggi, mentre scrivo, riaprono il mercato settimanale sotto casa mia (migliaia di persone con minimi controlli), ma non il teatro. È una ferita che colpisce tutti i livelli dell’arte.
C’è stato e c’è ancora un alto livello di disperazione per la mancanza di lavoro per centinaia di migliaia di persone e soprattutto di frustrazione per non essere pienamente considerati una risorsa per il Paese. Questa sensazione e la conseguente frustrazione rimangono, ma – a parte un inizio catastrofico in cui la “cultura” sembrava, nel pensiero dominante, solo turismo e musei – di fronte a continue proteste, le istituzioni hanno cominciato a considerare anche questo settore di lavoro. Nonostante questo, permane la delusione per cui il nostro mondo arriva sempre in fondo ai pensieri e alle azioni di chi ci governa, non considerando i numeri che fanno della cultura e dello spettacolo non solo divertimento e “cibo per l’anima” (che non è poco), ma anche occupazione e “produzione” economicamente rilevante.
Ma, piano piano, qualcosa si è mosso. Forse una lieve scintilla si è accesa anche nelle stanze ministeriali. Si è aperto finalmente un tavolo tecnico permanente fra operatori e Ministero delle attività culturali.
Si è diffusa questa nuova parola: ristoro, vetusta terminologia burocratica a cui, alla fine, ci siamo affezionati. Abbiamo accolto, contenti, i vari ristori che soprattutto il Mibact ha messo, pur confusamente, in campo.
L’impressione però è che un complesso di creazione culturale, oltre l’emergenza, non può essere basato sull’assistenzialismo. Si è abbandonato il “niente sarà come prima” perché era soprattutto un’affermazione incerta, ma nel nostro caso bisognerebbe veramente che le cose non ritornassero a essere come sono adesso.
Necessitiamo di regole certe e consapevoli, di leggi apposite (soprattutto per quanto riguarda la musica), di spazi giusti, di coinvolgimento della scuola (perché la matematica e non la musica? perché la letteratura e non il teatro come drammaturgia, e il cinema? cioè il linguaggio che è sintesi di tutto…). E ancora: rivedere l’accesso al Fus (Fondo unico dello spettacolo), riformare il codice dello spettacolo dal vivo, semplificare, uniformare, rivedere i meccanismi previdenziali, abbassare l’iva per la musica e lo spettacolo. Mentre si prova a superare le criticità di questo terribile momento, si dovrebbe individuare un progetto complessivo di ampio respiro: il nostro non è un “passatempo” per gioiosi saltimbanchi. L’ossimoro è dietro l’angolo: non vogliamo uscirne più forti ma con le ossa completamente rotte…

Incontri con i valutatori 2020

Il Centro Musica ripropone quest’anno gli incontri con i valutatori del progetto Sonda. La nostra intenzione è quella di portare a conoscenza degli iscritti di Sonda, e più in generale dei musicisti interessati, le varie figure professionali della filiera musicale. I valutatori di Sonda coprono i diversi aspetti del mercato musicale e possono fugare ogni dubbio o perplessità nel loro specifico campo professionale.
Gli incontri si svolgeranno di pomeriggio e ruoteranno principalmente attorno agli ascolti dei brani; i partecipanti potranno far sentire un proprio brano e avere una sorta di ‘report’ in diretta dai valutatori.

Gli incontri 2020, nel rispetto delle normative igieniche legate all’emergenza Covid, avranno una modalità di accesso leggermente diversa.
Potranno partecipare al massimo 30 persone per ciascun incontro (di conseguenza chiediamo alle band di mandare un solo componente) registrandosi attraverso un modulo on line (il login dovrà essere effettuato con un account Google/Youtube/Gmail).
Unitamente ai dati occorrerà inviare il brano che verrà ascoltato durante l’incontro. In questo modo eviteremo il passaggio di cd, chiavette usb, ecc…
Coloro che si iscriveranno riceveranno l’eventuale conferma di partecipazione via email all’indirizzo indicato, compatibilmente con il numero di posti disponibili.
E’ richiesto a tutti i partecipanti di essere presenti dall’inizio dell’incontro alle ore 14.
Chiediamo di comunicarci tempestivamente eventuali rinunce in modo da consentire ad altri di partecipare

Gli incontri del 7 e 28 novembre sono stati entrambi rimandati come da disposizioni del DPCM del 24/10/2020 e verranno riprogrammati appena possibile.

I pensieri dei valutatori: Giampiero Bigazzi

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

Come succede di solito ho cominciato a suonare da giovane (ma non da bambino, come sarebbe stato opportuno). Ho frequentato un paio di scuole e qualche corso di approfondimento, ma senza esagerare. Ho continuato a studiare per conto mio, a sprazzi. Ho molto suonato, il basso elettrico, negli anni delle balere (“dancing” si chiamavano dalle mie parti). Venerdì sera, sabato pomeriggio e sera, domenica pomeriggio e a volte sera: non male come palestra! E infatti quella è stata la mia scuola di base. Ho assorbito tutta la musica degli anni Sessanta e quella dei primi Settanta, quando la gente miracolosamente riusciva a ballare su brani di Jimi Hendrix o di Deep Purple (per non parlar di Lucio Battisti).

