AKCEL FILIPPETTI: Old memories
Nato ad Ancona ma trasferitosi a Bologna, Akcel Filippetti è da sempre innamorato della chitarra. Da qualche anno si è lasciato rapire dal fingerstyle percussive guitar, iniziando un percorso come chitarrista solista. La sua prima fatica discografica è “Old memories”, un lavoro con sette tracce che mette in luce la sua passione per la sei corde e per il suo suono. Brani dall’incedere evocativo, scritti, registrati e prodotti in maniera totalmente autonoma. Un sentiero che si dipana tra tecnica ed emozione anticipato dalla pubblicazione di due singoli “Old memories” e “D.A.D.”, che nell’album figurano in scaletta al terzo e quinto posto. Se anche voi siete perdutamente innamorati della chitarra e di questo particolare mondo del fingerstyle percussive guitar “Old memories” è il vostro disco da ascoltare a ripetizione. Se, invece, non siete troppo amanti di una sei corde potrebbe essere il giusto album per farvi cambiare opinione. Un viaggio interstellare, alla scoperta di nuovi mondi. Là dove nessuno si era ancora avventurato. O perlomeno non in tanti.
(Autoprodotto) Digitale
DAVE: Fuori dalle finestre
Tornare a sorridere alla fine di una relazione, farsi forza e – appunto – aprire le finestre e cambiare aria, lasciando uscire i cattivi pensieri e gli spettri di un amore ormai passato. Questo è il leitmotiv di “Fuori dalle finestre”, primo singolo di Dave, progetto solista di Davide Calafato, cantautore classe ’92 trapiantato a Bologna dalla natia a Mazara del Vallo. Dopo anni di militanza in formazioni post-hardcore e alternative rock, il nostro ha deciso di tentare la strada del indie-pop, miscelando la propria necessità di cantautore con i beat della black music d’oltreoceano, equilibrando barre ritmate con ritornelli melodici. Tutto rigorosamente in italiano, quindi tanto di cappello. “Fuori dalle finestre” anticipa, assieme a “Livido”, quello che sarà il primo EP solista di Dave, intitolato “Glicine”. Il video del primo lo trovate su YouTube, mentre entrambi i brani sono già disponibili su Spotify, quindi la domanda è: lo state già ascoltando? E se non lo state facendo, cosa aspettate?
(Autoprodotto) Singolo Digitale
CORNER IN BLOOM: Easily
Amici da una vita, band da due anni, i Corner in Bloom si stanno prendendo, senza manierisimi di sorta, il loro meritatissimo posto nel panorama pop indipendente italiano. Ragionano come un collettivo e non si danno limiti di genere, se gli chiedi quali sono le loro band di riferimento ti risponderanno probabilmente “le band che ci piacciono”, senza approfondire ulteriormente. I brani dei Corner nascono da suggestioni cromatiche, accostamenti emozionali, mischiando gli stati d’animo sulla tavolozza. E così come la tristezza è blu, il singolo “Easily” è sulle tonalità del verde acqua, a cavallo tra l’indolenza di una domenica mattina e lo slancio estatico di un venerdì sera. Come quando, dopo una serata di bevute, sei sbronzo seduto sul marciapiedi che ti ripeti “non cambierò mai” e arriva l’amico di una vita a metterti la mano sulla spalla come a dirti “io credo in te, ce la puoi fare”. Forse è questo il punto di forza dei Corner, che suonano rassicuranti, familiari e allo stesso tempo raffinati e ricercati. Come un’ottima miscela di caffè nero, nella tua tazza preferita.
(Autoprodotto) Digitale
CAR3939: Simply Mente
Car3939 è il moniker con cui, dal 2006, in cantautore bolognese Giancarlo JC Parma diffonde la propria musica sul web e nel mondo. Iniziato come un canale YouTube di cover dedicate ai classici del rock chitarristico, nel 2017 arriva il debutto con le prime composizioni originali nel disco “Rock Places”, seguito a ruota da “Walking” (2018) e “Out of Things” (2019): ebbene si, con una media di un disco all’anno non si può dire che Car3939 non sia un autore prolifico, complice anche il fatto che fa tutto da solo, ma proprio tutto, dal mixaggio al mastering, incluso ovviamente scrivere i brani e suonare (quasi) tutti gli strumenti. E anche nel 2020 si tiene in media con questo quarto disco dal titolo bilingue “Simply Mente” – infatti contiene canzoni sia in inglese che in italiano – con 10 nuove tracce di rock chitarristico nella sua accezione più classica e che rispecchia le influenze dichiarate da Car3939, attraversando lo spettro dei grandi chitarristi da Dave Gilmour fino a Steve Vai. Il sound è certo retrò, non si discute, ma se cercate un disco di adult rock morbido le vostre peregrinazioni sono finite.
