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Intervista doppia: Gianni Maroccolo e Andrea Sologni

L’intervista doppia mette a confronto, questa volta, due bassisti. Gianni Maroccolo, membro fondatore dei Litfiba, C.S.I., P.G.R., ancora impegnato a scrivere musica e salire su un palco e Andrea “Sollo” Sologni dei Gazebo Penguins, nonché produttore e proprietario dell’Igloo Audio Factory, centro nevralgico di tante produzioni indipendenti: Giardini di Mirò, Giancarlo Frigieri, Crimea X, Fine Before You Came, solo per citarne alcuni. A loro la parola.

GIANNI MAROCCOLO
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Una vita per la musica, quando ti guardi indietro, se lo fai, come vedi Gianni Maroccolo giovane?

“Mah… noto sul mio volto le mutazioni del tempo. Sento il mio fisico che arranca e che fatica sempre di più a stare al passo con la mente, ma dentro sono mosso dalle stesse passioni, dalle stesse speranze, dalla stessa indomabile curiosità di incontrare e sperimentare. Non c’è in me alcun disincanto o rimpianto. Oggi sono un po’ più saggio ma continuo a seguire il mio istinto e il mio cuore senza fare calcoli, senza accontentarmi dei piccoli successi vissuti, senza arroccarmi in certezze né vivere situazioni di comodo. Quando un progetto o una storia finisce, guardo avanti e cerco di andare oltre con la stessa incoscienza di allora”.

Hai fatto parte di alcuni dei gruppi rock più importanti della musica italiana. Come si diventa una band che lascia un segno?

“Credo abbia a che fare con le scelte personali. Non mi accontento facilmente e certi incontri credo non siano avvenuti per caso. Seppur con umiltà, ho sempre desiderato in cuor mio lasciare un piccolo segno del mio passaggio in questa vita e il mezzo per provarci è diventato “casualmente” la musica. Ho gironzolato cocciutamente alla ricerca dell’insieme e del talento e ho avuto anche un po’ di fortuna perché ogni incontro ha lasciato, almeno dal mio punto di vista, quel segno di cui parli. C’è voluto tanto lavoro, pazienza e umiltà ma soprattutto per ogni progetto d’insieme è necessario saper gestire il proprio ego. Un gruppo vive per sottrazione e sintesi. La creatività di ognuno deve essere finalizzata al progetto e non alla gratificazione personale. Credo sia un grave errore pensare che la soluzione migliore sia quella di dare il meglio di sé. Forse ho avuto la fortuna di incontrare musicisti che mi hanno aiutato a comprendere la musica nel suo insieme. Sin da ragazzo mi affascinava più l’arrangiamento di un pezzo, capire il processo creativo con cui si arrivava ad avere una composizione finale. Mi piaceva studiare le singole parti, le sonorità, le melodie e le ho sempre vissute non come “parti singole” ma come una sorta di magici pezzi di un puzzle. Ma le emozioni le vivo in modo forte ascoltando il “puzzle” nel suo insieme”.

Tu hai ispirato tanti bassisti ma quali sono state, invece, le tue ispirazioni?

“Ho iniziato a suonare il basso per caso e non credo di essere un gran bassista. Preferisco pensarmi un buon musicista, il basso, infatti, l’ho sempre usato come “mezzo” per dare note e suoni alle mie suggestioni. Non ho mai perso la testa per un bassista in particolare. Adoro una manciata di bassisti piuttosto sconosciuti ai più: J.J. Burnel, Peter Principle, Peter Hook, Mick Karn, Tina Aumont, Les Claypool, Kim Gordon. E poi due grandi bassisti/ musicisti/produttori: John Paul Jones e Rogers Waters. Grande stima per Jaco Pastorius anche se non mi piacevano i Weather Report. E poi il mito Mr. Groove: Bernard Edwards!”.

Quali sono gli equilibri all’interno di una band? Mi riferisco al fatto, per esempio, che solitamente il cantante assume un ruolo di protagonismo (nel bene e nel male) o che coppie di autori diventano preponderanti nei confronti degli altri componenti di una band.

“Ogni gruppo fa storia a sé e vive di propri equilibri e proprie alchimie. Spesso all’inizio certi “ruoli” si manifestano naturalmente sulla base di attitudini personali. Credo sia controproducente mettere in discussione ciò che, appunto, è naturale. C’è chi è maggiormente portato a scrivere testi, chi ad arrangiare, chi a smanettare sui suoni, chi a comporre armonie, o melodie e non c’è da inventarsi nulla se non lasciarsi trasportare da ciò che, di fatto, c’è. È sempre rischioso cercare di decodificare e comprendere gli elementi che creano il giusto equilibrio. Ogni volta che si fa, almeno a me è accaduto, le storie finiscono”.

Come si sopravvive, artisticamente parlando, alle mode, all’amore dei fan, all’invidia dei colleghi, alle canzoni che non vogliono girare per il verso giusto?

“Non so rispondere a questa domanda perché, davvero, ho sempre lottato per cercare di realizzare i miei sogni senza mai badare a ciò che mi girava intorno. È fondamentale comprendere bene l’epoca in cui viviamo, essere consapevoli delle mutazioni e viverle senza timori ma credo che un’artista debba riuscire a livello creativo ad essere oltre il tempo, oltre tutto. E se poi le canzoni non girano beh, meglio attendere che torni l’ispirazione invece di forzare un disco”.

Come sono nate queste canzoni: “Tziganata”, “Apapaia”, “Del mondo”, “Cupe vampe”?

