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I pensieri dei valutatori: Marcello Balestra

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

Mi affido solo all’anima vera di musica e artisti
Quando ero ragazzino e incontravo qualcuno per la prima volta, una delle prime domande reciproche era: “Ma tu che musica ascolti?” Era la fine degli anni 70, ma così anche negli anni 80 e primi 90, anni nei quali si dava per scontato che la musica si ascoltasse con attenzione, come la lettura di libri o la visione di film d’essai. E in effetti era così, la musica era l’argomento per conoscersi e per partire ad elencare gli ultimi dischi comprati, le cassettine registrate dalla radio e i concerti vissuti. Ci si scambiava la musica, prestandosi vinili sperando di riaverli indietro in buono stato. Ricordo che si parlava ore ed ore di ogni genere e specie musicale, senza esporre trofei o scoperte, ma parlando di emozioni e della qualità di canzoni, di artisti e di musicisti. Oggi se non ascolti musica sei considerato come minimo un retrogrado, un pirla, ma se devi dire cosa ascolti diventi in un attimo la Treccani delle sigle, dei nomi, di canzoni orfane di album, ossia di singoli e singoli che sono come zattere per artisti in mezzo all’oceano della musica globale.
Poi fatto l’elenco di sigle e di nomi della musica di oggi, ti accorgi che nessuno approfondisce, nessuno dà un valore emozionale ai brani o agli artisti, tutto perché le stesse piattaforme di streaming ci portano a sentire di tutto senza sosta e senza chiederci altro, se non di seguirli all’infinito, nel loro algoritmo ipnotico, amico e trappola. Una volta il mondo era “finito”, ossia aveva confini e c’erano le aree protette, dove si faceva musica, dove si viveva in musica, dalla cantina allo stadio, ma tutto questo ricordare a cosa serve? L’oggi si racconta con l’oggi, mentre l’altro ieri a mio parere si racconta con gli artisti e le canzoni che sono arrivati fino ad oggi, nonostante l’oggi. Ed ecco che se ti incontro oggi e siamo negli anni 70 ti rispondo che ascolto le canzoni facili come “Ramaya” e “Yuppi du” ma anche Beatles, Stones, Deep Purple, Ac/Dc, Queen, Pink Floyd, Carosone, Dalla, De Gregori, Daniele, Battiato, Bennato, Janis Joplin, Genesis, ossia tutta la musica che si ascoltava in casa Balestra e dintorni, ma ti direi che le mie canzoni preferite erano quelle orecchiabili, quelle che canticchiavo e fischiettavo.
Poi a cavallo degli anni 80 ti direi della passione per il cantautorato italiano, per Dylan, Peter Gabriel, U2, Dire Straits, Prince, Neil Young, Brian Eno, che hanno preso il sopravvento, ma sempre e principalmente per le loro canzoni o musiche più facili. Poi nell’83 nelle vesti di improbabile dj estivo ho preso gusto per la dance fine 70 e inizio anni 80, impazzivo per il funky e poi per la musica di Michael Jackson. Da lì ho iniziato a scegliere e a infilarmi anche in brani secondari, in quelli che devono dire qualcosa anche senza essere tanto pop o top. Salvo eccezioni ho sempre amato più le canzoni che gli artisti, credendo che un racconto vale più del narratore, anche se il narratore fa la differenza con il suo stile e lo riconosci in eterno tra milioni.
Quindi “mi sono fatto juke box” di migliaia di brani senza sposare album, salvo alcuni album che ho vissuto e consumato completamente ancora prima di iniziare a lavorare con Lucio Dalla e sono: “Foxtrot” dei Genesis, “Purple rain” e seguenti di Prince, “Off the wall” e seguenti di Michael Jackson, e “So” di Peter Gabriel, “Terra mia” di Pino Daniele, “Ci vuole orecchio” di Enzo Jannacci, “Zenyatta Mondatta” dei Police, “Making movies” dei Dire Straits, “Come è profondo il mare”, “Lucio Dalla”, “Dalla” e “Qdisc” di Dalla, tutti gli album di Mike Oldfield e dei Pink Floyd. Poi iniziando a lavorare nella musica a metà anni 80 ho approfondito la mia attenzione verso il repertorio italiano, sia pop che alternativo. Leggevo ogni rivista musicale e ascoltavo tutte le radio, ma non ho mai colto una tendenza o una linea editoriale, il mio interesse era per l’ascolto di canzoni e artisti. Ho assistito a concerti di ogni genere, ma quello che mi ha cambiato la vita e che ricordo con gioia e memoria palpitante è quello di Prince del 1987 a Milano. Da quel concerto che vidi insieme a Dalla, capii tante cose. La musica che ascolti è tutta utile alla crescita umana ed eventualmente professionale, ma le persone capaci di farti entrare nelle canzoni e nella musica che stanno vivendo, nel mood trascinante e definitivo dell’estasi che stanno provando e che puoi vivere attraverso la musica suonata e cantata con l’anima e il genio talentuoso che gli è stato donato, sono le uniche per le quali ho nel tempo capito e deciso che vale la pena di essere fan o discepolo. Da quel momento avendo a fianco, anzi essendo io a fianco di un mostro sacro come Dalla non facevo certo fatica ad accettare la straordinarietà del suo genio artistico, a subirne il carisma, come quello dei veri grandi della musica mondiale. Il problema era distinguere tra la bellezza e qualità tecnica del miglior repertorio di successo nazionale ed internazionale e la visceralità e la verità di canzoni e artisti di ogni genere e paese.
Anche a causa dell’avvicinarsi al successo di tanti artisti mediamente veri (mio parere), ho deciso di seguire solo le “persone” che facevano capire al pubblico il loro bisogno irrinunciabile di utilizzare le canzoni per raccontarsi per quello che erano, nonostante il business chiedesse loro di mantenere un livello di bellezza commerciale superiore alla verità da raccontare. Questo spiega la mia mancata vicinanza ad artisti intransigenti e puristi, alla ricerca dell’espressione dell’arte assoluta, ma spiega anche il mio amore assoluto per le persone-artisti che utilizzano o hanno utilizzato il linguaggio musicale, testuale, vocale, viscerale, fisico, emotivo, melodico ed umano per far arrivare al pubblico ciò che erano o sono veramente, utilizzando il mezzo musica o canzone per esprimere la loro costante e inarrestabile umanità, densa di tensioni e di intuizioni captate con le antenne di chi è collegato all’universo, ai segnali che arrivano a chi è in ascolto e quindi non solo per esigenze di status, di mercato e di popolarità. In fondo sono sempre stato il fan di nessuno, se non umile ascoltatore di musica e canzoni di chi ha le sembianze di donatore di umanità, di energia, di umiltà e di estro espressi per bisogno e per natura, ad ogni concerto e in ogni momento della loro esistenza. Sì, per lavoro ho ovviamente prodotto anche tanto pop di artisti “normali”, ma un conto è innamorarsi, altra cosa è scegliere per il pubblico, del quale per fortuna faccio parte e grazie a questo sono riuscito a parlare di musica con tutto il pubblico del mondo. Ho comunque imparato ad ascoltare fino all’ultima traccia di tutti, senza avere preferenze o pregiudizi, con l’ambizione di lasciarmi sorprendere dalla normalità e dalla genialità musicale comprensibile a tutti e non quella per pochi eletti in grado di decifrare codici e mondi musicali segreti.