(Autoprodotto) Digitale
ATOMI: Armønia
“Non mi ricordo come stavo, prima di esser nato, ma un dolce bisogno di niente nel grembo, si, lo ricordo” cantava Morgan e , nonostante la musica di ATO-MI non abbia nulla a che fare con il cantautore monzese, la sensazione che evoca è proprio quella. Un Big Bang inverso dell’esistenza umana. Un ritornare nel ventre materno e galleggiare nel liquido amniotico, per poi avvicinarsi all’inesistenza, a uno step ancora precedente ed infine accedere all’infinito, ricongiungersi con il tutto. ARMØNIA è un Ep composto da cinque suite elettroniche, tra ambient, drone, glitch, noise che trovano la loro completezza nelle corrispettive opere di visual art, create ad hoc da altrettanti artisti visivi, in un dialogo costante tra suono e immagine. Si tratta del primo capitolo di una trilogia basata sull’utilizzo delle frequenze risonanti ricavate dalle orbite dei pianeti del sistema solare, un concept che collega la vita terrena a quella “altra”, spirituale, cosmica.
Lorenzo Setti arriva ad una prima prova, preparato e puntuale, plasmando mondi sonori, per nostra fortuna e a portata di click.
(Jikken Records) Digitale
Sonda Heart: il podcast
Sonda non rimane mai ferma.
Mai.
Neanche quando tutto il mondo deve distanziarsi socialmente.
Sonda ha pensato che mancava qualcosa. Mancava il suo podcast.
Ma cos’è un podcast?
I comuni mortali, cioè noi, lo potrebbero definire una trasmissione radio senza avere alle spalle una radio.
Il podcast è la possibilità di lanciare attraverso il web voci che diventano parole. Suoni che diventano canzoni. Esistono decine di migliaia di podcast nel mondo. Da quelli che raccontano come sbucciare una patata a quelli che sono sicuri di conoscere il metodo per vincere alla lotteria.
Noi, invece, non pensiamo di poter cambiare il mondo della musica. Però crediamo nei giovani che fanno musica. Quei giovani (e meno giovani) che riempiono le sale prove, le cantine, che scrivono brani su brani, quelli che imbracciano una chitarra per salvare il pianeta o più semplicemente perché hanno la necessità di scrivere una canzone d’amore per la persona che incrociano ogni mattina in strada.
Ecco quindi che Sonda Heart (trovare un nome non è stato così semplice come si può immaginare) è un racconto di progetti musicali legati al territorio iscritti a Sonda. È quello che i quattro minuti di SondainOnda ci impediscono di scandagliare, è quello che vorrebbero raccontare i musicisti ma manca loro lo spazio per farlo. Noi quello spazio lo abbiamo.
Lo abbiamo e vogliamo usarlo.
Sonda Heart è un sasso lanciato nello stagno della musica che potrebbe anche provocare enormi onde.
Qualche microfono, un registratore, un montaggio ed una sigla (da trasmissione seria), sono gli elementi che portano al risultato finale di Sonda Heart.
Un flusso di idee che sembra non fermarsi mai, perché ogni artista, ogni progetto, ha il diritto di mostrarsi al pubblico. Ha il diritto di farsi conoscere. Ha il diritto di essere ascoltato. Sarà poi il pubblico a decidere chi meriterà di proseguire o abbandonare il ring musicale (questo ring, comunque, non si abbandona mai in realtà).
Sonda Heart si aggiunge alle iniziative collaterali di Sonda: interviste video (SondainOnda), magazine (Musicplus), apertura di concerti, cd compilation e collana di singoli a 45 giri (Sonda Club).