Un giorno trovai, non ricordo come, un piccolo organo elettrico. Due ottave e mezza, forse marca Davoli. Me lo portai a casa e cominciai a trovarci accordi semplici e a cantarci sopra. Con quella tastierina capii che bisognava essere intonati! Lo so che può sembrare strano, ma come bassista fino a quel momento mi ero concentrato sul ritmo, batteria e chitarra, e non mi ero posto il problema. Feci molti esercizi e corressi, pur moderatamente, la mia stonatura iniziale. Questo per dire che il talento è qualcosa di sublime, ma gli stonati non esistono. Basta studiare e applicarsi. Educare la voce.

Ho quindi suonato il basso fino a metà anni Settanta, per far ballare la gente. La cosa che ancora oggi mi sembra impossibile, è che avevamo in repertorio più di 150 brani, tutti buttati su a memoria. Oggi non riesco a ricordarmi nemmeno “Bella ciao”… oddio, quella forse sì.

Perché cominciai a suonare? Non c’era una tradizione o una spinta familiare, anche se la nostra mamma, oggi, mi ripete che la sua era una famiglia di contadini, minatori e musicisti… bravi ma non facevano apprendere la musica alle donne di casa, circostanza che l’ha sempre contrariata. La musica mi ha affascinato (come il cinema e il teatro) fin da piccolo. A questo bisogna aggiungere una leggera predisposizione naturale allo spettacolo (la seduzione della ribalta e dello stare al centro dell’attenzione è sempre una magnifica spinta a provarci) e la possibilità di farsi delle fidanzate che il suonare offriva. Non c’era una “vocazione” particolare. “Bene, almeno sappiamo come passare i pomeriggi d’inverno”, mi disse il mio amico Mario quando gli feci vedere i primi strumenti raccolti e gli comunicai l’idea che avevo di metter su una band. Ma lui poi non si aggregò: le fidanzate le trovava lo stesso e da grande è diventato un esperto di allevamento di cavalli da corsa.

Cosa ascoltavo? Sicuramente le canzoni che dovevo risuonare per far ballare. 45 giri e spartiti (quelli con un brano solo “per mandolino”) comprati allo storico negozio di musica del paese. Le canzoni, quando lo spartito non c’era, si “tiravan giù dai dischi”, o meglio: lo faceva il tastierista che – come spesso accade – era quello tecnicamente più predisposto. Io mi concentravo sulla linea del basso (e qualche volta le note più ardimentose me le trovava il suddetto virtuoso tastierista). Non c’era, all’epoca e in quelle condizioni, l’idea della “cover”. Le “hit da ballo”, quelle musicalmente raggiungibili dalla nostra abilità, si rifacevano, possibilmente fedeli all’originale, e basta.

[Sto rileggendo quello che ho scritto finora e mi sembra il soggetto di un film di Pupi Avati…]

I miei ascolti però non erano solo funzionali al “lavoro di orchestrale”. Ascoltavo molta musica che non avremmo potuto “tirar giù” per le balere. Abbiamo raccontato altre volte che abitavamo in un palazzone che aveva uno dei primi magazzini della Coop al primo piano (poi ci fecero una banca e ora ci sono i cinesi… la Coop comunque c’è ancora, ma da un’altra parte). In questo magazzino (miracolo!) c’era un reparto dischi. Fornitissimo. E lì ho conosciuto i vinili di Hendrix (ancora oggi quando ascolto “Electric Ladyland” mi commuovo), Bob Dylan (la mia copia di “Blonde on blonde” ha tutti i solchi consumati!), Rolling Stones (visti a Roma, con Mick Taylor alla chitarra, tornando in autostop da Amsterdam nel 1970), Woodstock (“tirato giù” in abbondanza), un po’ di jazz storico, Mozart e Bach. C’era una collana dell’Atlantic (con l’adesivo “The genuine underground music”) di cui ho molti LP: Blues Image, Iron Butterfly, Young Racals. Andavo pazzo per Vanilla Fudge. E ovviamente molti Beatles, ma possedevo pochi dischi… mi sono rifatto da adulto. In quegli anni c’era un amico che non perdeva un loro LP o un singolo e ne facevo indigestione a casa sua. Un disco avevo e consumavo: “Abbey Road”. In questi mesi sono cinquant’anni che è uscito. E’ il loro ultimo sussulto creativo, ma c’è dentro tutto quello che ancora oggi può far comodo a chi fa musica.

Ascoltavo poco gli italiani, in quegli anni iniziali, ma ho sempre amato e professionalmente rispettato la cosiddetta “musica leggera”, apprezzamento che mi è servito anche nel lavoro di agitatore musicale, alle prese con gli spigoli dell’avanguardia e della world music. La ricerca della comunicatività, la capacità di “arrivare” a potenziali ascoltatori, sono necessarie attitudini per qualsiasi forma d’arte. Almeno questo è ciò che penso.