Buona verità musicale a tutti.

I pensieri dei valutatori: Marco Bertoni

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

Radio, dischi, riviste, concerti. Ho iniziato a suonare intorno agli 11 anni, spinto da curiosità per questi organi Farfisa che avevano due tastiere, la pedaliera dei bassi e una batteria elettronica con ritmi ed accompagnamenti preprogrammati su diversi generi musicali: samba. cha cha. swing…
Mio padre me ne regalò uno e questo fu il primo strumento della lunga serie che invase la mia camera da allora in poi.
Poi il pianoforte, le lezioni di pianoforte, poi l’Istituto Nazionale di Studi sul Jazz a Parma con Franco D’Andrea (istituto gratuito e pubblico) per imparare armonia. Quindi un percorso fatto di hardware (gli strumenti) e software (la passione, l’interesse, il piacere).
Sicuramente elementi che hanno supportato e alimentato questo amore per la musica, prima come ascoltatore poi come musicista compositore e produttore
sono stati appunto la radio, i dischi, le riviste, e i concerti.
La radio era una radiolina portatile a pile che ascoltavo in terrazza d’estate e i programmi erano solo quelli della RAI. Amavo le canzonette e ricordo “Crocodile Rock” di Elton John, “Sugar Baby Love” dei The Rubettes. Inutile dire che il tipo di selezione e di fruizione era completamente diverso da quello che hanno i giovani ora, vabbè l’ho detto…
I dischi erano proprio i dischi, cioè soprattutto i vinili lp che si compravano in 2/3 negozi a Bologna (negozi che non ci sono più: Nannucci, La coja, La casa del disco) anche se il primissimo 45giri l’ho comprato in un negozio di elettrodomestici sotto casa ed era ‘Come together’ dei Beatles, avevo 8 anni e alla radio avevo sentito questa musica con questi tamburi particolari…e poi ‘Venus’ degli Shocking Blue”, “Chirpy chirpy Cheep Cheep’ dei Middle of the road, ma questa era già del 71. Tutti vinili suonati rigorosamente dal mangiadischi Lesa bianco e rosso portatile e a pile.
Quindi, in ordine: la radio nelle trasmissioni di canzonette della RAI, i 45 giri, poi l’organo, la musica suonata in camera. Dopo andando alle superiori inizio a suonare in un gruppo, vado a vedere i concerti e leggo le riviste specializzate (CIAO2001 anche se più tardi arrivarono Musica 80 e Rockstar e Popster).
Crescendo gli episodi che vorrei fissare sono due. Due concerti gratuiti tenuti nel corso di una rassegna estiva presso il Parco della Montagnola di Bologna, non saprei dire che anno precisamente, ma sicuramente seconda metà degli anni ’70.
Ero proprio un ragazzino e mi meraviglio che mi fosse permesso di uscire così tardi per andare così a zonzo…ma insomma: Enrico Rava e la sua tromba in trio (o in quartetto) e poi un’altra sera Frederic Rzewski con un concerto per piano solo. Ricordo Rzewski suonò alcune variazioni di ‘El pueblo unido, jamás será vencido’ e un pezzo di (credo) Braxton. MERAVIGLIA E STUPORE: Non capivo niente, in fondo non mi interessava sapere niente, solamente ricordo che sentivo la magia che sprigionavano queste esecuzioni e queste musiche, decidendo proprio lì che la musica sarebbe stata dentro la mia vita.
Questo facilitò e confortò il naturale passaggio da ascoltatore a musicista.
Sentire dopo qualche anno la conferenza che Brian Eno tenne nella Sala dei 600 a Bologna fu per me una conferma. Sentire Eno che parlava della assoluta fondamentale importanza della registrazione multitraccia, e del “suonare lo studio di registrazione” era esattamente quello che in quei giorni con Gianni Gitti stavo facendo per registrare il mio disco “18/8/81”. Quella descritta da Eno era per noi una prassi creativa molto istintiva naturale e, insomma, c’eravamo anche noi ed era appunto il 1981 e avevo già 20 anni.
Già dal 1978 suonavo con il Confusional Quartet , a Bologna era tutto veloce in quello scorcio 1978/1981 (suonare in un gruppo e trovarsi adolescente davanti a migliaia di persone in Piazza Maggiore, alla Bussola a Camaiore, in vari palazzetti dello sport e locali in giro per l’Italia), sembrava tutto naturale e sequenzialmente normale.
Ma frequentavo la seconda superiore, anni prima, quando andai al primo concerto che vidi dal vivo: il Banco del Mutuo Soccorso al MAC2 tra Modena e Bologna. Nelle radio arrivarono anche le frequenze delle radio libere, e non si ascoltavano più canzonette, ma si ascoltavano gli Area de ‘La mela di Odessa’, i Suicide di ‘Cherie Cherie’, Vasco Rossi di ‘Albachiara’ e la nostra ‘Volare’ tutte mescolate insieme come se fosse normale.
Oltre le occasioni casuali, sono importanti anche i nomi e le persone. Mio padre che mi comprò i primi strumenti musicali, Stefano che mi fece innamorare nel 73 dei Genesis (disco basilare nei miei ascolti di allora “The lamb lies down on Broadway), e Luca che mi consigliò di ascoltare gli Area e i Suicide. Bang.