Sonda diventa sempre di più una factory, una enorme factory che brulica di iniziative, tra sogni e realtà.
Perché Sonda non si ferma mai.
Neppure quando si riposa.
I pensieri dei valutatori: Marcello Balestra
La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.
Che prospettive vedi per la discografia nel futuro?
Premetto che la discografia che ho vissuto, major o indipendente di qualità, quella della ricerca, della produzione, dell’investimento e del sostegno di progetti artistici, non esiste più da qualche anno. Si è trasformata in acquisizione e veicolazione di progetti già in corsa, grazie al pubblico acquisito in rete o nei live. C’è comunque ancora un mondo fatto di persone e etichette appassionate e piene di energia, competenza e altruismo, che in varie forme anche in questi ultimi anni ha dato luce ad artisti nuovi, seguendoli passo dopo passo, per portarli a rompere lo schema del sistema di notorietà derivante dalla rete e cavalcato poi dalle major di oggi. Togliendo la parola “disco” ma anche “grafia”, posso dire che le “cliniche” specializzate per nuove forme d’arte e nuovi artisti di musica e progetti vari, saranno come i ristoranti di oggi, mixati con aree d’acquisto di abbigliamento o bici o telefonia, ossia agenzie che fanno o faranno principalmente altro, ossia propongono altre tipologie di progetti o prodotti da vendere, oltre a musica e ad artisti come contorno. Per cui vedo persone e aziende di altre aree merceologiche o di settori di marketing o di comunicazione, occuparsi della gestione del prodotto “musica” in sinergia con i propri prodotti e altri business da abbinare. Il lockdown è stato solo occasionalmente responsabile di un cambiamento già da tempo in atto, ma ignorato dalla pigrizia del settore ex discografico. Ora a mio parere è solo possibile la commistione e non più la separazione di prodotti, artisti e altri business, cosa già in atto adesso, ma in futuro sarà un binomio o un trinomio naturale.
Il lockdown è terminato: come sta andando la ripartenza?
Diciamo che per “lockdown” abbiamo definito il limite massimo alle nostre azioni fisiche e sociali quotidiane, ma non social. Terminato il primo lockdown della nostra storia, utile a farci capire cosa sia un lockdown e come potrebbe essere la vita di ogni giorno in caso di un suo ritorno, la ripartenza, quella del settore musica non c’è stata.
Abbiamo preso coscienza che anche gli artisti di chiara fama, al momento si sono dimostrati tutti decisamente poco influencer, tanto da rimanere chiusi in casa a fare esercizi di presenza social. Parlo di attività social e di pubblicazioni sul tema covid o nel periodo di lockdown, decisamente inferiori per qualità ed efficacia alle loro gesta precedenti, come se da soli e senza il supporto di staff produttivi, promozionali e strategici, non fossero più in grado di produrre un pensiero artistico, probabilmente timorosi di prendere posizioni vere o di sentirsi soli o incompresi nel farlo. La ripartenza quella che si misura solitamente con produzione e vendita è praticamente pari a zero. Il momento è ahinoi drammatico non per i numeri, ma per la mancanza di vere idee di ripartenza del settore o di idee rivoluzionarie in positivo. Abbiamo visto kermesse di artisti in Arena a Verona proporre ancora una volta loro stessi, come esempio di ripartenza, per ripartire da loro, ma in toni dimessi e decisamente dipendenti dalla realtà, quella della mancanza del pubblico ovunque, anche al supermercato mentre fanno la spesa. La fine del primo lockdown e il suo durante, ci hanno restituito la normalità delle persone dello show-business, la loro impotenza nel prendere posizioni o nel proporre soluzioni, tutti legati a doppio filo con un sistema che è crollato, facendo crollare anche la loro posizione, in attesa di un ritorno ad una normalità che è oramai del passato e non certo del futuro. Per cui se una ripartenza visibile la si può considerare nei settori percepiti come fondamentali dalla società civile, nella musica la fine del primo lockdown ha tolto anche quel poco di presenza social, di artisti che li hanno utilizzati in prima persona per “farsi vivi” ad un pubblico, che si sta abituando all’assenza di contatto, ma anche di dipendenza come fan.
