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Intervista doppia: Franz Di Cioccio (Pfm) e John De Leo
FRANZ DI CIOCCIO (Pfm)
La P.F.M. è il gruppo rock italiano più famoso al mondo. Franz Di Cioccio è il batterista e la voce della P.F.M. Lui c’era agli inizi, lui c’è adesso nel momento in cui la band ha pubblicato un nuovo fiammante album, “Emotional tattoos”. Intervistare Franz significa essere travolti da un fiume in piena di ricordi e passione.
Cosa ti ha spinto a fare musica?
Mio papà era un oboista e suonava in una orchestra, poi è diventato un componente di una band jazz, aveva una vasta collezione di musica classica e tutti i giorni si ascoltava musica. Poi purtroppo, per colpa di una pleurite, ha dovuto abbondare la musica e diventare un sarto, che era il mestiere di famiglia. Anch’io insieme ai miei tre fratelli davo una mano in sartoria. La musica però era la mia passione, ho iniziato suonando il sassofono, poi il mio trasporto per il ritmo mi ha portato alla batteria, uno strumento basilare, è il nodo centrale di una band. Era un periodo nel quale ero folgorato dal rock.
Ci racconti il periodo con I Quelli, la band precedente alla P.F.M.
I Quelli sono stati fondati da me, mio padre voleva che studiassi, invece ho lasciato la scuola all’ultimo anno quando abbiamo inciso il primo disco. Siamo entrati subito in contatto con la scena musicale milanese, era un momento di grande apertura, c’erano i cantautori, gli autori, la discografia cominciava a produrre tanti nuovi artisti e subito siamo diventati dei sessionman. Il mio stile ha avuto un grande riscontro, perché suonavo liberamente ed ho trovato molti musicisti che amavano questo mio modo di suonare senza seguire un arrangiamento già preparato, mi riferisco ad artisti come Lucio Battisti, Adriano Celentano, Mina, Al Bano. In quel periodo ho imparato a gestire i suoni in studio. L’artista al quale sono rimasto più affezionato è sicuramente Battisti, un grande compositore con una voce assai particolare, eravamo molto in sintonia. Aveva una grande esperienza, avendo fatto tutta la trafila nelle sale da ballo, riusciva a capire come interagire con un brano ed avevamo dei gusti abbastanza simili. Le sessioni con lui erano decisamente belle, magari si suonava una mezz’oretta e poi se il pezzo girava si registrava. Erano situazioni affascinanti, molto diverse da entrare in sala suonare la tua parte ed andartene. Per me è stata una buona palestra.
Quanto è importante la scelta di un nome per una band?
È importante se non segui la moda del momento. Premiata Forneria Marconi nasce perché i nomi degli animali erano già stati tutti usati. Il nome de I Quelli era un azzardo, essendo la traduzione del nome dei The Who, però in inglese ha un significato profondo ed ironico che in italiano si perde. Un bel nome in italiano per un gruppo è molto difficile da trovare. Era un periodo nel quale si facevano le cover e a I Quelli capitavano sempre quelle di terza mano e non funzionavano. Nel nostro primo LP c’erano solo cover, dalle facili a quelle più complesse che guardavano avanti, come “Pensieri”, cover di “The Thoughts Of Emerlist Davjack” dei The Nice, “Hush” dei Deep Purple, o “Tornare Bambino”, cover di “Hole In My Shoe” dei Traffic. Abbiamo frequentato tutti questi gruppi che poi sarebbero diventati grandissimi negli anni ‘70 in maniera inconsapevole, perché affascinati dalla loro musicalità, che permetteva anche agli strumentisti di giocare un ruolo determinante, ruolo che solitamente era solo del cantante. Quando abbiamo capito che in giro c’era aria nuova abbiamo deciso di cambiare nome. Però doveva essere di rottura, quindi ci inventammo il nome più lungo della storia, perché più è difficile da memorizzare, più rimarrà impresso. Con un nome così particolare siamo diventati il caso di quel periodo. All’estero, però, lo pronunciavano a fatica, ma Pete Sinfield, il nostro produttore nonché paroliere e fondatore, insieme a Robert Fripp, dei King Crimson, ci propose di usare l’acronimo, molto più facile da pronunciare in inglese.
All’inizio di carriera avete suonato di spalla ad artisti importanti come i Deep Purple. Sono state importanti queste opportunità?