“Tziganata da un giro di tastiere di Aiazzi su cui Piero iniziò subito a canticchiare quella che poi divenne la melodia del pezzo, poi arrivò il basso e successivamente il resto. Apapaia non ricordo bene ma sono certo che fu una gestazione piuttosto lenta, testo e melodia vocale arrivarono qualche tempo dopo la parte musicale. Ma credo che nessuno possa smentirmi se dico che sia valsa davvero la pena di attendere. Del mondo nacque una mattina in Bretagna da un giro di tastiere di Magnelli, lo suonò per un bel po’ ma nessuno gli andava dietro, era un bellissimo giro e avevamo paura di buttare delle note a caso. Poi dopo un po’ mi è venuto il giro di basso e a quel punto Ferretti iniziò a lavorare la melodia vocale. Il pomeriggio tornò col testo finito e noi completammo il pezzo. Su Cupe vampe c’è un vecchio aneddoto che vale la pena di essere raccontato. Cupe vampe è una delle canzoni di “Linea Gotica”, album ispirato alla resistenza e alle figure di Don Dossetti e del Comandante Diavolo. Giovanni una sera dette il testo di Cupe vampe a Francesco e gli disse che desiderava una musica molto grave e dolorosa. Rimanemmo io e lui fino a notte fonda a suonare, poi Francesco accennò il giro armonico di quella che sarebbe diventata la prima parte del pezzo, ci guardammo con soddisfazione e andammo avanti. A me venne fuori il finale in 6/8 su cui poi Giorgio mise un bellissimo solo di violino.
La mattina facemmo ascoltare la bozza a Giovanni che guardandoci ci disse piuttosto incazzato qualcosa del genere: “Se voi credete di fare un disco pop sappiate che io non sono e non canto come Baglioni“. Ci guardammo esterrefatti. Aveva appena ascoltato la musica di Cupe vampe, credo insieme a Memorie di una testa tagliata, una delle canzoni più tristi e scure dei C.S.I. Comunque sia, la si poteva definire in tutti i modi, tranne che una canzone pop. Cose che capitano in gruppi umorali come i CS.I.”.

Cosa ti ha spinto ad iniziare a suonare e a continuare?

“Credo sia stata la passione. Infanzia passata a percuotere pentole, ad ascoltare di notte ogni genere di radio e di giorno i 45 giri di mia sorella nel mangiadischi. Guardavo ogni genere di programma tv musicale e adoravo le colonne sonore degli sceneggiati di allora, sono cresciuto fondamentalmente con tre grandi passioni: il mare, la musica e il calcio che ho coltivato per anni senza nessuno scopo specifico. Vivevo in Sardegna, quindi mare bellissimo e musica ad ogni sagra o festa. Poi decisi che il mio mestiere sarebbe stato quello del marinaio e iniziai il Nautico ma la vita mi ha portato altrove e così, sempre senza rendermene conto, la musica ha preso il sopravvento sul resto. Non credo che smetterò mai di suonare (anche se in passato stava per accadere) così come non abbandonerò il mare. Un conto è fare musica, sperimentare, comporre, altra cosa è fare dischi e concerti”.

Come è cambiato negli anni, se è cambiato, il tuo rapporto con la musica?

“Non è cambiato. È qualcosa che fa parte di me. Molto semplicemente, se non amassi e vivessi la musica non sarei la persona che sono. È un rapporto molto viscerale e di rispetto, qualcosa che mi arricchisce (ahimè, purtroppo non in senso materiale), che mi aiuta a crescere, fa bene alla mia mente e al mio spirito. Suono e ascolto musica da sempre e ho imparato a scindere il “piacere della musica” da quello che ritengo il più bel mestiere che ci sia. Beh, forse accadrà che cambierò mestiere ma non smetterò di suonare e ascoltare musica”. Cosa ti colpisce quando ascolti una canzone che ti piace? “L’ insieme. E immagino che per molti sia la stessa cosa. Un approccio emotivo quindi privo di qualsiasi analisi mentale. Quando suono, riesco a estraniarmi totalmente da ciò che sto facendo e ascolto tutto l’insieme. Lo stesso accade quando ascolto una canzone. Solo dopo un po’ di tempo mi concentro sulle singole parti, sugli
arrangiamenti, i suoni, la voce e il testo”.

Qual è la canzone più bella e più brutta che tu abbia mai scritto?

“Ho la tentazione di risponderti da furbetto, qualcosa del tipo; quella che devo ancora comporre. Scherzi a parte, non saprei davvero e poi ho quasi sempre condiviso la composizione di canzoni con altri. Sono molto affezionato a Linea Gotica dei C.S.I. e a Louisiana dei Litfiba e, ad essere sincero, ritengo un pezzo non riuscito Io e Tancredi”.

I C.S.I. torneranno insieme a Giovanni Lindo Ferretti?

“I C.S.I. non hanno ragione di esistere senza Giovanni. Così come cessarono di esistere quando se ne andò Zamboni nel ‘98, e questo vale per tutti. I C.S.I. sono un’ insieme che per vivere necessita di tutti e cinque, e se uno di noi non c’è, non ci sono i C.S.I. Se ti riferisci al periodo in cui ci siamo ritrovati e abbiamo chiesto ad Angela Baraldi di cantare le “nostre” vecchie canzoni beh, credo sia improprio parlare di C.S.I. Cosa accadrà in futuro non lo so davvero. Navigo a vista, felice di avere con Francesco, Ginevra, Giorgio, Giovanni e Massimo, un vero rapporto di affetto e sana amicizia. La domanda giusta da farsi forse sarebbe: torneranno mai insieme i C.S.I.? E la mia risposta rimane quella di sempre: non lo so. Se ciò potesse accadere non mi tirerei di certo indietro ma possibilmente per produrre nuove parole e nuove note”.

Cosa è stato il C.P.I.?