Considerando che molte cose sono cambiate – forse temporaneamente, forse no – è concepibile per te trasformare permanentemente parte del tuo lavoro in lavoro a distanza?
Il lavoro in questo settore ha cambiato pelle, cuore e anima. Prima ci si vedeva e basta, ora ci si vede a pillole e quando ciò avviene è per riuscire a completare lavori che a distanza hanno preso il via e che senza vedersi almeno una volta a progetto, risulta impossibile chiuderli al meglio. Vero è che ad esempio i producer di ieri e di oggi hanno l’abitudine di lavorare a distanza, rintanati nei loro bunker creativi, nei quali montano voci di ogni artista su beat o strumenti suonati da remoto, fino a produrre progetti a distanza senza problemi. Io vivo gli incontri come scambio di energia e non solo come momento di lavoro. Per cui ove possibile ci si vede o faccio di tutto per incontrare le persone dal vivo, almeno per dare insieme un forte senso di intensità a ciò che progetto con artisti, autori e produttori. Ma tutto cambia e dopo la palestra del lockdown, ho imparato comunque a muovermi molto meno per lavoro e solo quando necessario, utilizzando al meglio i metodi di riunione a distanza, seguendo le novità da remoto, salvo comunque ambire a riprendere la vita “in giro” verso nuovi progetti, specialmente all’aria aperta.
La discografia è sempre più legata ai live: in assenza di live o con introiti più bassi che giungono dai concerti bisognerà inventarsi, per i prossimi anni, una formula di business diverso?
No dal mio punto di vista la discografia non è legata al live, sono gli artisti che oggi hanno bisogno del live per vivere o per completare il percorso promozionale o di notorietà acquisita con progetti artistici e discografici. La discografia in genere, salvo rari esempi, non vive di live e non si alimenta dal live ma di diritti connessi. Il live è uno strumento di business di agenzie, di management, di ticketing e di gestori di spazi fisici, oltre che degli artisti quotati. Una gran parte dei live era propedeutica alla consacrazione più o meno reale di diversi artisti in uscita con nuovi progetti, ma riferito alla discografia, il live ha giovato solo alla discografia e all’editoria musicale con grandi cataloghi. Intendo dire che live e discografia sono da sempre entità separate per interessi e tipologia di guadagni, con strapotere economico degli attori dei live a dispetto di una discografia che ancora oggi non ha una contrattualistica che gli consenta di ottenere introiti importanti dai propri artisti in concerto. Come dicevo sopra, salvo casi di agenzie collegate a case discografiche in termini di partecipazioni societarie, la discografia si affida al diritto connesso e ad esempio allo streaming che con i soli introiti da Spotify, consentono alle stesse major, di sostenersi senza la vendita di musica. La formula di business che sostituisca il live è sicuramente in corso di ricerca e verifica, come avviene per ricerca e sviluppo dei vaccini anti covid. La rete con le formule adottate attualmente per la musica live a distanza, non è certo la risposta utile a sopperire all’impossibilità di vivere veri e propri concerti da parte di artisti e pubblico, ma in termini di business le agenzie, i management, i gestori di spazi ecc, dovranno sforzarsi per intuire come le persone, noi cittadini, fan ecc, accetteremo di vivere gli artisti in nuove formule, affrontando costi che garantiscano al pubblico vere emozioni ed appartenenza allo show del futuro.
Secondo te l’epidemia ha portato a galla nella filiera musicale il superfluo che può essere eliminato? Se sì cosa?
Il covid ha creato un vuoto totale nella musica e nello spettacolo, portando a termine una rottura del sistema filiera musicale irreversibile. Il superfluo rimane presente e chiede spazio per continuare a darsi un ruolo, cercando di giustificare la necessità di servizi e attività oramai fini a se stessi. Parlo di ruoli promozionali classici, di processi di masterizzazione, di attività social e di uffici stampa tradizionali, di editoria e scouting classici, attività che erano già superate in era pre covid e oggi sono totalmente inutili, se non supportate da nuove strategie di collocazione di ogni singolo progetto nel suo ambiente comunicativo ed empatico. Parlo anche di ogni attore della filiera legato a mondi musicali e sonori privi di qualsiasi attualità, ma generalmente l’evoluzione cancella le ere precedenti anche senza pandemie!