I pensieri dei valutatori: Carlo Bertotti

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

A 13 anni ho ereditato il giradischi di mio padre, lui non lo usava praticamente mai e aveva pensato che il solo fatto di poterlo trasferire dal salotto a camera mia avrebbe potuto fare del sottoscritto uno studente potenzialmente più dedito alla causa…
Ricordo di aver allestito in poco tempo una sorta di minidiscoteca in camera aggiungendo un paio di casse e un set di lampadine colorate con dei sensori che le facevano accendere a seconda del beat.
Ascoltavo musica tutti i pomeriggi, ininterrottamente.
Non mi drogavo ma ero sufficientemente carico a molla per disattendere le aspettative famigliari, farmi bocciare e finire in collegio con un biglietto di sola andata: l’intuizione di mio padre non era stata sufficiente…
Nel 1978 ascoltavo prevalentemente punk rock ma cominciavano ad affascinarmi i primi synth: avrei fatto qualsiasi cosa per una Les Paul (anche un’imitazione Gherson sarebbe andata più che bene) ma ho fatto più di un pensiero su un Korg MS 10 usato che vedevo nel negozio di strumenti musicali di fiducia…
Ci sono tre LP che in quei mesi mi hanno letteralmente folgorato: Never Mind the Bollocks, Ha! Ha! Ha! e Outlandos d’Amour.
Ancora oggi mi accorgo di come quel tipo di ascolti abbia contribuito a formarmi in quel periodo. A 14 anni non si è portati alle mediazioni, ci sono solo bianchi o solo neri, i grigi non sono ammessi e quindi tutto il patrimonio sonoro degli anni precedenti, le grandi band rock, i cantautori, etc, sono stati semplicemente cancellati o ignorati dal mio personale database.
Quell’integralismo adolescenziale che mi portava a divorare fanzine e riviste di musica (l’appuntamento settimanale con Ciao 2001 era inderogabile), a trascorrere i weekend consultando cataloghi di strumenti musicali o in sala prova a suonare con la prima band di compagni di scuola mi ha reso più consapevole di quello che avrei voluto fare nella vita. Se non altro avevo un obbiettivo, ed era una cosa importante soprattutto in un periodo come la fine degli anni 70, dove in quanto a derive pericolose potevi avere una discreta scelta.
In quel periodo non c’erano molti concerti a cui poter andare ma nei primi mesi dell’80 ebbi la fortuna di poter inaugurare la mia personale stagione live con una doppietta imperdibile. A distanza di due mesi, sempre al Palalido di Milano, arrivarono Ramones e Police, non avrei potuto chiedere di meglio…
Ad aprire il concerto dei primi suonarono gli UK Subs, band inglese di cui ero fan (i primi due album sono bellissimi) e che dal vivo spaccavano letteralmente.
Dei Ramones detestavo End of the Century ma i primi quattro album erano delle perle.
La loro musica non era quella nichilista dei Sex Pistols: la chitarra di Johnny Ramone filava al doppio di quella di Steve Jones e quella velocità non ti faceva pensare a distorsori o overdrive ma a un punk che faceva di quello stile un po’ rock’n’roll un marchio di fabbrica ancora più riconoscibile dell’attitudine provocatoria di Rotten e Vicious.
E quando due mesi dopo su quello stesso palco salirono i Police il cerchio si chiuse. C’era tanta di quell’energia lì sopra che avresti potuto illuminare tutta Milano. Ed erano in tre, e Copeland sembrava avere quattro braccia, e Summers con quella Telecaster tirava fuori suoni che non avevi mai sentito, e Sting ti faceva pensare che nessuno avrebbe mai potuto essere così sintesi perfetta. Per quell’Ibanez avrei venduto l’anima, con dischi come Reggatta de Blanc capivi che la Musica non sarebbe più stata la stessa.
Ho cominciato a collaborare con una radio privata pochi mesi dopo, non ero ancora maggiorenne e non avrei tecnicamente potuto essere lì ma il proprietario era un amico di un giro di fratelli maggiori che aveva garantito per me e così ero riuscito a ritagliarmi una piccola rubrica di un’ora alla settimana dove mettevo tutti i dischi che avevo comprato nei giorni precedenti.
Mi sentivo un privilegiato ma soprattutto ero contento di poter far ascoltare quelle che reputavo essere canzoni imprescindibili per una adeguata e corretta formazione personale…
Al netto di nostalgie o derive generazionali quello era un mondo dove un album costava 6000 lire, un bootleg anche meno, e le copertine le consumavi a forza di leggerle e rileggerle, e le foto che ci stavano sopra te le ricordi ancora oggi.
Dove una discreta chitarra elettrica, ampli compreso, costava 500.000 lire.
Dove l’unica cosa digitale erano i primi orologi giapponesi a cristalli liquidi e il telefono era quello fisso di casa.
Dove per cambiare canale alla televisione per vedere “Punk e a capo” con Di Cioccio ti dovevi alzare perché i telecomandi erano merce rara.
Dove alle edicole c’erano decine di riviste per ogni genere e palato.
Dove le sale prove erano piene tutti i giorni di gente che suonava veramente.
Dove rockers e mods si guardavano in cagnesco in via Torino e le creste dei punk dominavano al Virus.
Dove i deejay erano quelli che mettevano dischi in radio. Punto.
A chi non c’era, o a chi semplicemente è nato dopo, consiglio di farsi un giro di più in rete, di leggersi le cronache di quei mesi, le recensioni, di “ascoltare” quegli anni ma soprattutto di cercare di immaginarselo quel mondo.
Perché non esiste più, ed è un vero peccato.

I pensieri dei valutatori: Giampiero Bigazzi

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

Come succede di solito ho cominciato a suonare da giovane (ma non da bambino, come sarebbe stato opportuno). Ho frequentato un paio di scuole e qualche corso di approfondimento, ma senza esagerare. Ho continuato a studiare per conto mio, a sprazzi. Ho molto suonato, il basso elettrico, negli anni delle balere (“dancing” si chiamavano dalle mie parti). Venerdì sera, sabato pomeriggio e sera, domenica pomeriggio e a volte sera: non male come palestra! E infatti quella è stata la mia scuola di base. Ho assorbito tutta la musica degli anni Sessanta e quella dei primi Settanta, quando la gente miracolosamente riusciva a ballare su brani di Jimi Hendrix o di Deep Purple (per non parlar di Lucio Battisti).

Un giorno trovai, non ricordo come, un piccolo organo elettrico. Due ottave e mezza, forse marca Davoli. Me lo portai a casa e cominciai a trovarci accordi semplici e a cantarci sopra. Con quella tastierina capii che bisognava essere intonati! Lo so che può sembrare strano, ma come bassista fino a quel momento mi ero concentrato sul ritmo, batteria e chitarra, e non mi ero posto il problema. Feci molti esercizi e corressi, pur moderatamente, la mia stonatura iniziale. Questo per dire che il talento è qualcosa di sublime, ma gli stonati non esistono. Basta studiare e applicarsi. Educare la voce.

Ho quindi suonato il basso fino a metà anni Settanta, per far ballare la gente. La cosa che ancora oggi mi sembra impossibile, è che avevamo in repertorio più di 150 brani, tutti buttati su a memoria. Oggi non riesco a ricordarmi nemmeno “Bella ciao”… oddio, quella forse sì.

Perché cominciai a suonare? Non c’era una tradizione o una spinta familiare, anche se la nostra mamma, oggi, mi ripete che la sua era una famiglia di contadini, minatori e musicisti… bravi ma non facevano apprendere la musica alle donne di casa, circostanza che l’ha sempre contrariata. La musica mi ha affascinato (come il cinema e il teatro) fin da piccolo. A questo bisogna aggiungere una leggera predisposizione naturale allo spettacolo (la seduzione della ribalta e dello stare al centro dell’attenzione è sempre una magnifica spinta a provarci) e la possibilità di farsi delle fidanzate che il suonare offriva. Non c’era una “vocazione” particolare. “Bene, almeno sappiamo come passare i pomeriggi d’inverno”, mi disse il mio amico Mario quando gli feci vedere i primi strumenti raccolti e gli comunicai l’idea che avevo di metter su una band. Ma lui poi non si aggregò: le fidanzate le trovava lo stesso e da grande è diventato un esperto di allevamento di cavalli da corsa.