“Una bellissima esperienza di musica e cultura condivisa. Incoscienti, visionari e poco avvezzi al music business, provammo a creare una vera e propria Factory all’interno della quale operavano creativamente due strutture produttive: Sonica a Firenze e I Dischi del Mulo a Reggio Emilia. Un tentativo di far circolare nuova musica, giovani talenti e al tempo stesso di creare progetti condivisi come ad esempio Materiale Resistente, il tributo a Robert Wyatt, Il Maciste e i raduni (che tu Andrea ben conosci!). Nel giro di poco tempo il C.P.I. divenne un piccolo punto di riferimento per creativi e artisti di ogni tipo, grafici, pittori, scrittori, videomakers, tecnici del suono, produttori, da noi c’era la possibilità di sperimentare e di crescere. E la Factory si trasformò velocemente in una ’big family‘. Sicuramente uno dei progetti più belli e importanti della mia vita”.

Quale eredità lasceranno i Litfiba e i C.S.I.?

“Non lo so davvero. E forse non credo spetti a me dirlo”.

Qual è il tuo consiglio per un giovane che vuole fare musica nel 2015?
“Capire al più presto se si è disponibili a fare della musica una scelta di vita. Dopodichè, non potrebbe essere altrimenti, ognuno troverà il suo percorso e il proprio spazio. Fare musica è una cosa, ricercare successo, ricchezza, fama è tutt’ altra storia”.

Cosa succederà alla musica nei prossimi anni?

“Continueremo a suonare, a produrre musica, ad ascoltarla. Le mutazioni epocali (come quella che stiamo vivendo) condizionano il mercato, la tecnologia, ma di fatto, e da sempre è così, nessun fenomeno sarà in grado di ’eliminare‘ la musica dalle nostre vite. A differenza di noi, la musica è, e sempre sarà, eterna. E ritengo ininfluente sapere se ce ne ’ciberemo‘ attraverso un lettore, un telefonino, un chip, o un giradischi”.

ANDREA SOLOGNI

sologni

Cosa ti ha fatto avvicinare alla musica?

“Mi sono avvicinato alla musica con l’hip hop, a 14 anni. Mi sono messo a produrre le mie prime basi con un Akai 950 e il primo cubase, che mi è servito tantissimo per il mio lavoro di adesso. Da allora ho deciso che prima che un musicista volevo essere un bravo tecnico del suono”.

Come mai hai scelto di suonare il basso, e quali sono i musicisti a cui ti ispiri?

“Ho imparato a suonare il basso per necessità, perché io e Capra volevamo fare un trio che poi sono diventati i Gazebo Penguins. Non credo di avere dei musicisti a cui mi ispiro, traggo ispirazione più da certi produttori e produzioni. Anche se un bassista che mi fa impazzire adesso è Joshua Abrams”.

È cambiato il tuo rapporto con la musica, rispetto a quando con i Gazebo Penguins non eravate famosi?

“Non ritengo assolutamente di poterci definire famosi! Abbiamo sempre fatto quello che volevamo fare e ci è ‘andata bene’, abbiamo potuto suonare tantissimo in giro e vivere tante belle situazioni. I musicisti ‘famosi’ fanno solo quello, noi abbiamo tutti un altro lavoro. Suonare rimane la nostra passione più grande, continueremo a farlo anche se non ci fosse un ritorno di notorietà”.

Come è nato l’Igloo Audio Factory? E come mai questo nome?

“È nato per la necessità di avere un posto dove poter produrre quello che desidero quando voglio e come voglio, oltre a registrare e mixare chiunque abbia bisogno. Prima di avere questo posto, con i Penguins e i Valerian Swing provavamo in un vecchio casolare dove ogni 4 mesi organizzavamo delle serate live chiamate ‘Igloo’. Una volta dismesso quel posto causa terremoto, ho deciso di tenere il nome come ricordo”.

Raccontaci un po’ come affronti il lavoro in studio con una band o un solista.

“Se accetto di lavorare a una produzione è fondamentale il lavoro pre-studio: sentire le bozze, le prove, dare una direzione al lavoro. Ascolto sempre le opinioni e i pareri di tutti, anche se su certe cose come i suoni o gli ambienti non transigo molto, per la buona riuscita del disco. Per gli arrangiamenti mi piace coinvolgere a pieno chi sceglie di lavorare con me, mentre si fa un disco bisogna pure sempre ricordare che tutti si devono anche divertire”.

Qual è la funzione degli studi di registrazione professionali come il tuo, ora che quasi chiunque può registrare con un computer e qualche software?

“La loro funzione è quella di sempre: garantire che la musica possa trasmettersi nel miglior modo possibile, con messaggi sonori ben precisi. Una produzione in uno studio è fondamentale per far si che le cose non suonino tutte uguali, che ci sia creatività nel fare un disco, che ricordiamolo è un prodotto di arte e creatività. Negli studi si può sperimentare con strumenti che a casa non si hanno, le idee possono centuplicarsi e trovare i mezzi giusti per incanalarsi”.

Cosa ti colpisce quando ascolti una canzone o un artista che ti piace?

“Mi colpisce la canzone in sé, se mi trasmette un’emozione appena faccio play. Ascolto se la voce è particolare, se ha senso assieme al resto, mentre se è strumentale mi devono colpire i suoni, l’ambiente. L’unico metro di giudizio di un artista, oltre alla validità del progetto in sè, è la serietà. La voglia di fare qualcosa senza la paura di doversi poi fare il mazzo per portarlo in giro. E anche un po’ di umiltà non guasta”.

Domanda aperta, diciamo: dal momento che vivi la scena sia come bassista di una band che come produttore, qual è lo “stato di salute” della musica indipendente in Italia?

“Ritengo che la facilità con cui ora chiunque possa fare musica abbia dato a chi ha veramente talento i mezzi per esprimersi, anche se genera una quantità enorme di cose fatte tanto per fare, che distraggono dalle poche cose realmente interessanti. In generale però l’età con cui un musicista può iniziare a farsi sentire a livello semi professionale si sta abbassando, ed è un gran bene”.

Un consiglio per un musicista emergente che vuole fare musica nel 2015?