All’estero queste opportunità erano il pane quotidiano. In Italia questo sistema non veniva mai usato perché non c’era la possibilità, non si poteva affiancare ad un gruppo straniero un cantante italiano perché sarebbe stato fuori contesto, però quando sono arrivati le band con ottimi musicisti la P.F.M. era il gruppo perfetto per aprire i loro concerti. Eravamo preparati, mi ricordo di aver fatto sei mesi di prove costanti per affinare le nostre qualità d’improvvisazione, perché avevamo scelto una serie di cover per far capire le nostre capacità di esecuzione. Quando il nostro manager inviò un nastro a Greg Lake, che aveva appena aperto la Manticore Records, Greg rimase colpito dalla nostra esecuzione del brano dei King Crimson, che lui conosceva molto bene e ci chiamò per una audizione. Non credeva che potessimo suonare in modo così impeccabile quel brano e ci voleva vedere. Dopo l’audizione firmammo un contratto discografico con la Manticore.
Cosa ricordi dei concerti con i Deep Purple?
Al palasport di Bologna si vergognarono a presentarci. Non eravamo ancora conosciuti ed inoltre la piazza del capoluogo emiliano, come tutta la regione, è una piazza difficile perché mastica musica dal vivo in varie forme, i locali dell’epoca erano tutti in Emilia-Romagna e non potevi fare il figo spacciandoti per un musicista d’alto livello senza esserlo. Insomma, nessuno ci presenta, tutti aspettavano di vedere i Deep Purple dopo diversi anni di attesa e non era pensabile di dare mezz’ora ad un gruppo sconosciuto. Così andammo sul palco a freddo, la platea vide questi cappelloni che potevano essere una band inglese ed attaccammo con un brano molto complesso ed affascinante, “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson, con una parte centrale piena di stop, c’eravamo allenati molto per suonarlo, tanto che guardavamo per terra quando c’erano gli stop e vederci dalla platea faceva molta impressione. Dopo cinque brani, tra cui una cover dei Chicago, che facevamo pur non avendo i fiati, proprio per misurarci con l’arrangiamento, il pubblico era già dalla nostra parte. Sembravamo una band più inglese di quanto all’epoca potessimo essere italiani. Sul palco non parlavamo, non dicevamo neanche una parola ed in molti hanno pensato che i Deep Purple si fossero portati con loro un gruppo anglosassone.
Se per la Gran Bretagna eravate con la Manticore in Italia avete firmato con la Numero Uno, perché?
Era una etichetta nata da poco ed era propensa alla sperimentazione. Era una casa discografica creata da persone che volevano dare vita ad un nuovo team con idee innovative, tra loro c’era Alessandro Colombini, produttore fantastico e direttore artistico della Ricordi, che ci conosceva molto bene, ci aveva chiamato quando eravamo I Quelli per suonare in diversi dischi. Ha visto in noi delle potenzialità diverse, strumentisti che non avevano un cantante di ruolo.
Nella stesura di un brano ci si accorge di aver scritto una potenziale hit?
La certezza che diventerà un successo non la puoi avere, però puoi intuire o percepire qualcosa. Noi per principio abbiamo sempre deciso di scrivere un album diverso dal precedente in modo da evolverci. Se si ripete all’infinito un successo non c’è nessuna evoluzione. Se decidi di suonare progressive non puoi pensare che diventi regressive.
Cosa significava suonare progressive negli anni 70?
Significava poter usare la parte strumentale alla pari della parte vocale. Non erano canzoni con la classica forma strofa/ritornello ma brani dove c’era libertà di sperimentare ed improvvisare. Per esempio, l’arrivo di Patrick (Djivas) ha portato nella P.F.M. la sua cultura ed un tocco mediterraneo. Il pubblico in quegli anni capiva che la musica strumentale aveva pari dignità rispetto a quella cantata.
A proposito di Patrick, è stato difficile per lui abbandonare gli Area ed entrare Nella P.F.M.?
Nelle band è normale che ci siano dei contrasti ed è normale che quando vedi che questi contrasti minacciano il tuo futuro decidi di entrare in un’altra band, dove pensi di poter continuare a fare il musicista di professione.
Cosa ha significato andare in tour negli Stati Uniti?
Significava andare all’università, lì è tutta un’altra dimensione. Abbiamo imparato tante cose in America, per esempio a stare sul palco, ogni sera suonavamo con artisti diversi, prima di Santana, o in Texas prima degli ZZ Top. In America non gli interessa di quale nazionalità tu sia, la cosa che conta è funzionare sul palco. Noi non volevamo sembrare americani e alla fine siamo l’unico gruppo italiano entrato nella classifica di Billboard. Nella musica della P.F.M. c’erano le nostre radici ma anche un linguaggio internazionale. Piacevamo perché suonavamo come i jazzisti però facendo rock. Di noi dicevano che non facevamo mai lo stesso concerto anche se i pezzi erano gli stessi.