Cosa ascoltavo? Sicuramente le canzoni che dovevo risuonare per far ballare. 45 giri e spartiti (quelli con un brano solo “per mandolino”) comprati allo storico negozio di musica del paese. Le canzoni, quando lo spartito non c’era, si “tiravan giù dai dischi”, o meglio: lo faceva il tastierista che – come spesso accade – era quello tecnicamente più predisposto. Io mi concentravo sulla linea del basso (e qualche volta le note più ardimentose me le trovava il suddetto virtuoso tastierista). Non c’era, all’epoca e in quelle condizioni, l’idea della “cover”. Le “hit da ballo”, quelle musicalmente raggiungibili dalla nostra abilità, si rifacevano, possibilmente fedeli all’originale, e basta.

[Sto rileggendo quello che ho scritto finora e mi sembra il soggetto di un film di Pupi Avati…]

I miei ascolti però non erano solo funzionali al “lavoro di orchestrale”. Ascoltavo molta musica che non avremmo potuto “tirar giù” per le balere. Abbiamo raccontato altre volte che abitavamo in un palazzone che aveva uno dei primi magazzini della Coop al primo piano (poi ci fecero una banca e ora ci sono i cinesi… la Coop comunque c’è ancora, ma da un’altra parte). In questo magazzino (miracolo!) c’era un reparto dischi. Fornitissimo. E lì ho conosciuto i vinili di Hendrix (ancora oggi quando ascolto “Electric Ladyland” mi commuovo), Bob Dylan (la mia copia di “Blonde on blonde” ha tutti i solchi consumati!), Rolling Stones (visti a Roma, con Mick Taylor alla chitarra, tornando in autostop da Amsterdam nel 1970), Woodstock (“tirato giù” in abbondanza), un po’ di jazz storico, Mozart e Bach. C’era una collana dell’Atlantic (con l’adesivo “The genuine underground music”) di cui ho molti LP: Blues Image, Iron Butterfly, Young Racals. Andavo pazzo per Vanilla Fudge. E ovviamente molti Beatles, ma possedevo pochi dischi… mi sono rifatto da adulto. In quegli anni c’era un amico che non perdeva un loro LP o un singolo e ne facevo indigestione a casa sua. Un disco avevo e consumavo: “Abbey Road”. In questi mesi sono cinquant’anni che è uscito. E’ il loro ultimo sussulto creativo, ma c’è dentro tutto quello che ancora oggi può far comodo a chi fa musica.

Ascoltavo poco gli italiani, in quegli anni iniziali, ma ho sempre amato e professionalmente rispettato la cosiddetta “musica leggera”, apprezzamento che mi è servito anche nel lavoro di agitatore musicale, alle prese con gli spigoli dell’avanguardia e della world music. La ricerca della comunicatività, la capacità di “arrivare” a potenziali ascoltatori, sono necessarie attitudini per qualsiasi forma d’arte. Almeno questo è ciò che penso.

Il pensiero che mi viene ricordando gli anni della formazione è la lentezza del consumo. Non c’era bisogno di farsi prendere da bulimia di possesso e superficialità di ascolto: si entrava “dentro” un disco, si scopriva, ascoltandolo decine di volte e, come musicisti, si cercava di imparare.

E quindi raccolgo un altro pensiero: è una frase fatta, lo so, ma è sempre valida. Non si smette mai di apprendere e non si deve mai smettere di studiare. Con tutti i miei limiti ho cercato e cerco di farlo, passando dalla scoperta delle tradizioni popolari alla musica più sperimentale, dalla canzone d’autore alla musica cosiddetta colta. E’ soddisfazione privata, ma anche strumento per evitare banalità. Non so se ci sono riuscito, ma ho la coscienza a posto: ci ho provato.

I pensieri dei valutatori: Luca Fantacone

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

L’inizio della mia formazione musicale ha un unico protagonista assoluto: mio fratello maggiore, che non solo ascoltava la classifica di Lelio Luttazzi in radio (Rai) e cominciò a segnalarmi le canzoni che gli piacevano quando io avevo più o meno 5 anni (lui ne ha 7 più di me, quindi ai tempi era nel meraviglioso bel mezzo dell’adolescenza), ma chiese per primo ai nostri genitori una tastiera giocattolo in regalo per Natale. E fu quindi subito copiato da meϑ. Un paio di anni dopo, avendo cominciato a comprare regolarmente dischi, inaugurò un’abitudine che si rivelò per noi fondamentale: tutti i giorni (tutti!), dopo pranzo, mi invitava a seguirlo in salotto dove mio padre teneva l’unico stereo di casa (l’immancabile Stereorama 2000 della “Selezione del Reader’s Digest”) per ascoltare insieme un disco. Che poi diventavano due o tre, per un paio d’ore di ascolto. Insieme, davanti alla copertina di un vinile di Genesis, Yes, Le Orme, King Crimson, Deep Purple…in quel modo la nostra formazione musicale si cementava giorno dopo giorno, insieme al nostro indissolubile rapporto. Quello che avevamo in comune era sempre e immancabilmente la musica, le musiche che ascoltavamo, quindi le note, gli strumenti, i testi, le copertine, le luci, i palchi..tutto quello che aveva a che fare con la musica suonata, esibita, registrata, venduta, comprata, vissuta da noi due giorno dopo giorno. Nessuna differenza fra di noi, nonostante 7 anni di differenza che quando uno ne ha 14 e l’altro 7 diventano un’eternità.

E per me tutto ciò era un’inesauribile fonte di apprendimento e conoscenza musicale: prima il prog (di cui sopra) poi alcuni cantautori italiani (pochissimi Dalla, Pino Daniele e Bennato fondamentalmente), poi Bowie, i Roxy Music e Brian Eno, poi l’hard rock (Deep Purple ancor prima dei Led Zeppelin, AC/DC), poi il metal anni ’80, Van Halen, Iron, Judas, Scorpions…poi i Police e un salto secco verso la new wave e la musica elettronica, saltando il punk che avrei ripreso poi un po’ più tardi: Simple Minds, Ultravox, Eurythmics, Talk Talk, John Foxx, Japan, Tears For Fears, e moltissimi altri. Poi la sensualità dark di The Cure, This Mortal Coil, Dead Can Dance, Siouxsie, sublimata ed elevata a malinconia romantica con David Sylvian e i suoi “confratelli”… mentre sulle loro personali corsie preferenziali sono sempre stati e sempre rimarranno Peter Gabriel (praticamente l’artista che ha traghettato il pubblico tradizionalmente prog verso la new wave prima e la sperimentazione al servizio delle canzoni pop poi) e gli U2, la band della mia tarda adolescenza e poi di tutti i momenti più importanti dei miei primi 30 anni.