Pensi che le richieste di artisti, management, ecc… dovranno per forza di cose essere ridimensionate?
Credo che il valore di alcuni artisti rimanga quello di prima, anche se spostato al futuro. Ovviamente se anche nel 2021 non si riuscisse a riprendere una serie di attività redditizie per queste categorie, per mantenere le richieste dovranno inventarsi nuove forme di spettacolo supportabili con sponsor mirati e coerenti, per compensare la mancanza di una parte di pubblico che oramai ha deciso di stare comunque lontano da situazioni di grande afflusso.
A nostro avviso è emerso un dato: il mondo dell’arte (musica, cinema, teatro, ecc…) durante la pandemia e anche successivamente è concepito come un passatempo e non come qualcosa di economicamente rilevante. Sei d’accordo? Se sì, pensi sia possibile fare qualcosa per cambiare questo stato di cose?
Chi è parte di questi settori inevitabilmente sente la mancanza di rispetto verso il proprio prodotto e il proprio lavoro! E’ sempre stato così, questi settori piacciono a tutti, sembrano i più affascinanti e liberi, capaci di creare grandissima visibilità a chi li sostiene, come sponsor o come network. Il fatto che oggi i social e la rete sfornino personaggi di ogni genere, capaci di comunicare in modo rapido, attuale e preciso ogni loro attività comunicativa, ha reso gli artisti della musica, cinema, teatro ecc. sempre legati a produzioni più ampie dell’home-made, meno capaci di attrarre pubblico solo con la parte artistica, senza interagire con il pubblico, quasi restando ancorati al vecchio mito dell’artista famoso e quindi necessario. Ecco che il rispetto delle istituzioni al gioco della musica è sfumato, per la perdita di magia del prodotto medio e del suo essere comunque necessario ad un pubblico. In fondo la musica più che lo spettacolo, pur avendo un ruolo sociale fondamentale, rimane un mondo considerato solo dal punto di vista culturale e non come area di lavoro del presente e del futuro.
In ogni caso le economie del settore e dell’indotto possono tornare degne di rilevanza se supportate dalla politica, da nuove forme di live e da sponsorizzazioni, per dimostrarsi interessanti anche in termini di pil.
I pensieri dei valutatori: Marco Bertoni
Penso (e spero) che il mio lavoro di produttore dopo la pandemia non cambierà.
Già da anni, soprattutto quando mi viene chiesto solo di mixare o masterizzare dei brani, si fa un intenso lavoro a distanza grazie alla rete, (spedendosi files, lavorando a medesime
produzioni da studi differenti grazie a clouds).
Ma il mio vero lavoro, cioè produrre un progetto sin dalle prime fasi di lavorazione, spesso dalla sala prove, poi in studio, prevede assolutamente il contatto umano, psichico, di discussione, di creazione, con gli artisti con cui collaboro.
Produrre, fare musica, creare fisicamente insieme qualcosa che poi si possa comunicare e possibilmente vendere e suonare dal vivo, fa parte integralmente del mio modo di lavorare e credo che sia la parte magica, dove dall’unione di persone diverse escono a volte in tempo reale momenti irripetibili che il produttore deve essere pronto a registrare.
L’alchimia dell’energia prevede la compresenza fisica.
Mi riesce molto difficile immaginare il mio lavoro unicamente svolto a distanza, o per lo meno se provo ad immaginarlo così, lo vedo molto meno interessante meno emozionante e meno efficace.
Alla mia attività, dopo il lockdown, si è tolto il freno a mano e sono potuti ripartire tutti i progetti che avevo in lavorazione. Rispetto alle cose nuove vediamo cosa succederà, è ancora troppo presto per valutare cosa si fermerà e per quanto tempo, in termini lavorativi ed economici.
A mio parere il ruolo del produttore e dello studio di registrazione come “factory” creativa e non solo tecnica rimane un anello ancora saldo nella filiera musicale. Il punto è il mondo che ci circonda, se ancora è in grado di consumare musica, soprattutto rispetto ai concerti e spettacoli live.
Durante la pandemia il mondo della musica, cinema, teatro, ecc… si è rivelato essere concepito come un passatempo e non come qualcosa di economicamente rilevante.