“Di tenersi aperte tutte le possibilità, come può essere un lavoro part time ad esempio. Io mentre lavoravo per mettere in piedi lo studio e con i Penguins portavo in giro ‘Legna’, oltre a fare il fonico dal vivo per varie band lavoravo anche come proiezionista al cinema di Correggio. Per 3 anni non ho avuto vita sociale, ma ciò mi ha consentito di investire in quello in cui credevo. Bisogna essere sinceri e ammettere che prima che la musica diventi un lavoro possono volerci tempo e sacrifici”.

I live di Sonda visti da voi: The Talking Bugs

THE TALKING BUGS

Covo Club 18/04/2015. Main guest The Once

Talking_Bugs_OK“L’iniziativa è lodevole. La band emergente può raccontare di aver suonato in un bel locale aprendo a qualche artista noto. I gestori del locale hanno un riempitivo per fare l’ora di far suonare quelli bravi. Se va bene portano anche gli amici paganti che spendono in birra e drink al bar del locale. Non costano nulla se non una pizza da asporto, qualche consumazione e un sommario soundcheck”. A sentirli commentare così potrebbe sembrare che l’esperienza con le aperture di Sonda – o meglio di qualsiasi live in apertura a un artista già noto – non sia andata molto a genio ai The Talking Bugs, formazione indie folk bolognese nata nel 2011 e con all’attivo un album, “ViewOfAnonsense”, pubblicato nel 2013 via Urtovox. Eppure rimane il sospetto che ci sia un velo di ironia nelle loro parole, anche perché la data selezionata era di tutto rispetto: il live dei The Once, band canadese dalle sonorità folk, sul palco del Covo Club di Bologna. “Nessuno di noi li conosceva ma prima del concerto abbiamo ascoltato qualche cosa”, raccontano, “Niente male. Gli stili sono compatibili per utilizzo di sonorità acustiche, ma alquanto diversi per composizione e atmosfere. The Once propongono un folk di estrazione americana arioso, amabile, mansueto. Il nostro stile trova spunti melodici e ritmici più transeuropei, e le atmosfere sono più malinconiche e tormentate”. Seppure solo in funzione di “riempitivo” prima di “quelli bravi” (come si diceva qualche riga più su, no?) evidentemente i The Talking Bugs possono comunque dire di aver colpito il pubblico presente nel locale, anche se il loro è sicuramente un metro di giudizio alquanto singolare: “Noi non facciamo ballare o saltare. Ci sono attimi sospesi nelle nostre canzoni in cui il suono sparisce. Quando in quegli istanti non rimane niente altro che il silenzio e occhi che guardano, allora sappiamo che abbiamo conquistato il pubblico. Così è stato quella sera”.

I live di Sonda visti da voi: On March

ON MARCH

Off 18/04/2015. Main guest Cristina Donà

on_march_OK“Mi chiamo Davide, ho 19 anni e vivo a Bastiglia, un paesino a circa 8 km fuori Modena e da quando ho 12 anni ho la passione per la musica”. È quasi disarmante la semplicità con cui si presenta On March, al secolo Davide Pelliciari, una schiettezza priva di pose e fronzoli da “artista” che traspare anche nel suo modo di suonare e mettersi davanti alla telecamera (tanti i video sulla sua pagina Facebook) e che sicuramente si sarà percepita anche nella sua esibizione all’Off di Modena. Headliner della serata era Cristina Donà, cantautrice di lungo corso della scena indipendente, per la verità (forse complice la differenza anagrafica) quasi sconosciuta per il giovanissimo modenese: “Conoscevo Cristina Donà da appena qualche mese perché ero capitato su alcuni suoi video su YouTube”, confessa Davide, “Quando mi è stato proposto di aprire il suo concerto ero felicissimo, finalmente avrei avuto la possibilità di farmi conoscere da un pubblico diverso da quello dei pub. Mi sono trovato molto a mio agio “L’iniziativa è lodevole. La band emergente può raccontare di aver suonato in un bel locale aprendo a qualche artista noto. I gestori del locale hanno un riempitivo per fare l’ora di far suonare quelli bravi. Se va bene portano anche gli amici paganti che spendono in birra e drink al bar del locale. Non costano nulla se non una suonare prima di lei, è abbastanza in stile con il mio genere, anche se non cantiamo nella stessa lingua”. Una vera emozione trovarsi davanti a un locale gremito e attento a quello che succede sul palco, diverso dagli avventori dei pub spesso intenti a bere birra e chiacchierare tra di loro, tagliando le possibilità di interazione con il pubblico. “Davanti al pubblico dell’Off sentivo il bisogno di spiegare i miei pezzi, alla fine del concerto ho spiegato cosa volesse significare per me quell’ultima canzone e poi, da stupido, ho detto: ‘è stato un piacere suonare qui, e visto il numero di persone che ho davanti Cristina Donà dev’essere proprio brava!’. Il pubblico ha riso, ma quello che avrei voluto dire in realtà era quanto fosse meraviglioso che un’artista fenomenale come Cristina Donà avesse un pubblico così davanti a sé. Mi è uscita male, ero super emozionato”. Beh, più sinceri di così, si muore..!