Il pensiero che mi viene ricordando gli anni della formazione è la lentezza del consumo. Non c’era bisogno di farsi prendere da bulimia di possesso e superficialità di ascolto: si entrava “dentro” un disco, si scopriva, ascoltandolo decine di volte e, come musicisti, si cercava di imparare.

E quindi raccolgo un altro pensiero: è una frase fatta, lo so, ma è sempre valida. Non si smette mai di apprendere e non si deve mai smettere di studiare. Con tutti i miei limiti ho cercato e cerco di farlo, passando dalla scoperta delle tradizioni popolari alla musica più sperimentale, dalla canzone d’autore alla musica cosiddetta colta. E’ soddisfazione privata, ma anche strumento per evitare banalità. Non so se ci sono riuscito, ma ho la coscienza a posto: ci ho provato.

I pensieri dei valutatori: Giampiero Bigazzi

Nuovi negozi di dischi stanno aprendo un po’ dovunque. Il vinile è tornato ad essere un supporto amato ed acquistato. Ai concerti si registrano sold-out ad un ritmo vertiginoso, mentre i talent e il Festival di Sanremo macinano share da capogiro. Sono segnali di una ripresa o di una imminente apocalisse? Ecco cosa ne pensano i valutatori di Sonda.

È finita la crisi dell’industria della musica? Non so. E dal mio piccolo angolino indipendente e radicale m’interessa il giusto. Certo la sua produzione e la sua diffusione sono cambiate ormai da diversi anni e non torneranno mai come prima. Come d’altra parte son cambiati i modi di ascoltare la musica e di “consumarla”.

E certo non è “finita”, la musica. Anzi, mai come adesso è difficile trovare l’intervallo (avrebbe detto Gillo Dorfles), quel giusto silenzio che è il senso stesso di ogni forma musicale, dentro il mare di suoni, di ritmi, di voci che circondano la nostra vita.

La musica si adatta. Come è sempre stato: i musicisti (con i suoni che sanno inventare) hanno sempre trovato il modo di esistere e di creare, modellando la loro arte agli strumenti di diffusione che la “tecnologia” dell’epoca offriva e spesso, proprio con la musica, proponendo tracce per trovarne di nuovi.

I meccanismi di circolazione, e di vendita, oggi sono diversificati. Si sa: non c’è più un supporto dominante. Si possono fare le classifiche che vogliamo, ma il panorama è vasto e variabile: oggi si rilanciano gli antichi vinili, ci sono lo streaming e il downloading, il CD, le USB, gli smartphone di ogni tipo, le molte radio, e i diversi canali TV, c’è Youtube (che a mio avviso resta il mezzo predominante e più comodo di ascolto e di conoscenza), volendo anche i vecchi registratori a nastro di vario tipo, e ci sono ancora perfino le musicassette (in uno snobbistico revival che batte, per piglio massimalista, la stessa rinascita del LP).

Proprio nel 2018, fra i tanti anniversari, si è celebrato anche quello dell’ellepì così come si conosce ancora oggi. Nel giugno del 1948 la Columbia lanciò il formato che avrebbe rivoluzionato (ma fu solo la prima di tante rivoluzioni) la storia della musica. Per inciso (termine quanto mai adatto): il primo LP messo in commercio fu il “Concerto per violino in mi minore” di Mendelssohn. Quel padellone nero in cloruro di polivinile, con la copertina colorata e invitante che ha da sempre identificato, in base all’immagine scelta, il titolare dell’opera discografica, adesso è tornato. Il suo dissolversi fu veloce e riempì di malinconia gli appassionati. Il gelido CD ci sembrò eterno e indistruttibile. Le collezioni di vinili e il loro ascolto (e compravendita fra collezionisti) è restato per alcuni decenni appannaggio di pochi estremisti, catalogabili decisamente un po’ fuori del tempo. Poi sono tornate le fabbriche (pur poche e lentissime), i giradischi, le produzioni. Una sorta di controtendenza, un sussulto che ha il sapore quasi perverso della rivincita. Bene. Ben tornato vinile! Ma a me piacevano più i CD, belli compatti, mini supporti dal relativo ingombro, quindi trasportabili con facilità, vicini all’idea di libro, ascoltabili facilmente ovunque, senza scricchiolii, dove entrava tanta musica.

La (rin)corsa al vinile ha ormai preso tutti gli operatori. Tanto che le edicole (visto che vendono ormai poca carta stampata) sono ritornate sulla breccia come luogo di commercio musicale. E speriamo che anche il vinile non faccia la fine, grazie in parte alle edicole, che fece il CD quando diverse case editrici (le solite sigle che oggi si sono buttate sul giornalesco ellepì) inondarono i chioschi di ristampe (spesso bruttine), di compilation e novità a prezzi bassissimi e non pagando l’iva come i rivenditori specializzati.