Siamo un paese piccolo, che muove numeri piccoli.
La ‘industria’ musicale italiana è un comparto di dimensioni economicamente ridotte.
Da un punto di vista macroeconomico il mondo dello spettacolo e della musica non può che essere visto se non come entertainment. La funzione industriale di ciò che facciamo o che tentiamo di fare è quella: intrattenere. Il core si sposta più sui providers che non sulle stars. La quantità a livello planetario scalza l’ipotesi (l’utopia?) di qualità a livello locale.
A mio parere l’aspetto veramente importante sul quale si dovrebbe fare leva dovrebbe essere quello culturale e quello artistico, prima di quello economico.
Qualcosa di virtuoso si potrebbe mettere in moto se ci fosse questa visione e la conseguente volontà politica di dare importanza e supporto. Non un sostegno tout court, ma una tutela delle arti tutte, alte e basse, non più viste come solo intrattenimento.
Se allarghiamo la visione del comparto prendendo in esame anche la valenza culturale e quindi sociale, ecco che le responsabilità politiche vanno ben oltre il conteggio del valore economico, ma diventano un perno su cui si gioca la possibilità di esprimersi e di creare e, quindi anche di lavorare e di produrre (nel senso economico).
Bisogna pur dirlo che in alcune circostanze il mondo della musica non è e mai sarà autosufficiente.
Ad esempio per quanto riguarda i giovani che iniziano a suonare o per quanto riguarda la musica di ricerca e sperimentale.
Sarebbe bello vivere in una società dove sia stabilito politicamente che si devono sostenere ambiti creativi ed artistici a prescindere, che siano comunque al di fuori di ciò che è entertainment.
Durante il lockdown centinaia di ragazzi e ragazze si sono messi con chitarra o piano davanti al telefono e hanno condiviso la loro canzone. Mi pare più interessante l’atto di questa generazione di esordienti che non il materiale scritto e prodotto.
Questo è forse più sociologia che non musica, certamente non mercato musicale.
Ricordando che i soldi li facevano i gestori di telefonia, li facevano i giganti del web, ricordando che in un attimo i sentimenti e gli slogan della pandemia sono stati fagocitati dagli spot pubblicitari, musicalmente ci ricorderemo forse di un giovane chitarrista che suona Morricone su Piazza Navona deserta, non di molto altro.
I pensieri dei valutatori: Carlo Bertotti
La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.
Venti-venti.
Come una guerra, probabilmente più di una guerra.
E non ho mai creduto a chi diceva che tutto questo ci avrebbe reso migliori. Perché quella solidarietà e quel senso di smarrimento che tutti abbiamo provato nelle settimane del primo lockdown si è via via trasformato nella stagione successiva in sorda rabbia, cecità ed egoismo.
Non può esistere un dualismo salute-economia semplicemente perché senza la prima la seconda non ha motivo di esistere. E se alcune categorie lavorative si sono viste travolgere dalla caduta di richieste, dalla mancanza di ordini, dalla chiusura di aziende e uffici, chi lavorava nell’industria musicale aveva da tempo già raggiunto una zona di disagio assoluto che la pandemia ha solo contribuito a mettere definitivamente in luce.
Gli artisti non hanno smesso di scrivere canzoni, certi produttori sanno ancora come dar forma ad un album, alcuni talent scout avrebbero ancora le capacità di individuare chi ha stoffa. Il problema è che però non esiste definitivamente più nulla di assimilabile ad un’industria discografica che possa gestire quello che per anni è stato anche un mercato fiorente che creava carriere e generava profitti.
Il CEO di Spotify Daniel Ek si è rivolto recentemente ai musicisti chiedendo di “produrre di più e più in fretta perché le esigenze del mercato pretendono quello”.
Potremmo chiuderla qui, perché questa frase dice tutto.
Per il Covid un giorno si troverà un vaccino, si perfezioneranno cure. Per la musica non può esistere un futuro se non si ammette a noi stessi per primi che il passato è definitivamente alle spalle, marcio, inerte, defunto senza possibilità di resurrezione alcuna.
La novità è che chi faceva parte del sistema associato alla discografia e che in qualche modo continuava a vivacchiare con musica, spettacoli e affini oggi dovrà fare i conti con un’economia di scala evidentemente non più sostenibile.