Come è nato il disco dal vivo registrato negli States?
È nato casualmente, era stato affittato uno studio mobile per registrare un live degli Emerson, Lake & Palmer, però il concerto saltò, quindi decisero di mandare lo studio al Central Park di New York dove ci saremmo esibiti. Arrivavamo nella Grande Mela da una quindicina di date ed altre venti che ci aspettavano, a furia di fare delle improvvisazioni quel giorno siamo riusciti a suonare come avremmo sempre desiderato. Nel disco c’è una jam session di 20 minuti che ha fatto scuola. Negli anni abbiamo incontrato, in svariati festival, diversi musicisti che ci hanno detto che erano presenti al Central Park ed erano affezionati al nostro album dal vivo.
Quanto è importante la copertina per un disco?
Le copertine dei dischi sono importanti se tu riesci ad avere una idea che racchiude il progetto, azzeccatissime sono la banana di Andy Warhol, o la zip dei The Rolling Stones.
Anche le vostre copertine sono tra le più azzeccate. Per esempio quella di “Passpartù”. Come avete coinvolto Andrea Pazienza?
La copertina di “Passpartù” nasce dal mio amore per i fumetti. Pensavo che per quel disco serviva una immagine che racchiudesse l’idea di una musica che apriva tante porte. Parlando con Gianni Sassi, il fondatore della Cramps, della mia idea di copertina mi disse di un giovane talento che conosceva e che l’indomani avrei potuto incontrare. Con Andrea ho subito avuto un bel feeling. Gli ho spiegato il progetto e gli è piaciuta lui l’idea, non aveva mai realizzato una copertina di un album prima di quel momento. Ci ha disegnati come una squadra di malandrini che stanno scassinando una porta. La metafora era la porta della musica, che noi stiamo forzando per arrivare a diverse musicalità. Il disco, infatti, aveva una musicalità rock ma improntata anche sull’acustico, non c’era l’aggressività dei lavori precedenti, era un lavoro più denso di musica. Ritornando alla copertina, direi che è eccezionale, tutti noi siamo stati disegnati in maniera perfetta. Nella busta interna Andrea ha fatto alcuni fumetti per descrivere i brani cogliendo lo spirito di ciascun pezzo. Nel tempo è diventata un simbolo e noi ne eravamo molto orgogliosi. Un’altra copertina molto riuscita è quella di “Jet lag”. Noi non abbiamo la mucca dei Pink Floyd ma un aereo di carta che attraversa il cielo, a significare un jet lag culturale oltre che temporale.
A proposito di “Jet lag”, uscito nel 1977, cosa ci puoi raccontare?
All’epoca era una parola che non conosceva nessuno e molti ci chiedevano cosa volesse dire la “Gamba del jet”, leggendo in maniera errata la parola in inglese. Avevamo girato il mondo e in questo girovagare abbiamo anche affrontato il jet lag culturale, semplicemente perché vedendo l’America non riuscivi più a comprendere alcune cose che vivevi in Italia.
Invece “Passpartù” ha segnato una sorta di svolta nella vostra carriera?
È stato un disco di rottura. Dal vivo funzionava perfettamente, mentre le vendite non sono state eccezionali. È un album che è stato capito successivamente. Ha fatto da promotore al progetto successivo.
Immagino ti riferisci al vostro incontro con Fabrizio De Andrè.
Con lui ci siamo occupati di dare una nuova veste ai suoi meravigliosi testi, perché nessuno aveva ancora capito che potevano essere ascoltati in un’altra chiave. Abbiamo usato molte atmosfere che erano state sperimentate in “Passpartù”.
Gli anni Ottanta si sono aperti con due album commercialmente molto fortunati: “Suonare suonare” e “Come ti va in riva alla città”. Cosa è successo alla P.F.M.?
Abbiamo capito che la canzone poteva avere un’altra chiave di lettura. Quindi imparammo a raccontare le nostre storie e registrammo “Suonare suonare”. Da quel momento abbiamo sempre affrontato le canzoni dando spazio alla musica ma anche ai testi.
Però verso la fine degli anni ’80 vi siete fermati.
Sì, ci siamo fermati senza scioglierci perché erano anni abbastanza caotici, poi dieci anni dopo, come può succedere, siamo usciti con un disco intitolato “Ulisse”, che ha vinto il disco d’oro. I tempi erano maturi per poterci reinserire, c’era la possibilità di esprimere diverse musicalità.
Da quel momento non c’è stato più nessuno stop.