In questo contesto, è interessante riflettere su come sta cambiando l’ideazione e la produzione di un lavoro musicale multiplo. Lo chiamo così perché il termine “disco”, al quale sono comunque affezionato, mi fa oggi un po’ impressione e mi sembra ormai limitante. Si parte dalla soglia di attenzione degli ascoltatori ormai ai minimi storici e ci siamo allontanati dall’idea di quanta musica invece può raccogliere un CD (fino a ottanta minuti circa). Anche facendo i conti con il digitale ci si riadatta alla cultura del vinile, che era ed è soprattutto “costrizione tecnica”. La brevità, e quindi l’essenzialità, possono essere una virtuosa soluzione all’affollamento di suoni. Quindi si è tornati a produzioni lunghe poco più di venti minuti con 6 o 7 brani. Una scelta che facilita anche l’odierna soglia di attenzione dell’ascoltatore. Oggi, come abbiamo visto, le possibilità di imbattersi in un brano musicale sono infinite, ma, avendo ormai superato l’idea del disco come formato, ci si sta comodamente adattando a una nuova essenziale brevità creativa. Scelta che conferma la perdita di centralità dell’opera musicale registrata e che, dal punto di vista della fantasia, può essere una virtù, una risposta – se viene salvaguardata la qualità – agli ingorghi sonori dei nostri tempi.

Gli “album”, pur brevi, rimangono il biglietto da visita degli artisti e lo start per la musica dal vivo che resta oggi, in questo sconfinato oceano di suoni, l’elemento vincente. Le difficoltà sono tante (basta pensare alla cosiddetta “sicurezza”) e arranca la curiosità per il nuovo e il non “famoso” (non solo da parte del pubblico ingessato, ma soprattutto da parte di promoter e organizzatori che non vogliono mai “rischiare”), ma la musica suonata “per davvero” e ”davanti alle persone” resta vitale. Sporca o raffinatissima, è sempre difficile clonarla.

Incontri con i valutatori 2019

Il Centro Musica ripropone quest’anno gli incontri con i valutatori del progetto Sonda. La nostra intenzione è quella di portare a conoscenza degli iscritti di Sonda, e più in generale dei musicisti interessati, le varie figure professionali della filiera musicale. I valutatori di Sonda coprono i diversi aspetti del mercato musicale e possono fugare ogni dubbio o perplessità nel loro specifico campo professionale.
Gli incontri, rivolti principalmente e musicisti e gruppi musicali, sono aperti a tutti.
Si svolgeranno di pomeriggio e ruoteranno principalmente attorno agli ascolti dei brani; tutti potranno far sentire un proprio brano e avere una sorta di ‘report’ in diretta dai valutatori.

• sabato 16 marzo 2019, dalle 14 alle 18
Incontro con Daniele Rumori (direttore artistico Covo Club); 
Giampiero Bigazzi (produttore discografico), Carlo Bertotti (produttore, autore).


• sabato 13 aprile 2019, dalle 14 alle 18
Incontro con Roberto Trinci (direttore artistico Sony/Emi Music Publishing); Marco Bertoni (produttore, musicista); Gabriele Minelli (A&R manager di Universal Music Italia); Marcello Balestra (produttore-editore musicale).

Gli incontri si terranno presso La Torre all’interno del polo 71MusicHub (Via Morandi 71 – Modena) dalle 14 alle 18.
Ingresso gratuito.

Le scelte dei valutatori: Giampiero Bigazzi

Giampiero Bigazzi segnala alcuni degli iscritti a Sonda più interessanti tra quelli che sono stati lui attribuiti negli ultimi anni.

Una delle tante cose che mi piacciono del progetto Sonda è la buona qualità delle proposte musicali. I selezionatori iniziali del Centro Musica, mi attribuiscono, di solito, progetti “di confine”: cantautori “irregolari” e post-rock, profumi di prog e di ambient, world quando capita e spesso musiche strumentali. Il livello è molto buono. Veramente. Non è una frase di circostanza. Alcune volte manca l’intervento di un produttore, che probabilmente arriverà se l’operazione avrà le gambe per andare avanti. Molte altre volte la musica è attraente, ma destinata a faticare se vuol trovare un qualche circuito di diffusione. Ma è in ogni modo confortante che ci siano tanti giovani artisti che ci provano e che lo facciano con positivi elementi di talento e, soprattutto, convinzione.
Faccio questa iniziale considerazione (affettuosa ma un po’ scontata), da anziano operatore della musica, per alleviare l’angoscia di dover selezionare solo tre o quattro band o solisti “(particolarmente interessanti) tra quelli che ti sono stati attribuiti negli ultimi anni”. Cioè: se avessi spazio mi piacerebbe parlare di tutti e non escludere nessuno…

E allora. Riccardo Lolli. Non è proprio un “emergente”, ha alle spalle la collaborazione con Central Unit e di quell’esperienza ha mantenuto i colori dei suoni scelti e un’elettronica minimale e giusta. Ma le sue proposte sono spiazzanti… Sono andato a cercare altri pezzi dal vivo con titoli che già promettono: “Me ne frega”, “Tracotanz”, “Telefonati da solo”, “Apericena”. Testi arguti. “Telefonati da solo” è una specie di manifesto sulla prigionia contemporanea in cui siamo tutti più o meno ridotti. Una certa (voluta) incertezza nel cantare li fanno ancora più forti. Dal vivo poi ha una nonchalance nel cantare le sue canzoni che rende l’operazione ancora più importante. Ci si diverte ad ascoltarlo, e l’ironia gioca con un impianto musicale che invece appare “serio”, contornato da un leggero low-fi. E’ una bella alternativa alle canzoni fotocopia oggi in circolazione.