Chi scrive, suona e produce musica semplicemente non ha più margini (in questi ultimi anni i bassi costi di produzione con le realizzazioni homemade di trapper e simili o i produttori che fanno dischi in serie con suoni tutti uguali manco fossimo alla catena di montaggio, hanno semplicemente mascherato questo coma del sistema).
Adesso però anche basta: la decenza ha fatto il paio con il resto, la curva è piatta, il genio è altrove, il talento è annegato nella mediocrità.
A voler indicare i colpevoli non si farebbe un grammo di danno nell’indicare in ordine sparso lo streaming, il download selvaggio, i talent, i network radiofonici, le logiche colonialiste delle grandi case discografiche ma poi come si fa a dimenticare l’imbarbarimento sociale sempre più generalizzato? Una decadenza sempre più marcata nei costumi? Una coscienza civile sempre più latitante?
Veramente non ci rendiamo conto di quello che viene scritto, prodotto e messo in circolazione? Davvero non ci accorgiamo di quanto si sia oltrepassata la soglia del buongusto? Vogliamo parlare della qualità delle canzoni che imperversavano in radio quest’estate, quando ancora le cicatrici della prima ondata erano fresche ma si potevano ascoltare refrain imbarazzanti figli di menti sciatte e assolutamente privi di classe, misura e talento?
Ma sono discorsi che abbiamo già fatto in questi anni, logiche che ormai conosciamo alla perfezione. Con una piccola, semplice novità che il Covid ha portato in emersione: i soldi sono definitivamente finiti. Per tutti.
E’ vero, la sensazione per cui la musica sia stata vissuta in quest’ultimo periodo come qualcosa di non essenziale, di non rilevante sia economicamente che culturalmente è purtroppo un dato di fatto. E allora davvero qualcuno dotato di senno si aspetta ancora che si tornino a vendere album o a fare tour come prima?
Oppure c’è qualcuno lì fuori che pensa che mettersi in fila per farsi giudicare da “giudici” improbabili possa essere una soluzione?
O che ci possa essere la reale possibilità di credere ad un “sistema-musica” che ormai da anni ha smesso di svolgere la sua funzione?
Sarà banale, sarà sconcertante e paradossale ma l’unica soluzione che possa intuire per chi vorrà continuare a fare musica è quella di armarsi di tenace pazienza e coltivare il proprio talento facendo anche altro in modo da rendersi economicamente indipendente, continuando a pubblicare autonomamente i propri brani online, o a promuovere le proprie canzoni suonando ovunque sia possibile. Senza aspettarsi nulla se non la gratificazione e il compiacimento di essere coerentemente attaccati ad una parte vitale della propria esistenza.
Il disincanto, il pragmatismo, un po’ di sano cinico realismo ci salveranno.
Perché forse qualcuno tra la gente un giorno comincerà a rendersi conto che di nuove canzoni ci sarà reale necessità, perché il ricordo di quelle passate non sarà sufficiente a chi dovrà costruire un proprio personale bagaglio di esperienze ed emozioni legate anche alle note o alle parole di un ritornello o di una strofa. E allora si formerà spontaneamente un nuovo pubblico, qualcuno che esigerà un patrimonio inedito di canzoni che andranno a comporne i gusti e l’attitudine e in quel preciso momento nascerà spontaneamente un nuovo mercato e si riavvierà quel meccanismo virtuoso che renderà economicamente sostenibile una ripartenza.
Chi vorrà continuare a fare musica dovrà farlo come l’ultimo dei cavalieri jedi, superstite di un mondo che non esiste più ma testimone di una passione che non si riesce ad estinguere.
In ostinata, consapevole attesa.
I pensieri dei valutatori: Giampiero Bigazzi
La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.
Ok. Pensieri in libertà… riflessioni d’inizio dicembre. Anno orribile 2020.
Cosa posso afferrare dai molti pensieri che in tutti questi mesi hanno affollato la mia mente? E che si condensano in questi fiacchi giorni invernali?