Mio fratello scoprì ovviamente per primo la radio attraverso la nascita delle “radio libere”, quelle private che alla fine degli anni ’70 proliferarono in ogni città, cittadina e paese d’Italia. E le scoprì sia come ascoltatore che come improvvisato deejay di Radio Saronno International (International…??? ϑ ), che ovviamente io andavo a veder trasmettere la sera, scortandolo con sottobraccio i dischi che avrebbe trasmesso. La radio, a parte questo periodo, non è però mai stata importante nella mia formazione musicale fino a quando non ho cominciato a lavorare in discografia: l’ho così scoperta come fonte di musica, di intrattenimento, e come media capace di guidare con forza e rapidità i gusti del pubblico. Ho imparato ad apprezzarla e poi ad amarla, così come ho conosciuto generi, artisti, canzoni che non solo non conoscevo ma anche snobbavo stupidamente.

E poi i concerti: non appena ho avuto l’età che i miei ritenevano “ok” per poterci andare (15 anni…) non ne ho potuto più fare a meno. Ho sempre considerato l’andare ad un concerto come il privilegio di poter vedere qualcosa di irripetibile accadere ed espandersi di persona in persona fino a raggiungere l’ultimo spettatore nel club, o palazzetto o prato o stadio, e rimbalzare verso tutte le persone a cui poterlo raccontare (tempo fa a voce e il giorno dopo, ora prima possibile grazie ai social…). Ne ho sempre visti più possibile e letteralmente di ogni genere (i miei primi due furono, nell’ordine: Roberto Ciotti e i King Crimson…), anche prima di andarci anche per lavoro, e avendo anche cominciato a suonare molto presto non ne ho potuto più fare a meno anche per poter capire di più di un palco, di uno strumento, di un impianto, e dell’essere artista quando si riesce a raggiungere un pubblico che si spera aumenti sempre di più e che vuole stare di fronte a te sotto il palco per un’unica ragione: stare bene, anzi benissimo, con la musica che sta ascoltando in quel preciso momento.

Dall’inizio degli anni ’90 in poi, la mia formazione musicale (la cui storia ho tentato qui di riassumere scrivendo di getto, così come mi è tornata alla mente: un flusso ininterrotto di input, emozioni, assimilazione e crescita continua) è stata invece fortemente influenzata dal mio lavoro, ossia dalla possibilità (cercata con estrema ostinazione fino a quel momento) di fare della musica non solo una costante quotidiana (già lo era) ma addirittura la propria occupazione, quello che fai tutto il giorno e tutti i giorni. Il mio lavoro ha inevitabilmente ampliato enormemente la mia conoscenza musicale e ha reso insaziabile la mia curiosità verso tutte le musiche che non conoscevo, in parte o per nulla. Ho conosciuto bene il rap ad esempio, ho soprattutto imparato a capirlo. Ho sviluppato il mio amore per le “pop songs” senza avere paura della stupida fobia del “commerciale” che esiste solo ed esclusivamente in un paese cialtrone come l’Italia (che si ricorda dei nostri giganteschi autori e cantautori solo quando “bisogna” commemorarli” su Fbook, e non perché hanno amato la forma canzone fino ad idealizzarla…). Fare bene il mio lavoro vuol dire non avere confini mentali, essere pronti ad abbracciare ogni tipo di musica per capirla e per poter capire il pubblico che ha o che potrebbe avere. Per fare questo bisogna lasciarsi andare, non rimanere ancorati ai propri presidi, pur ovviamente rispettando la propria natura, i propri gusti, la propria identità.

In sintesi: la formazione musicale e quella personale per me sono state un tutt’uno. Lo so, sono stato molto fortunato, ma anche molto caparbio: per mia fortuna mio fratello ha cominciato a “seminare” musica dentro di me, ma io l’ho fatta crescere e non l’ho più trascurata nemmeno per un secondo. Disco dopo disco, concerto dopo concerto, rivista dopo rivista (Rockstar, Rockerilla, le fanzine anni ’80…). Poi, ho capito tardi che non dovevo confinare la musica al tempo libero, ma quando l’ho capito ho fatto di tutto per farne il mio lavoro e da quel momento non ho fatto altro. E anche ora, in un’era in cui le occasioni, le fonti, i canali sono centinaia, cerco di non trascurare nulla, di non sminuire nessun artista o genere, al contrario cerco di imparare ancora, e ancora. Perché la musica va onorata, rispettata, alimentata, diffusa, difesa.

Al servizio della musica, dal 1965
(o quasi..).