Chameleon Mime. La curiosità è venuta subito fuori… e già vederli così tanti è una bella cosa. La musica è un mix di tante contaminazioni. C’è il sapore trascinante dello swing, ma poi si sentono molte influenze. Il camaleonte, appunto. Coinvolgente è il ritmo che sprizza energia e gioia. Funzionano il canto a due voci (femminile e maschile) e anche i cori. Accrescono l’idea della banda, del lavoro collettivo, ed è una bella impressione. Piacevole anche il miscuglio di lingue differenti. Dal vivo hanno la forza che ti dà una situazione di divertimento come una strada piena di gente che li ascolta. Quindi la scommessa è mantenere la stessa energia, lo stesso “tiro”, gli stessi sentimenti nella registrazione. Continuando a suonare insieme si porrà poi il problema di trovare maggiore originalità rispetto a un “modo” che non dovrà essere un limite. Ma per il momento funziona.

Infine (e mi spiace finire…), Il Conte Trio. La formazione è già in partenza intrigante: un trio messo bene. C’è una effettiva ricerca sull’originalità dei suoni (aspetto molto rilevante che spesso viene sottovalutato).
Qualche melodia mi ricorda un po’ qualcosa di Bandabardò, ma non è un male… il “già sentito” in questi casi aiuta. Tecnicamente giusti, si sente che ci sono esperienza e capacità. Gli arrangiamenti (cioè il ruolo e la tessitura degli strumenti) sono messi bene e le strutture sono interessanti.
Lavorandoci, forse, ci sarà bisogno di qualche approfondimento: quella che si chiama “produzione”. Anche negli arrangiamenti. Ma si sente che si divertono a suonare. Buoni anche i testi. Raccontano cose che si fanno ascoltare.

Finisco qui?… no, dài, ho ancora un po’ di spazio. E quindi transigo alle ferree indicazioni e vi segnalo brevemente un po’ di altra bella gente, fra quella che mi è capitato ascoltare.

E allora… Moorder (tuba, trombone e basso insieme sono una bella – e coraggiosa – scelta.); Babel Fish (impostazione post e alternative-rock, strano effetto: mi ricordano cose di Durutti Column); Axe & Eugene (minimalismo, positiva sintesi, nell’affollamento sonoro che ci circonda); Le Foto Di Zeno (folk, o nu-folk, che gira bene); Hard Weather (sulla via Emilia come stare in un pub a Dublino).
Due proposte “frizzanti” e ironiche: Macola E Vibronda (composizioni “leggere” ma con sapori originali) e Feat. Esserelà (primo premio per il nome e buon progressive). Elettronica valida e non scontata: Emmanuele Gattuso (scenari sintetici che confinano con il rumore); Fabio Zaccaria (efficaci colonne sonore senza film); Biasanot (belli scuri ed evocativi). Segnalo anche Supernovos e Canaja: classico prog e rock, rock, rock: e che poi non si dica che amo solo le musiche tranquille…
E per finire (e questa volta chiudo sul serio), all’opposto: Paolo Buconi (straordinario violino… diciamo che è un po’ una specie dei “fuori quota” in questo contesto); Francesco Trento (nell’eterno pianeta del pianoforte); Misticanza (musica di confine: mescolanze fatte con sapienza).

Ecco qui. Cercateli e ascoltateli.

Incontri con i valutatori 2018

Il Centro Musica ripropone quest’anno gli incontri con i valutatori del progetto Sonda. La nostra intenzione è quella di portare a conoscenza degli iscritti di Sonda, e più in generale dei musicisti interessati, le varie figure professionali della filiera musicale. I valutatori di Sonda coprono i diversi aspetti del mercato musicale e possono fugare ogni dubbio o perplessità nel loro specifico campo professionale.
Gli incontri, rivolti principalmente e musicisti e gruppi musicali, sono aperti a tutti.
Si svolgeranno di pomeriggio e ruoteranno principalmente attorno agli ascolti dei brani; tutti potranno far sentire un proprio brano e avere una sorta di ‘report’ in diretta dai valutatori.

• sabato 24 febbraio 2018, dalle 14 alle 18
Incontro con Roberto Trinci (direttore artistico Sony/Emi Music Publishing); Luca Fantacone (direttore marketing Sony Music); Daniele Rumori (direttore artistico Covo Club); Marcello Balestra (produttore-editore musicale).


• sabato 24 marzo 2018, dalle 14 alle 18
Incontro con Giampiero Bigazzi (produttore discografico, musicista); Marco Bertoni (produttore, musicista); Gabriele Minelli (A&R manager di Universal Music Italia); Carlo Bertotti (produttore, autore).

Gli incontri si terranno presso l’Off all’interno del polo 71MusicHub (Via Morandi 71 – Modena) dalle 14 alle 18.
Ingresso gratuito.