I live di Sonda visti da voi: La Foto di Zeno

LA FOTO DI ZENO

Locomotiv Club 23/11/2014. Main guest Califone

IMG_3521p-copia“Menestrelli nordici assolutamente privi di look”: così sono stati defi niti, e amano ricordarlo, i carpigiani La Foto di Zeno, band che dalla sua nascita quasi dieci anni fa ha percorso parecchia strada e cambiato altrettante formazioni. Trio agli albori, poi sestetto, quintetto e ad ora quartetto, come ironicamente ci confidano oggi sono “padri di famiglia in sovrappeso ma ancora assolutamente privi di look”, non cantano più in italiano ma bensì in inglese, e nel 2012 hanno autoprodotto l’esordio “Redistance”, registrato all’Igloo Audio Factory di Correggio e supportato graficamente dall’estro di Gara di Nervi a.k.a. Robert Rebotti 2007. Data la loro predilezione per le atmosfere malinconiche dei mari del nord, l’occasione ghiotta per buttarli sul palco del Locomotiv di Bologna è arrivata con il live degli statunitensi Califone: “Li conosciamo bene e aprire il loro live è stato un grandissimo onore, onestamente ci è sembrato di non aver stonato con le loro atmosfere, mentre in altre occasioni ci siamo sentiti come cavoli a merenda. Oltretutto il Locomotiv è un locale di culto quindi non potevamo chiedere di meglio”. Esperienza positiva quindi per i La Foto di Zeno, che non erano comunque alla prima esperienza come opener di un live di livello, avendo già diviso il palco di un piccolo teatro modenese con i Balmorhea. Occasioni che non capitano però tutti i giorni, esattamente come non capita tutti i giorni di ritrovarsi un fonico dall’orecchio assoluto. “Durante il soundcheck”, racconta la band, “Il fonico del Locomotiv si è avvicinato al palco, si è fermato e fi ssando una spia ha detto: ‘Larsen! Violoncello, dammi un FA# della terza, siamo tra i 170 e i 190’. Abbiamo pensato che fosse una ‘tarapia tapioco’ e invece no, quel fonico era semplicemente un fenomeno. Caro fonico, se stai leggendo, grazie ancora e complimenti!”.

I live di Sonda visti da voi: Kairoi

KAIROI

Diagonal Loft Club 4/3/2015. Main guest Helmut

I Kaïroï sono un duo molto particolare (elettronica miscelata ad un approccio classico e mille influenze) che ha fatto da spalla a un artista particolare, il tedesco Helmut. Per il duo è stata la prima volta al Diagonal: “Non conoscevamo affatto il club di Forlì ed è stata una splendida scoperta. Locale bellissimo, accogliente e ben predisposto a ospitare musica dal vivo”. Un incontro tra Italia/Francia (i due Paesi di provenienza dei Kaïroï) e la Germania: “Helmut lo abbiamo ascoltato per la prima volta quando abbiamo scoperto di dover aprire un suo concerto. È un solista che gioca con chitarre, loop machine ed effettistica. Come approccio e intenzione ci assomigliamo, solo che lui usa strumenti analogici, mentre noi prettamente digitali”, aggiungendo anche uno spassionato parere sulle persone che gestiscono il Diagonal: “Il gestore e tutta la crew del club sono stati splendidi, accoglienza da serie A, disponibilità e cortesia massima. Quando suoni in un posto in cui già ti trattano da musicista, è tutta un’altra storia. Anche con Helmut, ragazzo berlinese molto umile e simpatico, è stato alquanto piacevole. Sentir parlare della sua città da un berlinese, non è un’esperienza che ti capita tutti i giorni. Berlino, almeno per noi, è una di quelle città che immagini al top per la musica, almeno così è dai racconti di amici che sono andati a vivere lì. Sentirne parlare da un nativo ha tutto un altro gusto, anche se magari ti smonta qualche ideale che ti eri costruito sui racconti di altri”. Insomma una serata che nonostante il maltempo ha registrato il pubblico delle grandi occasioni: “Noi siamo rimasti molto soddisfatti. Il Diagonal è fondamentalmente un locale stile pub, con tavolini e sedie, non c’è una pista dove la gente può rimanere in piedi sotto a un palco. Però il pubblico era ugualmente attento e curioso ad ascoltare e capire ciò che proponevamo. Senza lesinare applausi e consensi, assieme agli ormai immancabili post live sulle loro pagine Facebook e Instagram. Anche se fuori pioveva a dirotto, dentro c’era il pienone”. Un’iniziativa che i Kaïroï hanno promosso a pieni voti: “Pensiamo che sia un’idea molto importante. Il confronto con altri musicisti, specie se di un Paese diverso, addetti ai lavori e pubblico, è la miglior sala prove per una band. Nelle cantine a provare ci passi la maggior parte del tempo, studi il tuo suono, i tuoi giri, le tue melodie ma il confronto ti forma. L’ascolto degli altri, le storie, gli applausi e anche le smorfie, sono la spinta che ti aiuta a crescere e a capire ciò che vuoi comunicare”. Una serata che sarà ricordata anche per il preconcerto: “Il Diagonal ha offerto una cena a base di prodotti tipici emiliani romagnoli e ci viene ancora in mente che Helmut era estasiato a ogni boccone di mortadella o di formaggio”. Il cibo è cultura, dicono, per noi di Sonda lo è anche la musica.

I live di Sonda visti da voi: Freddie B

FREDDIE B

Off 7/11/2014. Main guest Ghemon

freddie-bOKL’hip hop con il suo carico di rap è stato il protagonista di una serata all’Off con Ghemon e una spalla bolognese che si muove negli anfratti di un mondo in rima, che si fa chiamare Freddie B. L’artista petroniano si era già esibito sul palco del club modenese: “Conoscevo l’Off ci avevo già suonato con il mio vecchio gruppo alcuni anni fa in apertura agli Uochi Tochi” e ovviamente conosceva le gesta artistiche di Ghemon: “Sì, lo conoscevo già. Diciamo che abbiamo le stesse radici, poi nell’ultimo periodo Ghemon ha iniziato a comporre canzoni con un altro stile più tranquillo, più soul. Un bello stile”. Conoscendo già il locale e le persone che lo gestiscono Freddie B sapeva dell’accoglienza che avrebbe trovato: “Sono stati tutti molto attenti alle nostre esigenze e molto alla mano. Mi è piaciuto esibirmi all’Off e ci tornerei sempre volentieri”. Però quando c’è di mezzo il rap, spesso e volentieri, ci possono essere delle sorprese, sul palco e in mezzo al pubblico: “Sapendo che Ghemon è su una scia più tranquilla, avevo un po’ di timore che la platea non capisse e non apprezzasse la mia musica. Invece il riscontro è stato positivo sia all’Off sia su Facebook”. Freddie B, iscritto da tempo al progetto Sonda, ha voluto esprimere il suo parere anche sulla possibilità offerta agli iscritti di aprire alcuni concerti: “Sicuramente è un’opportunità che si dà agli emergenti. Infatti è un peccato vedere artisti di fama non ’utilizzare‘ le nuove leve. Queste situazioni possono dare l’opportunità di essere visti e di dimostrare il proprio valore. Essendo un periodo di povertà per la nuova musica, queste occasioni sono sempre ben accette. Oggi se vuoi suonare devi essere una cover band, perché chi fa musica originale ha sempre più difficoltà a esibirsi”. Una serata memorabile che sarà ricordata da Freddie B e dalla sua crew anche per un aneddoto: “Sicuramente la ’qualità‘ della cena, che si è trasformata in una bella vicenda da ricordare, ridendoci anche su”. Musica e cibo, un connubio, a volte, quasi perfetto.