I pensieri dei valutatori: Nicola Manzan

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

Ho iniziato ad ascoltare musica molto presto.
Mio padre aveva un po’ di vinili in casa, tipo cantautori e simili, oltre ad alcuni “audiolibri”, come li chiameremmo ora. Aveva anche una collezione di 100 vinili di classica, credo recuperati in edicola.
A cinque anni mi ha insegnato ad usare il giradischi e mi ha dato la massima libertà di utilizzo e di ascolto. Penso sia iniziata lì la mia voglia di mischiare generi, di ascoltare un po’ di tutto senza distinzioni. Ricordo che facevo delle mie personali classifiche e facevo finta di essere il dj di una radio mettendo brani di Beethoven, Elvis, De Gregori uno dopo l’altro, in base alla suggestione che mi davano.
Quando ho iniziato a potermi permettere di acquistare i dischi che interessavano a me, era già arrivata l’epoca del Cd, ma ho continuato ad acquistare i vinili, quando erano disponibili. Allo stesso tempo mio padre prendeva mensilmente la rivista (di musica classica) Amadeus, con cd allegato che automaticamente finiva nel mio stereo. In pratica gli anni della mia adolescenza sono stati caratterizzati da doppi input: da un lato la musica classica che studiavo ed ascoltavo perché “fornita” direttamente da mio padre, dall’altro avevo i miei dischi metal e hardcore che compravo coi pochi soldi che avevo.
Allo stesso modo leggevo anche riviste musicali diversissime fra loro: sulla mia scrivania, sotto un numero di “Rumore”, ci poteva essere un numero di Amadeus con Bernstein in copertina (con tanto di pubblicità della Rolex al suo interno).
Credo che a livello di ascolti questo sia stato un periodo molto formativo, la lista degli artisti e dei rispettivi album che ho ascoltato potrebbe essere davvero lunghissima. A volte erano cassette doppiate casualmente da qualche amico, a volte erano dischi che cercavo io, altre volte trovavo dei cd a casa e me ne innamoravo. Potrei citare tre casi su tutti: gli Slint di “Spiderland”, i Carcass di “Necroticism” e la celeberrima registrazione delle “Variazioni Goldberg” di Bach suonate da Glenn Gould. In tutti e tre i casi, parlo di dischi che ho ascoltato ossessivamente per mesi, alcuni per anni. Le variazioni Goldberg, ad esempio, sono sempre le benvenute nella mia vita quando devo rimettere in ordine il cervello.
La cosa curiosa è che spesso riascoltando alcuni dischi che sono stati importanti per me, mi rendo conto di quanto nel frattempo sia “cresciuto” il mio orecchio, notando spesso moltissime peculiarità che un tempo non sarei mai riuscito a cogliere. Se a volte questo ascolto più dettagliato mi porta a sentire una certa ingenuità nei miei gusti di un tempo, dall’altro mi rendo anche conto che certe caratteristiche, nel bene e nel male, sono rimaste impresse nella mia testa e spesso mi sono ritrovato a riproporle in qualche modo nella mia musica.
Sul fronte dei concerti, invece, suonando il violino fin da bambino venivo spesso accompagnato a concerti di musica classica, per un periodo ho anche avuto l’abbonamento alla stagione sinfonica del teatro di Treviso. Adoravo andare ai concerti in quegli anni, un po’ per la compagnia, un po’ perché ho sempre adorato essere investito dal suono potente di un’orchestra, così come adoro trattenere il fiato durante i pianissimo della musica da camera.
Ma allo stesso tempo ho iniziato anch’io a fare concerti e ad andare a vedere quello che arrivava in zona. Mi ricordo molto bene di quando andavo (appena diciottenne) all’Agrrro, centro sociale in provincia di Treviso dove c’erano concerti punk che mi hanno fatto capire che la musica poteva essere anche qualcosa di diverso da quello che conoscevo io (potrei dire semplicemente: l’opposto). Ho vissuto in bilico tra musica classica ed autogestione per parecchi anni, facendo a volte anche doppi concerti, prima con l’orchestra, poi col mio gruppo in qualche locale. Da quando poi ho iniziato a lavorare in un rock club come tecnico palco, le cose sono cambiate: ogni weekend lavoravo con band di qualsiasi tipo, che mi hanno portato ad amare o odiare certi gruppi, ma soprattutto certe attitudini da rockstar fallite.
Se dovessi citare due concerti “della vita”, non avrei dubbi: nel 1998 ho suonato col mio gruppo di supporto agli Unsane di New York. Li conoscevo di nome, sapevo che erano molto apprezzati, ma non immaginavo che dal soundcheck in poi la mia vita sarebbe letteralmente cambiata. I suoni, l’attitudine, i pezzi: tutto era nuovo e tutto era esattamente nei miei canoni estetici, spazzando via molte cose che avevo ascoltato fino al giorno prima, rendendomele a tratti insopportabili.
Il secondo concerto è stato un BBC Prom alla Royal Alber Hall di Londra, sempre in quegli anni, in cui Yo Yo Ma suonava un concerto per violoncello in prima assoluta. L’introduzione altro non era se non una registrazione di rumori ambientali, mandata in play dallo stesso violoncellista e diffusa da uno stereo portatile degli anni 80 piazzato davanti al violoncello. E anche il resto era poesia pura.

I pensieri dei valutatori: Gabriele Minelli

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

Sotto molti punti di vista, cercare di riassumere la propria “formazione musicale”, o i momenti, i luoghi e le persone che l’hanno determinata, è un’operazione davvero complicata, lo ammetto. Perché banalmente ti costringe ad osservare ciò che hai lasciato alle tue spalle, il passato, una parte di vita.
Perché comunque si tratta di provare a condensare una miriade di piccoli momenti o lunghi periodi, magari confusi e turbolenti, in una specie di piccolo manuale pronto per l’uso, in cui dovrebbe persino emergere un certo grado di saggezza e di consapevolezza che non sempre invece c’era.
Ma soprattutto perché si corre il rischio di finire per raccontare di archeologia culturale, di epoche (perché questo pericolo lo corrono tutte le generazioni con le successive) superate dal tempo e dai mezzi, di scenari quasi incomprensibili e a volte surreali per chi ne sente parlare solo oggi.
Si tratta pure sempre del secolo scorso eh!
Cerco quindi di mettere ordine nei ricordi, la mente, e nei gusti, il cuore, e di fare come quando sistemo i rullini e le foto che ho accumulato negli anni, cercando di soffermarmi più sul metodo e sul risultato, che sul momento singolo.
Se devo trovare quindi un denominatore comune che riassuma il mio percorso, userei una parola e cioè DIVERSITA’. La adotto più che altro nella sua forma anglofona, diversity, e cioè varietà, ma anche dissimilarità.
Come molti miei coetanei, infatti, ero costantemente spinto dalla curiosità di guardare, leggere e ascoltare di tutto, il più possibile, ovunque fossi, in ogni lingua (o quasi), senza particolari pregiudizi se non le piccole puerili prese di posizione da tarda adolescenza.
Mi sono così formato musicalmente sia nell’hip hop, cultura che ho abbracciato da studente (e anche praticante…) in alcune delle sue forme, che nella musica suonata in maniera più “tradizionale”, anche in questo caso sia come spettatore/ascoltatore che come, ahimè, chitarrista (e anche armonicista, beat maker, fonico improvvisato…).
Lo stesso si può probabilmente dire per ascolti e visioni, sia radio/tv che cinematografici, e per le letture: come tutti i ragazzi cresciuti nell’epoca pre-internet, la nostra era una fame atavica e insaziabile che ci costringeva a cacciare in ogni territorio nel tentativo di soddisfarla.
Ovviamente ci sono molti defining moments che posso ricercare, diciamo a partire dai primi anni di liceo, e che identifico appunto come svolte di crescita e formazione.
Ma ciò che più mi preme sottolineare è proprio una questione di approccio e metodo: il desiderio di approfondimento, di un genere o dell’opera di un singolo artista, non escludeva mai l’esplorazione o la sperimentazione.
Sicuramente un certo sciovinismo giovanile faceva sì che mi concentrassi maggiormente, per esempio, sulla musica americana e inglese più che su quella italiana. Ma al tempo stesso per noi non c’erano davvero preclusioni, ed era la più assoluta normalità andare a concerti di artisti di generi diametralmente opposti nell’arco di pochi giorni, mescolandoci a nostra volta tra gruppi eterogenei di altri frequentatori di live e ascoltatori di musica.
Nei miei mesi da laureato/expat/lavoratore in Belgio, poco prima di cominciare la carriera nella musica, ebbi modo, molto felicemente, di constatare che nel nord Europa quello era l’approccio più diffuso: era normale per un locale programmare un live punk il martedì e un dj set hip hop il giovedì; le line up dei festival DOVEVANO essere eterogenee per soddisfare un pubblico che chiedeva cartelloni vari e interessanti; le radio più fighe programmavano indifferentemente ciò che consideravano il meglio del momento, senza crucci di bpm o paranoie di contenuti più o meno masticabili.
E’ proprio in questa diversità che mi sono formato, sono cresciuto, ho affinato il mio gusto: un bagno di musica strana, perché mi piaceva essere un po’ il precursore o lo scopritore di gruppi e di generi, ma anche quello fuori dagli schemi; un mix di rap, metal, video di skate, cinema indipendente, street photography, graffiti, il primo indie folk, la black music degli anni 60 e 70, e mille altri ingredienti, frullati in un approccio DIY, un fai da te che mi ha spinto e portato a suonare, scrivere di musica, fotografare su e giù da un palco, accompagnare e aiutare artisti prima durante e dopo i live, ecc. ecc.
Questo approccio non l’ho mai abbandonato: penso infatti, e lo raccomando sempre ai ragazzi che iniziano quando ho l’occasione di parlare con loro, che sia necessario sporcarsi le mani ed essere curiosi.
Spesso ho lavorato meglio sui dischi di artisti che non mi piacevano, artisticamente. Molte volte tuttora faccio da solo (o almeno ci provo) quando sono in situazione di necessità. Sono sempre molto attratto dal diverso, dal differente, dalle espressioni non allineate, dall’artista non “di moda”, da colui che non replica ciò che funziona solo perché per altri funziona.
E quotidianamente cerco di replicare questa ricerca di diversità, cercando di valorizzare al meglio le competenze e i ruoli lavorativi al di là dell’hype del momento, mettendomi al servizio degli artisti e dei professionisti con cui lavoro per garantire loro, e in qualche caso stimolare, la massima libertà creativa e il diritto di essere diversi.