Mi sono stancato di fare e vedere le cose in streaming, on line, digitali, fondamentalmente finte. Meno male che per la second wave nessuno ha avuto il coraggio di affacciarsi da un balcone con la chitarra. Come invece ci siamo scatenati nei primi mesi del Covid. A parte i cori dalle terrazze (obbligatoriamente ripresti con i telefonini e subito affidati ai social), è stato tutto un prolificare di dirette (o quasi) digitali, zoom, skype…
La successiva seconda esplosione della pandemia ha istituzionalizzato questi sistemi di comunicazione (ora abbiamo anche webinar!), dopo un’estate di tiepida ripresa dello spettacolo dal vivo. In molti, mancando alternative lavorative, si sono dedicati a proporsi come improbabili maestri della diretta in streaming. Ormai siamo abituati, per non sparire del tutto, ad apparire per forza su un computer o simili. La cosa positiva è che, mentre nella prima fase si chiedeva l’intervento casalingo degli artisti, adesso ci sono situazioni, sempre più diffuse, che hanno accettato l’idea che è giusto pagare il lavoratore dello spettacolo e della cultura anche per la sua creazione digitale. E la qualità giustamente – anche se non sempre – se ne è avvantaggiata. Da questo punto di vista l’uso del web e dei social per esprimerci in modo compiuto e “vivo”, resterà un congegno espressivo e di diffusione che continueremo a usare. E, senza esagerare, sarà un bene.
Si diceva il lavoratore dello spettacolo… Nelle divisioni cromatiche delle norme anti virus, un colore rosso totale ha coperto spettacoli e cultura. Spesso non se ne è capito la necessità, visto la serietà con cui tutti noi in estate abbiamo gestito i nostri spazi rivolti al pubblico. Ancora oggi, mentre scrivo, riaprono il mercato settimanale sotto casa mia (migliaia di persone con minimi controlli), ma non il teatro. È una ferita che colpisce tutti i livelli dell’arte.
C’è stato e c’è ancora un alto livello di disperazione per la mancanza di lavoro per centinaia di migliaia di persone e soprattutto di frustrazione per non essere pienamente considerati una risorsa per il Paese. Questa sensazione e la conseguente frustrazione rimangono, ma – a parte un inizio catastrofico in cui la “cultura” sembrava, nel pensiero dominante, solo turismo e musei – di fronte a continue proteste, le istituzioni hanno cominciato a considerare anche questo settore di lavoro. Nonostante questo, permane la delusione per cui il nostro mondo arriva sempre in fondo ai pensieri e alle azioni di chi ci governa, non considerando i numeri che fanno della cultura e dello spettacolo non solo divertimento e “cibo per l’anima” (che non è poco), ma anche occupazione e “produzione” economicamente rilevante.
Ma, piano piano, qualcosa si è mosso. Forse una lieve scintilla si è accesa anche nelle stanze ministeriali. Si è aperto finalmente un tavolo tecnico permanente fra operatori e Ministero delle attività culturali.
Si è diffusa questa nuova parola: ristoro, vetusta terminologia burocratica a cui, alla fine, ci siamo affezionati. Abbiamo accolto, contenti, i vari ristori che soprattutto il Mibact ha messo, pur confusamente, in campo.
L’impressione però è che un complesso di creazione culturale, oltre l’emergenza, non può essere basato sull’assistenzialismo. Si è abbandonato il “niente sarà come prima” perché era soprattutto un’affermazione incerta, ma nel nostro caso bisognerebbe veramente che le cose non ritornassero a essere come sono adesso.
Necessitiamo di regole certe e consapevoli, di leggi apposite (soprattutto per quanto riguarda la musica), di spazi giusti, di coinvolgimento della scuola (perché la matematica e non la musica? perché la letteratura e non il teatro come drammaturgia, e il cinema? cioè il linguaggio che è sintesi di tutto…). E ancora: rivedere l’accesso al Fus (Fondo unico dello spettacolo), riformare il codice dello spettacolo dal vivo, semplificare, uniformare, rivedere i meccanismi previdenziali, abbassare l’iva per la musica e lo spettacolo. Mentre si prova a superare le criticità di questo terribile momento, si dovrebbe individuare un progetto complessivo di ampio respiro: il nostro non è un “passatempo” per gioiosi saltimbanchi. L’ossimoro è dietro l’angolo: non vogliamo uscirne più forti ma con le ossa completamente rotte…