I live di Sonda visti da voi: Cabrera

CABRERA

Off 19/12/2015. Main guest Fast Animals and Slow Kids

cabreraOK“Avevamo già suonato due volte durante il periodo estivo dell’Off e Marcello, il nostro bassista, ci ha addirittura festeggiato un suo compleanno”, ci dicono i Cabrera a proposito del locale modenese che ha ospitato la loro apertura, continuando: “Conoscevamo molto bene i Fast Animals And Slow Kids, Jason, il nostro chitarrista, è un loro grande fan. La nostra musica è perfettamente in linea con il loro stile”. Per i Cabrera è stata anche l’occasione per scambiare qualche battuta con le persone che gestiscono il club di Modena: “Abbiamo avuto modo di conoscere meglio Valerio e Filippo. Tra noi e loro si è creato un rapporto di collaborazione veramente fantastico. Filippo ci ha proposti a uno dei festival più interessanti ai quali abbiamo mai partecipato, il Bleech Festival, organizzato da ragazzi incredibili, vi consigliamo di andarci alla prossima edizione, mentre Valerio ci ospiterà nuovamente all’Off nei prossimi mesi”. Situazione amichevole anche con la band headliner: “Per quanto riguarda il rapporto con i FASK si è creato un clima davvero rilassato, del quale non possiamo che essere soddisfatti”. Una bella atmosfera che si è avvertita anche durante il concerto: “Il locale era pienissimo. Abbiamo visto gente muoversi, cantare e ballare. Insomma, come si suol dire, erano tutti presi molto bene”. A proposito del rapporto con Sonda ci tengono a sottolineare: “Il progetto Sonda ha fatto tanto per noi Cabrera, sia per quanto riguarda le occasioni di apertura, sia per i servizi che offre ai musicisti modenesi, ci riferiamo, ad esempio, agli incontri con i produttori delle case discografi che e siamo contentissimi che continui a tenerci in considerazione per le sue iniziative. Quindi non abbiamo migliorie da consigliare”. Sicuramente i Cabrera ricorderanno la serata all’Off per tanti motivi ma forse per uno in particolare: “Eravamo così tesi che ci siamo sdraiati sul palco prima che entrasse la gente nel locale, per rilassarci. Avevamo i nervi a fi or di pelle”, aggiungendo anche “Quando in seguito abbiamo suonato per la seconda volta con i FASK già ci conoscevano e ci hanno invitato in camerino a bere e fare due chiacchiere. Insomma tutto molto molto bello”.

Sonda Club

PB1Sonda ha deciso di “appropriarsi” di un nuovo e fiammante supporto sonoro. Si chiama vinile, un pezzo di plastica con un lungo solco dentro il quale viaggia una puntina, montata su un braccio, parte integrante in un oggetto meglio conosciuto come giradischi. Un vinile è un supporto che trasuda passione per la musica, come Sonda, che ha bisogno di essere maneggiato con cura, come gli iscritti a Sonda e ci ricorda che un tempo lontano la musica ci faceva sognare o imprecare proprio dentro questi oggetti di plastica contenuti in copertine che erano vere e proprie opere d’arte. Sui vinili sono state pubblicate pietre miliari e con i vinili è stato immaginato tutto e il contrario di tutto. Se il nero era il colore standard, qualcuno pensò, ad un certo punto, di colorarli, sagomarli, inserire sotto i solchi foto e disegni, o omaggiare cartoline, adesivi, inviti, patch e qualsiasi cosa potesse veicolare il messaggio. Sonda Club sarà una collana di singoli a 45 giri. Abbiamo pensato alle serie entrate nella storia pubblicate dall’inglese Rough Trade, o dall’americana Sub Pop, che hanno segnato un punto di svolta per generi musicali, artisti o scene cittadine poi diventate mondiali, abbiamo pensato a copertine graficamente uguali, com’erano i singoli della Motown o della Stax Records, abbiamo pensato ai singoli colorati (e ci sono piaciuti), abbiamo pensato di inserire dentro ogni copertina un foglietto che darà delucidazioni in merito alla collana (come la maggior parte dei singoli “do it yourself” diventati epocali), abbiamo pensato a tirature limitate di 300 copie, abbiamo pensato di omaggiarli, abbiamo pensato, facciamoli. Ogni singolo vedrà la presenza di un artista iscritto a Sonda e di un artista più conosciuto (emiliano – romagnolo) che farà da “garante”. Sonda Club sarà una collana di canzoni legate al territorio, una sorta di cartina tornasole per artisti e produzioni dell’Emilia-Romagna. Sonda Club inaugura la sua missione con due singoli. Paolo Belli accompagnerà i bolognesi New Colour. I Giardini di Mirò salperanno insieme ai ravennati Kisses From Mars. Ad impreziosire ulteriormente questo doppio debutto la presenza del Trio Medusa nel brano di Paolo Belli (“Storie”) e la manipolazione di Teho Teardo per il brano dei Giardini di Mirò (“Rapsodia satanica XVII”). I New Colour ci propongono un brano soul intitolato “Why did we say goodbye?”, mentre i Kisses From Mars hanno scelto di aderire a Sonda Club con un pezzo post rock/psichedelico intitolato “Butterfly”.