I pensieri dei valutatori: Daniele Rumori

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

Tutto è iniziato un po’ per caso, e come sempre la colpa è delle cattive compagnie. Se ho dedicato gran parte della mia vita alla musica lo devo a 3 persone specifiche: i miei cugini Paolo e Matteo Agostinelli e a Francesco Paolo Chielli che poi sarebbero diventati 3/5 degli Yuppie Flu. La band per il quale ho deciso di diventare un discografico. Sono le persone che più ho frequentato nella mia tarda adolescenza e sono quelle che mi hanno fatto scoprire il magico mondo dell’indie rock. Tutto è iniziato alla fine di una gita scolastica nel 1994. Raccattando la mia roba prima di scendere dal pullman, per errore ho preso una cassetta di Paolo che veniva in classe con me. Il giorno dopo, spingendo il tasto play del mio walkman mi si è aperto un mondo. Stavo ascoltando qualcosa che mi travolse, non avevo mai sentito nulla di così strano e cool allo stesso tempo. Chiamai subito Paolo che mi disse che quelli erano due dischi che gli aveva passato suo fratello: Transmissions from Satellite Heart dei Flaming Lips e “Crooked Rain Crooked Rain” dei Pavement.
Matteo era più grande di noi di 5 anni, aveva una marea di dischi ed era sempre stato super appassionato di musica. Francesco era il suo migliore amico, aveva un anno più di lui ed insieme suonavano in diversi progetti musicali. A quell’età, 5/6 anni di differenza sono un’enormità. Io e Paolo eravamo poco più che bambini e facevamo ancora le superiori. Matteo e Fra erano già grandi, si godevano la vita tra serate fuori, skateboard, concerti, ragazze e sbronze epiche. Spesso, però, ci trovavamo tutti e quattro nello stesso posto, ovvero nella casa dei miei cugini, dove io andavo per studiare con Paolo, Francesco per suonare e cazzeggiare con Matteo. Una marea di giornate passate insieme, in cui i più grandi ci hanno fatto scoprire gruppi come Sonic Youth, Pavement, Built to Spill, Beck, Nirvana o Pixies. Giornate in cui passavamo ore a guardare videocassette di Alternative Nation, programma di MTV che allora passava di notte sulle frequenze di TMC. Condotto dal mitico Toby, Alternative Nation trasmetteva i video e le interviste ai gruppi indie del momento. Li guardavamo e riguardavamo all’infinito.
Ma non solo, quando andavo a casa dei miei cugini leggevo avidamente le riviste musicali di Matteo. Ecco che così magicamente avevo la possibilità di ascoltare i dischi di mio cugino e allo stesso tempo di approfondire ed ampliare le mie conoscenze musicali grazie alle recensioni ed interviste di Arturo Compagnoni, Cesare Lorenzi e Federico Ferrari su Rumore. Quanti gruppi ho scoperto grazie a loro! Sempre attraverso Matteo ho scoperto Blow Up, che all’epoca ancora una fanzine in bianco e nero, distribuita solamente in qualche negozio di dischi. Si trattava di una vera bibbia per chi ascoltava un certo tipo di musica. Non c’era nulla di commerciale e le copertine erano davvero controcorrente con gruppi come Flaming Lips o Slint. Gli approfondimenti poi erano davvero incredibili, ricordo ancora gli articoli su etichette come Too Pure, sulla psichedelica inglese o sulla scena post rock. Internet non esisteva ancora e quegli articoli erano davvero una finestra unica sul la comunità indie internazionale. Quanti viaggi mentali mi sono fatto immaginando la vita di quegli artisti che amavo, grazie a Blow Up. Ero così affascinato da quel mondo che volevo assolutamente farne parte. Volevo conoscere quelle persone, volevo parlarci. E forse se poi ho fatto il percorso che fatto in ambito musicale, il merito è stato anche di quegli articoli.
Nel 1998 Matteo, Francesco ed io decidemmo di fondare un’etichetta discografica. Gli Yuppie Flu stavano per uscire con il loro secondo album. Avevano già una proposta interessante da parte della romana Flop Records, ma volevano seguire tutto il processo produttivo in prima persona. E visto che ero l’unico del gruppo di amici che non faceva parte della band, mi chiesero di occuparmene in prima persona. Venivamo da una piccola città come Ancona, e naturalmente non avevamo la minima idea di come funzionasse il mercato discografico. Ma eravamo abbastanza incoscienti da volerci provare. L’idea su come impostare l’etichetta me la diede un viaggio a Londra. Durante il soggiorno della capitale inglese passavo gran parte del nostro tempo nei negozi di dischi per cercare tutto quello di cui avevamo letto e che non era semplice trovare in Italia. Tornai a casa con un sacco di dischi, molti dei quali di bands (ed etichette) non inglesi: i tedeschi Blumfeld e Notwist, gli svedesi Komeda, gli spagnoli El Inquilino Comunista, gli svizzeri Sportsguitar. Mi piaceva un casino scoprire le scene “indie” dei paesi non anglofoni, ed ero affascinato dal fatto che quelle band erano riuscite ad arrivare nell’impenetrabile mercato britannico.
Ecco la nostra etichetta doveva avere due obiettivi: produrre gruppi italiani “esportabili” e ed avere appeal per gli indie-kids anche al di fuori del nostro paese.
Fu così che nacque Home Audioworks, che ben presto si trasformò in Homesleep, grazie all’ingresso di un nuovo socio: Giacomo Fiorenza. Gli anni dell’etichetta mi hanno permesso di viaggiare molto, soprattutto in tour con le nostre bands: centinaia di concerti in Italia ed all’estero con bands Yuppie Flu, Giardini Di Mirò, Fuck, Trumans Water. Tanto divertimento e tante storie da raccontare. Ma soprattutto la visione del mondo dei dei concerti dall’interno. Da li nacque l’idea di iniziare ad organizzare qualche concerto al Covo Club, i cui gestori dell’epoca erano amici. Iniziai con i release party dei gruppi di Homesleep, ben presto però l’appuntamento divenne mensile e le band che chiamavo erano soprattuto straniere, quasi sempre alcuni dei miei gruppi preferiti. Non ci volle molto tempo prima che i ragazzi del Covo mi chiedessero di entrare a far parte dell’organizzazione del locale. E dopo 15 anni sono ancora li.
Mai avrei sognato da ragazzino di lavorare gran parte della mia vita all’interno del mercato musicale. Certo, ho sempre amato la musica, ma non ho mai avuto velleità artistiche ed ho sempre sofferto un po’ la luce dei riflettori. Forse anche per questo alla fine ho sempre avuto dei ruoli “dietro le quinte”.
Ringrazierò sempre il destino per avermi fatto scambiare quella cassetta. E ringrazierò i miei amici di sempre per avermi fatto scoprire il magico mondo della musica indipendente. Dal caso è venuta fuori una vita che amo e che rivivrei esattamente nello stesso modo. Almeno per questi primi 42 anni.