Frammentarie memorie di un perduto produttore consumatore – Giampiero Bigazzi

INGSEYFS0349Mi capita spesso di pensare a come ho vissuto, da quando ero un ragazzino appassionato di canzoni, le trasformazioni del modo di ascoltare musica. Poi, da professionista, i cambiamenti nei sistemi di registrazione e di riproduzione del suono, e quindi i differenti supporti per la diffusione. Infine i luoghi dove poter acquistare la musica registrata. È una lunga storia, che si è svolta in poco più di mezzo secolo, e quindi memoria e novità s’intrecciano continuamente. Una storia di cui non ho perso un passaggio…

Quando ho cominciato a comprare dischi erano ancora “mono” e in seguito “mono compatibili” (cioè monofonici, ma suonabili anche nei primi rudimentali impianti stereofonici). Quando poi è arrivato lo “stereo” vero e proprio è stato un magnifico sballo: si ascoltavano i dischi dei The Beatles o di Hendrix con l’audio diviso con l’accetta, la chitarra e la batteria da un lato e le voci dall’altra. Era una specie di mono modificato, soluzioni un po’ maldestre ma utili. Infatti si imparava a suonare chiudendo un canale: quelli del disco suonavano e ci si poteva cantare sopra, oppure loro cantavano e noi si poteva accompagnarli con la chitarra o con la batteria. Ho cominciato a registrare anch’io così: utilizzando lo stereo come due tracce diverse.

L’avvento del 4 piste fu una rivoluzione totale: si poteva veramente “separare”! I diversi sistemi di registrazione (dal nastro analogico nei suoi vari formati, al DAT, alle cassette per l’ADAT, al computer…) sono andati di pari passo con le differenti modalità e supporti di ascolto. Il dibattito infinito sulle magnifiche capacità del vinile rispetto al digitale non arriverà a mettere d’accordo tutti, ma domina la sensazione che il microsolco in vinilite sia “più caldo”, più vero, più vicino al suono dal vivo. Quando, negli anni Ottanta, è apparso il compact disc, mi ci sono affezionato subito: meno ingombrante, più comodo da conservare, può contenere più musica, più a portata di mano anche il booklet con le informazioni (e in generale più simile a un libro… oggetto che amo particolarmente). Non mi sono soffermato molto sulla resa nell’ascolto. La compressione digitale dello spettro sonoro si sentiva nettamente, ma la facilità di utilizzazione del nuovo supporto – per quanto mi riguarda – vinceva (con buona pace delle centinaia di LP e 7” che collezionavo).

Circa un quarto di secolo fa, il gruppo che inventò l’MPEG-1 ha “risolto il problema”, diciamo così: veniva creato un formato digitale che avrebbe cambiato per sempre la diffusione, l’ascolto e anche l’archiviazione della musica registrata, quello che verso la fine degli anni Novanta si è conosciuto come mp3. Una bella trovata che ha decretato la moltiplicazione del multiplo a livelli globali e ha superato perfino il concetto di “pirateria”: nel senso che con la musica registrata ridotta a dei semplici “file”, quindi straordinariamente “trasportabile”, si è minato l’idea stessa di proprietà e quindi di diritto di autore. L’affermazione dell’mp3 (nato e considerato già vecchio rispetto all’mp4 della Apple) è andata di pari passo con la trasportabilità degli impianti di ascolto, dal walkman per le cassette fino all’iPod, la musica si ascolta in cuffia. Alla fine è ovunque e ce la possiamo portare dietro, in centinaia di possibilità multimediali e situazioni differenti (i social, il cinema, i video giochi, la televisione…). Un fiume sonoro, intrecciato, diluito, che crea perfino inconsce esperienze sonore. Tutto ciò ha ridotto al minimo lo spazio di ascolto consapevole. Oggi, questa “rivoluzione” (o “contro-rivoluzione”?) ha portato a un ascolto prevalentemente sommario. I cultori rimangono, ma sono sempre meno. Internet ha moltiplicato le occasioni, ma ha ridotto le capacità di concentrazione. E di conservazione: nei sistemi come Spotify non viene neppure archiviata nel proprio computer. Per dire: credo che non esista una Biblioteca del Congresso che raccolga gli mp3 come raccoglieva i primi dischi… Lo stesso concetto di hi-fi non esiste quasi più nel vasto pubblico. Da questo punto di vista è interessante cercare di capire gli effetti che le tecnologie hanno sulle relazioni umane. Si privilegia quasi più la “macchina” rispetto al contenuto: oggi le file fuori dai negozi si fanno per l’ultimo modello di qualcosa e purtroppo assomigliano alle file che si facevano per l’ultimo disco di qualcuno. Quindi la memoria va anche ai luoghi dove si accedeva alla musica. Dove la si poteva comprare: oggi (nonostante la fievole ripresa del mercato del vinile) son talmente cambiati fino quasi a scomparire. Più che comprare o vendere dischi, all’epoca si capitava nei negozi per conoscere musica e per parlarne. Sul bancone c’era sempre un giradischi disponibile e negli scaffali i migliori dischi d’importazione. Ci si avventurava in complicate teorie e analisi, vere e proprie recensioni fra musicisti, aspiranti discografici, studenti, affabili ragazze, creativi perditempo.