Un ringraziamento a tutti gli artisti che hanno partecipato gratuitamente alla collana di singoli.

Sonda Club ha scelto di annusare l’odore del vinile colorato.

Sonda Club ha iniziato il suo viaggio.

Il produttore artistico devo proprio chiamarlo? #2 (C.Bertotti)

INGCHYSS0290“C’era una volta il produttore artistico. Così come c’era l’arrangiatore, il paroliere e i cosiddetti “turnisti”… Poi sono comparsi Linn 9000, Atari e il magico protocollo MIDI: da allora, per chi voleva fare musica, tutto è diventato più democratico e accessibile. Una mezza rivoluzione, che come tale, ha purtroppo lasciato sul terreno anche un patrimonio ineguagliabile di esperienze e professionalità.

Molti figli dei giacobini di allora, oggi fanno musica senza sapere granchè di musica, arrangiano a orecchio un tanto al chilo e sulla carta d’identità hanno scritto ‘produttori’. Tanto quando vai in comune a farla, la carta d’identità, alla voce professione puoi dire qualsiasi cosa. È gratis. Oggi è difficile spiegare cosa dovrebbe essere un produttore artistico, è un ruolo come l’ala destra: di Causio o Sala in giro non ce ne sono più da tempo… Però conosco artisti che con il tempo sono diventati produttori di sé stessi. Gente con i controcoglioni che però, una volta conclusi i mix, si è spesso tormentata per un risultato che, in qualche modo, non rispettava le esigenti aspettative del proprio ego oppure più banalmente, faceva imprecare per le quantità smisurate di Malox assunte durante la lavorazione di un progetto troppo ‘sentito’, indispensabile e imprescindibile.

Quando devi elaborare o mettere a fuoco delle canzoni dandogli forma e identità è molto difficile riuscire a farlo su materiale che hai pensato tu fin dalla prima stesura. Sei condizionato, magari ti innamori di un arrangiamento che in realtà penalizza il brano in questione, non sei imparziale e questo pregiudica la visione obiettiva che più occorrerebbe in questa fase del lavoro. Il produttore ascolta delle canzoni, conosce chi le ha scritte, cerca di comprendere quali siano le coordinate attorno cui muoversi, le interpreta e immagina una forma e un indirizzo da dare all’intero progetto.

Non si limita a ‘vestire’ una serie di canzoni ma ipotizza un universo di riferimento. Uno spazio che NON è solo sonoro, ma è anche e soprattutto una messa a fuoco, la ricerca di un’identità, una conferma di quella precedente o un sovvertimento totale. Ho lavorato con diversi professionisti in questo ambiente: tecnici esperti, specialisti di ogni genere musicale, geni del marketing, tutta gente comunque competente in materia di tendenze e suoni. Ma in realtà in vita mia ho lavorato soltanto con due veri e propri “produttori”: Carlo Rossi e Roberto Vernetti. Entrambi piemontesi, entrambi geniali, entrambi fermi e irriducibili nelle loro convinzioni. Due fuoriclasse della musica con un’attitudine e un talento fuori dal comune.

Sono stato fortunato. Con Roberto ho potuto sgrezzare e affinare la conoscenza del suono. Da Carlo ho imparato la sintesi e l’armonizzazione fra l’elemento umano e la musica. Ho lavorato con Carlo Rossi a Revigliasco nell’inverno del 2005. C’eravamo conosciuti qualche mese prima a Torino ed erano bastati pochi minuti per capire che era una persona con la quale volevo lavorare. Facevo musica da tanti anni e gli ultimi due album pubblicati con la Bmg Ricordi ce li eravamo prodotti da soli (come predico bene e razzolo male io, nessuno mai…). Carlo ha riportato le lancette dell’orologio a cinque anni prima. Abbiamo lavorato nella sua casa-studio per tre mesi passando dalle ultime giornate di fine estate alle prime nevicate di inizio dicembre. I brani che sembravano già praticamente pronti per la stesura definitiva sono stati destrutturati, spogliati e privati di tutto ciò che non fosse strettamente essenziale. La cosa non era prevista, inizialmente non capivo e osservavo fra l’inquieto e il sorpreso, ma quando abbiamo riascoltato il materiale in quella forma così scarna tutte le convinzioni maturate in fase di scrittura e pre-produzione si sono automaticamente dissolte.

Carlo ci aveva posto di fronte a una semplice questione: che canzoni avevamo scritto? Quali e soprattutto quanto ci piacevano? Non veniva messo in discussione il genere o la qualità degli arrangiamenti. Semplicemente si voleva concentrare sull’essenza del nostro lavoro: il significato di 4 minuti di parole e musica. La fase successiva è stata intensa, faticosa ma soprattutto gratificante. In due mesi abbiamo riscritto praticamente tutti gli arrangiamenti, dalle ritmiche alle parti di orchestra. Carlo era lì, in maniera discreta ma tremendamente efficace: la notte buttavamo giù materiale su materiale, al mattino lui arrivava, rifiniva, tagliava e il pomeriggio ci si confrontava assieme.

Oggi, a distanza di tempo, credo sia il disco che suoni meglio tra tutti quelli che ho avuto la fortuna di scrivere e pubblicare. Grazie di tutto Carlo, è stato un vero onore”.