I pensieri dei valutatori: Roberto Trinci

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

Ho cominciato ad ascoltare (e acquistare) musica in maniera quasi maniacale esattamente a 10 anni (1976).
Riempivo quaderni di nomi di artisti e canzoni e seguivo le classifiche internazionali in un programma Radio Rai che ogni settimana faceva ascoltare le canzoni più vendute in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti (peccato abbiano smesso di trasmetterlo già nei primi ottanta).
In seguito per quel che riguarda la radio l’adolescenza è stata occupata dai programmi serali e pomeridiani Rai (Planet rock, Stereodrome, Alberto Campo poi fondatore di Rumore era il mio speaker preferito per le selezioni che faceva, tutta la prima new wave, il post punk e la prima wave italiana da Bologna e Firenze).
A 13 anni ho cominciato a comprare Mucchio Selvaggio e Rockerilla, poi quando è partito intorno al 92 ho cominciato l’acquisto mensile di Rumore (che mi accompagna ogni mese da allora).
Per quel che riguarda la radio durante l’università mi ricordo di Radio Ulisse (Pisa), Controradio (Firenze) e Radio Flash (Torino). A seconda di dove mi trovavo.
L’acquisto di dischi veniva quindi influenzato dalle recensioni delle riviste specializzate (anche straniere, prima Q, NME, Melody Maker poi Mojo dalla Gran Bretagna e Les Inrockuptibles, la mia rivista in assoluto preferita, dalla Francia) e dagli ascolti radiofonici dei programmi specializzati in nuovo rock e musica elettronica.
Sono molto presto diventato un “ascoltatore professionista” con lunghi elenchi di dischi da ascoltare e acquistare.
In fondo anche da Direttore Artistico, il mio vero ruolo è quello di “ascoltatore professionista” e si può dire che ho iniziato a 12 anni.
Per quel che riguarda i dischi che mi hanno influenzato si parte dai cantautori italiani (intorno ai 10 anni), poi Beatles e Kraftwerk. Poi a 13 anni (era il 1979) è arrivata la rivoluzione new wave (e a quel punto per anni ho sentito Devo, Cure, Joy Division, Depeche Mode, Costello, John Foxx e i primi vagiti della wave italiana Diaframma, Neon, Litfiba e Italian Records in primis.
Successivamente tutta l’ondata inglese degli anni ottanta (dai New Order agli Smiths, dai Jesus & Mary Chain alla Sarah Records) e il mio gruppo italiano preferito di sempre (insieme ai miei Baustelle): i CCCP.
Vivendo in un paese come Borghetto Vara (La Spezia) abbastanza lontano da tutto, i concerti non sono stati una grande parte della mia crescita musicale (anche se mi ricordo qualche viaggio in treno da adolescente con un gruppo di amici fidati verso Bologna, Genova e Firenze per vedere U2, Depeche Mode, Psychedelic Furs e Cure negli anni ottanta). Memorabili i primi concerti dei Litfiba (ancora dark) e soprattutto dei Diaframma (ancora con Miro Sassolini) e CCCP.
E devo dire che mi entusiasmavano più i gruppi italiani che quelli internazionali.
Il lavoro che ho fatto sulla nuova musica italiana (firmando nel tempo Subsonica, Baustelle, Tre Allegri Ragazzi Morti, Massimo Volume, Zen Circus, Stato Sociale, Luci della Centrale Elettrica, Cosmo tra gli altri…) deriva senz’altro da questa mia passione giovanile.
Alla fine il ragazzo adolescente che passava il tempo nei negozi di dischi o a prendere appunti ascoltando la radio sarebbe fiero di me. Almeno penso.
Da ragazzo volevo cambiare le multinazionali, invece ci ha pensato la tecnologia a cambiarle (e spesso per il peggio). Ma qualche virus gliel’ho iniettato anch’io.

SondaMusicaResidente: Autobiografie Strumentali – Cinque Maschere

Realizzata in collaborazione con Associazione Lemniscata, questa residenza artistica ha permesso a 5 giovani artisti dell’Emilia-Romagna, interessati sia alla musica di ricerca che a quella colta contemporanea, di partecipare alla realizzazione di una produzione musicale incentrata sulla musica di Alessandro Bosetti. Nel corso della residenza, i musicisti hanno lavorato a stretto contatto con l’artista, assieme al curatore Riccardo La Foresta e al sassofonista Dan Kinzelman, coinvolto in qualità di collaboratore artistico.

Partendo da una serie di interviste con ciascuno dei musicisti, Bosetti ha creato una partitura che ne ricombina gli itinerari biografici ed allo stesso tempo ne confonde la doppia identità di narratori e strumentisti. Frammenti di vita vissuta si staccano dalle trame principali di ogni storia che li ha generati per ricombinarsi tra loro dando vita ad un iper-personaggio autonomo e ben al di la della somma degli individui che lo compongono. Composto da musicisti di estrazione stilistica differente, l’ensemble è stato formato da due voci (Alessandro Bosetti e il soprano Giulia Zaniboni), due chitarristi (Glauco Salvo e Luca Perciballi) e due batterie (Andrea Grillini e Simone Sferruzza).

La composizione è stata registrata e presentata in forma di concerto al termine della residenza, domenica 22 settembre 2019 presso La Torre.