Il cammino tecnologico del suono riprodotto è intimamente connesso alla messa sul mercato e alla vendita del medium fonografico, il microsolco nei vari storici formati – 78, 45, 16, 33 giri tra lavagna e vinilite – e poi il compact disc: comunque un oggetto partecipativo, aggregante, condiviso fra musicisti e ascoltatori, grazie anche al luogo che presenta, vende, scambia, ma pure richiama, seduce, accoglie, informa, assiste. Una specie di zona franca di acquisto, di conoscenza e d’intrattenimento. Il negozio di dischi che è ormai un’oasi rara e oggi dalle caratteristiche “sociali” spesso diverse. (Meno male che, rispetto ai decenni precedenti, c’è una grande presenza di musica dal vivo, che resta impossibile da clonare: un concerto lo puoi videoregistrare, ma le emozioni che ti dà nel momento in cui si svolge sono impossibili da riprodurre artificialmente).

Incontri con i valutatori 2017

Il Centro Musica ripropone quest’anno gli incontri con i valutatori del progetto Sonda. La nostra intenzione è quella di portare a conoscenza degli iscritti di Sonda, e più in generale dei musicisti interessati, le varie figure professionali della filiera musicale. I valutatori di Sonda coprono i diversi aspetti del mercato musicale e possono fugare ogni dubbio o perplessità nel loro specifico campo professionale.
Gli incontri, rivolti principalmente e musicisti e gruppi musicali, sono aperti a tutti.
Si svolgeranno di pomeriggio e ruoteranno principalmente attorno agli ascolti dei brani; tutti potranno far sentire un proprio brano e avere una sorta di ‘report’ in diretta dai valutatori.

• sabato 18 marzo 2017, dalle 14 alle 18

Incontro con Carlo Bertotti (produttore e autore); Giampiero Bigazzi (produttore discografico, musicista); Luca Fantacone (direttore marketing Sony Music).

• sabato 25 febbraio 2017, dalle 14 alle 18

Incontro con Marcello Balestra (produttore-editore musicale); Marco Bertoni (produttore, musicista);  Daniele Rumori (direttore artistico Covo Club); Gabriele Minelli (A&R manager di Universal Music Italia).

Gli incontri si terranno presso l’Off all’interno del nuovo polo 71MusicHub (Via Morandi 71 – Modena) dalle 14 alle 18.
Ingresso gratuito.

Major vs Indipendenti (G.Bigazzi, G.Minelli)

RA100756Case discografiche multinazionali ed etichette indipendenti. Due facce della stessa medaglia. Due facce che hanno comunque un obiettivo comune, produrre musica, quindi dischi (non importa quale sia il supporto) e venderne il più possibile. Abbiamo cercato di capire con due esponenti della discografia cosa significhi oggi major e indipendente.