Il produttore artistico devo proprio chiamarlo? #1 (M.Bertoni)

INGCHYSS0631Il produttore artistico è una figura avvolta nell’ombra, soprattutto negli ultimi anni, dove tutti possono esserlo (come possono essere allenatori della nazionale di calcio). In realtà, però, chi è o cosa fa un produttore artistico in un mondo fatto di sette note? Lo abbiamo chiesto a due musicisti (ci piace mettere per prima questa parola) e produttori: Marco Bertoni e Carlo Bertotti. Quest’ultimo ci ha inviato un suo scritto, Marco invece ha risposto alle nostre domande perché ci stiamo convincendo sempre di più che non tutti possono essere allenatori e produttori. “Una volta, ilproduttore artistico in ambito musicale, era quella figura professionale che funzionava da interfaccia tra l’artista e la struttura che commissionava il lavoro discografico. Quindi il produttore stava tra l’artista, aiutandolo a confezionare il suo lavoro, interpretando e recependo le sue idee artistiche, e la casa discografica. Cercava di rendere il prodotto il più commerciabile possibile, in un’ottica non solo d’immediato successo ma anche di carriera musicale dell’artista. Gli artisti erano legati alle case discografiche per almeno cinque anni con l’impegno di realizzare tre album e lavorare con loro voleva dire anche investire sulla loro crescita ‘spalmata’ nel tempo. Oggi il produttore artistico è quella figura professionale diversa, che aiuta sempre l’artista a realizzare e a mettere a fuoco il suo lavoro, ma si colloca tra lui e ‘il mondo’. L’artista è diventato nella maggior parte dei casi il committente di se stesso, cioè colui che investe tempo, energie e danaro nella produzione di brani, al fine di realizzare un master. Il master, anche se non vi è più l’industria discografica, resta comunque un importante asset sempre fondamentale per un progetto e in una strategia musicale. Oggi, che l’artista sia esordiente oppure no, il produttore artistico deve avere un’abilità di messa a fuoco del proprio lavoro, non solo dal punto di vista musicale, ma anche dal punto di vista di strategie, che incidano sull’identità del prodotto e sulla gestione dello stesso una volta realizzato per fare in modo che sia concretamente pubblicabile”, ci dice Marco Bertoni, facendo luce sul ruolo (nel) passato, presente e futuro di un produttore artistico. In un’epoca dove esisti solo in base ai “mi piace” che ottieni (per i motivi più disparati anche in campo musicale), dove la musica è un superfluo, quasi un peso da sopportare perché altrimenti non si giustificano i concerti, le comparsate televisive, le programmazioni radiofoniche, il ruolo del produttore artistico diventa fondamentale, invece, per tutti i musicisti che ancora scrivono canzoni con l’intenzione (seria) di farle ascoltare e dire qualcosa (il genere di appartenenza non conta, nella storia ci sono stati brani pop socialmente più rilevanti di elucubrazioni cantautorali). Quindi come lavora un produttore artistico all’interno di un mercato sempre più ristretto? Dalle parole di Marco: “Posso raccontare cosa faccio io, anche perché, per l’età che ho, la parte iniziale della mia carriera si è fondata su un know how maturato nel tempo in cui i committenti erano le case discografiche e in cui il prodotto era confezionato per il mercato discografico. Oggi produco artisti, soprattutto esordienti, che mi ‘ingaggiano’, proponendomi progetti. I progetti che ritengo interessanti e stimolanti e ‘buoni investimenti’, li curo iniziando dai provini, dalla sala prove e da tanti discorsi riguardanti la strategia di dove e a chi si vuole e si può proporre il lavoro. Quindi diciamo che la mia figura si è evoluta da un momento meramente tecnico e musicale (la confezione delle canzoni nelle varie fasi del lavoro e cioè le pre-produzione, l’arrangiamento, la produzione in studio di registrazione) a un processo lavorativo che aiuta e coadiuva l’artista nel realizzare qualcosa che sia adatto a una strategia che si è stabilita e costruita e che comprende cosa fare e come farlo, per giungere alla pubblicazione e alla promozione del lavoro: una continua disamina e ricerca di che cosa serve per l’inizio o la continuazione di una carriera”. La necessità di un produttore artistico diventa quasi indispensabile, come prosegue Bertoni: “Il bisogno di avere un produttore artistico risiede nel fatto che al di là della tecnologia, che oggi più facilmente aiuta nell’auto produzione, una persona che abbia competenze della tecnica musicale, della tecnica della produzione sonora, delle attuali forme di mercato e delle tecniche della comunicazione può realmente fornire più possibilità di alzare il livello del lavoro, dal punto di vista artistico, creativo e anche comunicativo. Inoltre un orecchio esterno ha un potere maggiore di manipolazione e di realizzazione di qualcosa di altro che parta dal materiale originale fornito dall’artista, ha una sicurezza dovuta sì all’esperienza e alle capacità, ma anche all’assenza di responsabilità e di identificazione con il prodotto che il produttore non ha creato, ma che deve, in maniera creativa, confezionare. Io sono anche musicista e devo dire che (quando mi è capitato) essere prodotti è per me il massimo, cioè io scrivo un pezzo, suono la mia parte in studio, poi di tutto il resto, i suoni, le scelte, i tagli… se ne occupa il produttore, non m’interessa. Tanto tempo fa mi colpì constatare che un grande artista come Lucio Dalla, dava il meglio di sé quando in studio era affiancato da un produttore, ad esempio come Mauro Malavasi, che lo sollevava dalle scelte e lo lasciava libero di creare senza preoccuparsi della confezione del lavoro. Ecco, il produttore può rendere il creativo libero di emanare idee, che poi sono selezionate, ottimizzate econfezionate per aumentarne le possibilità di comunicazione (e quindi di vendita)”. Insomma i social aiutano, la tecnologia aiuta, ma la mano di un produttore artistico è ancora indispensabile. Di persone che si credono produttori e allenatori ne è pieno il mondo. Basta non farli entrare in studio di registrazione o sul campo di gioco, cercando, invece, quelli col “patentino”.