Giampiero Bigazzi (Materiali Sonori) e Gabriele Minelli (Universal Music Italia) si sono prestati a questo gioco al “massacro”. “C’è spesso, ed è la cosa di maggiore rilievo, una differenza economica. Consideriamo major quelle aziende discografiche che sono delle multinazionali, legate a gruppi che operano in tutto il mondo su più livelli nell’industria dell’intrattenimento. Più o meno è lo stesso meccanismo che esiste nel cinema (e in molti casi i marchi sono gli stessi)” ci racconta Bigazzi che continua “Oggi le major sono ormai solo tre, per ordine di grandezza: Universal (USA), Sony BMG (Giappone/Germania), Warner (USA). L’industria discografica quindi vede circa il 75% del mercato in mano a queste compagnie, poco più del 23% è realizzato dalle etichette indipendenti. Che non è poco. Ma questa fetta di mercato fuori dalle multinazionali non è formata solo da piccole realtà, spesso sono aziende nazionali di grande rilievo. Per indipendenti, dal periodo di fine anni Settanta, s’intende una modalità di comportamenti, che le distinguono dalle grandi compagnie. Fra le indipendenti, il rapporto con l’artista e con il prodotto musicale, è molto diretto. Spesso chi gestisce un’etichetta indipendente è anche il produttore, lavora in studio, concepisce il progetto insieme a chi suona. Capita anche che siano gli stessi musicisti a gestire l’etichetta. Le indipendenti, in fondo, rispondono solo a loro stesse, mentre le filiali delle major hanno capi multinazionali ai quali rispondere più sui numeri che sulla musica. Le indipendenti, inoltre, puntano sul concerto, elemento di base di ogni operazione musicale di oggi, e quindi spingono i musicisti a curare l’aspetto live. Spesso sono le stesse agenzie di booking che producono i dischi degli artisti da loro rappresentati. Le indipendenti faticano a mandare i loro cantanti al festival di Sanremo e quelle più serie non ci pensano nemmeno. Le indipendenti sono fuori dal gioco dei talent televisivi, che invece sono stati organizzati con la benedizione delle major, proprio come bacino di raccolta dei nuovi nomi da lanciare. Le indipendenti hanno, per forza di cose, meno soldi a disposizione”. Minelli, dal canto suo ci spiega come sia suddivisa una multinazionale: “La major è strutturata, nella sua parte ‘frontline’, che si occupa di progetti nuovi non di catalogo, come ogni altra label. Un’area A&R che segue lo scouting e lo ‘start up’ di ogni progetto; il marketing che struttura la comunicazione e la promozione che lo presenta ai propri referenti media (radio, tv, stampa, web). Il tutto è integrato con la parte commerciale, che si occupa della distribuzione fisica e digitale e del rapporto con i clienti e con quella legale e amministrativa che regola contrattualistica, rendiconti e pagamenti”. In questi anni di cambiamenti, di mutazioni e mutilazioni il mondo delle case discografiche è cambiato o no? “Innanzitutto il mondo delle major si è ridotto e ristretto, numericamente e come sfera d’influenza. Il digitale ha attivato un cambiamento, non solo nelle major chiaramente, ma anche nella fruizione e nella vita dell’opera registrata, che è ancora in atto e sotto gli occhi di
tutti. La vita delle opere, unita ad altri fattori come, per esempio, l’importanza dei singoli all’interno del consumo della musica (soprattutto per alcune fasce demografiche) e la rilevanza dei prodotti con provenienza e/o visibilità televisiva, ha reso più difficile l’investimento da zero su progetti completamente nuovi e avulsi da tutto ciò. Difficile ma non impossibile né proibito. Infine, molti grandi cambiamenti sono avvenuti sul fronte retail o commerciale: anche questi non riguardano solamente le major e non sono del tutto dissimili ai cambiamenti accaduti in altri settori merceologici” ci spiega Gabriele. Il punto di vista di Bigazzi è invece questo: “È cambiato il mercato della musica. A parte il live, che resta centrale per i musicisti indipendenti, oggi non c’è più un prodotto, un supporto musicale, dominante. Di musica ne circola tantissima, più che in altre epoche, ma viaggia su mille canali differenti e nessuno primeggia in modo consistente sugli altri. Quindi le etichette indipendenti, quelle che sono rimaste di una certa consistenza, hanno dovuto tenere conto di questo nuovo scenario. E quelle che stanno resistendo alla crisi economica globale si sono adattate, sfruttando ogni possibile occasione di diffusione della propria musica. Oggi si assiste anche al fenomeno della gestione diretta delle band e dei musicisti, che creano una società, s’inventano un marchio e producono i propri dischi (e spesso non hanno un vero e proprio catalogo, ma un titolo o due). E il concetto resta lo stesso, autogestione in un contesto editoriale ed economico organizzato: in fondo la scommessa delle indipendenti è tutta qui”. A questo punto una domanda per Giampiero è quasi d’obbligo. Perché sono state importanti le case discografiche indipendenti? “Oltre le major (che negli anni sono state diverse e si sono anche accorpate), l’idea di autogestirsi è stata sempre presente nella storia della musica e del disco. Perfino Elvis si stampò autonomamente il suo primo singolo e lo andò a distribuire fra le radio americane. In Italia mi piace ricordare l’esperienza di Cantacronache negli anni Cinquanta a Torino. Ma poi, tanto per rammentarne solo alcune, c’è il Clan di Celentano e anche la Numero Uno di Mogol e Battisti o la PDU di Mina. Perfino Claudio Lippi negli anni Sessanta creò un suo marchio, Disco Azzurro. Esperienze collegate nella distribuzione (e probabilmente in qualche modo anche nella produzione) alle major o a grandi compagnie nazionali italiane, ma che affermavano l’autonomia creativa e la gestione della propria musica. La svolta c’è stata poi con la rivoluzione punk, che a fine anni Settanta in UK e anche in molti paesi europei ha portato la nascita di tante etichette indipendenti che hanno definito con il loro lavoro, e direi soprattutto con la loro ricerca di talenti nuovi, l’idea di etichetta indipendente che è in vigore ancora oggi. Ovunque si è affermata la voglia di sperimentare, di ricercare, di osare. Per questo, storicamente e anche nella musica, è importante l’indipendenza e il controllo dei ‘mezzi di produzione’. Sposta l’orizzonte”. L’ultima battuta tocca a Gabriele per capire come si svolge il lavoro su una pubblicazione da parte di una major. “Non c’è alcuna differenza sostanziale nella maniera in cui si svolge il lavoro su un disco presso una major o un’indipendente. Il lavoro, piuttosto, cambia a seconda del tipo di progetto su cui si sta puntando e del mercato cui si riferisce. L’ossatura resta quella già descritta: il dipartimento A&R cerca nuovi artisti e/o coordina il lavoro su nuovi dischi di artisti già firmati, sia per il recording sia per la parte di ‘confezione’ del progetto, preparando strumenti quali le foto, i video, la grafica ecc. Strumenti che sono poi utilizzati dal marketing e declinati alla promozione, in maniera tale che del progetto ‘se ne parli’, e alla forza vendite, che si attiva affinché i propri clienti s’interessino e acquistino il prodotto”. Insomma Major e Indipendenti sono le facce di una medaglia che è stata lanciata in aria da tempo, ma deve ancora toccare il suolo per decretare il vincitore.