Sì, è arrivato un disco estremamente importante come “Stati di immaginazione” del 2006, dove affrontiamo tematiche molto belle con brani strumentali perché volevamo riportare l’attenzione sulla musica suonata. Otto storie tra immagini e musica. Poi abbiamo reso omaggio a Fabrizio con le capacità maturate negli anni. Il penultimo capitolo è stato “PFM in classic”, un album dove abbiamo sperimentato, immaginando Mozart che in un viaggio temporale conosce la batteria, la chitarra e vuole suonare insieme a questi strumenti. Abbiamo fatto quello che da sempre ci contraddistingue con i nostri brani lavorando però su “Il flauto magico”, o “Romeo e Giulietta” che non sono proprio facili.
Infine è arrivato “Emotional tatoos”.
Sì, un disco non allineato come i nostri precedenti album. Un LP con diverse possibilità di lettura, perché non è un disco di genere. Adesso non possiamo essere definiti progressive perché siamo tutto quello che siamo in un colpo solo. Musicisti liberi da ogni condizionamento.
Qual è un suggerimento da dare ai giovani musicisti?
Bisogna essere sé stessi, senza camuffarsi. Non bisogna convincere gli altri mostrandosi per quello che non si è. Tirate fuori quello che siete.
JOHN DEL LEO
Definire John De Leo un cantante, sarebbe riduttivo: artista trasversale, organizzatore del festival di musica e altre forme espressive Lugocontemporanea a Lugo di Romagna, nel 2016 ha ricevuto il riconoscimento come Ambasciatore UNESCO per la cultura. Oltre ad aver pubblicato due album da solista, aver collaborato a una decina di spettacoli teatrali a fianco di nomi come Danilo Rea, Paolo Fresu, Stefano Benni, oltre ad essere stato co-fondatore dei Quintorigo (dal 1992 al 2004), ha prestato la sua voce-strumento a una miriade di progetti musicali, passando con disinvoltura dal jazz al rock, dalla musica classica fino al pop. Più di recente ha pubblicato un album, “Sento Doppio”, uscito lo scorso ottobre per Carosello Records e realizzato assieme al pianista Fabrizio Puglisi.
Come ti sei avvicinato alla musica, e quando hai capito che sarebbe diventata la tua vita?
“Va detto che sin da adolescente, in maniera assolutamente sconsiderata, ho sempre pensato che questo sarebbe stato il mio mestiere. All’epoca non pensavo mi sarei mai dedicato a nessun’altra cosa in vita mia, e credo di aver avuto veramente tanta fortuna a essere riuscito a concretizzare questo sogno. Ho avuto soprattutto la fortuna di aver potuto lavorare con musicisti molto bravi, magari con un linguaggio anche diverso dal mio, con cui confrontarmi e crescere musicalmente. Però, ecco, va sottolineato come il mio fosse un atteggiamento assolutamente sconsiderato, un deflusso della stupidità giovanile. Altrimenti si rafforza un concetto che è deleterio e diseducativo, quello secondo cui volere è potere: va ricordato che oltre alla bravura, il talento e l’impegno, ci vuole tanta fortuna. Perché nella vita purtroppo le cose non sempre vanno come uno vorrebbe”.
Guardando il tuo curriculum passato e recente, e riferendosi anche al tuo ultimo disco “Sento Doppio”, spiccano appunto le collaborazioni con tantissimi artisti anche in ambiti diversi, da jazz sperimentale di Petrella fino al rap crossover di Caparezza.
“Solitamente sono incontri non dipendono da me, ho avuto la fortuna di essere chiamato a collaborare. Anzi, le poche volte che ho provato io a contattare qualcuno non sono mai riuscito a concretizzare. E per quanto purtroppo sia perseguitato anche da un alone snobbistico, quando qualcuno mi chiama a collaborare raramente o rarissimamente mi sono sottratto. Cerco sempre di approcciarmi nella maniera più professionale possibile, mettendomi a disposizione dell’idea del regista del momento, portando un contributo che sia mio senza al contempo snaturare il mio necessario. Rifuggo più che altro chi fa parte del music business in modo spudorato. In gioventù per esempio mi è successo di rifiutare dei progetti senza voler sapere a quanti soldi stavo rinunciando”.
E per quanto riguarda invece i tuoi progetti personali, come i tuoi album da solista o la Grande Abarasse Orchestra, come scegli i musicisti con cui lavorare?
“Diciamo che nel tempo preferisco attorniarmi di persone con cui è possibile uno scambio anche umano, qualcosa che vada oltre al mero discorso musicale, altrimenti è faticoso lavorare e stare insieme. Questo credo che sia determinante anche per la musica stessa: io in particolare mi trovo spesso a lavorare da solo, ma non amo lavorare da solo, preferisco condividere e quindi amplificare magari l’entusiasmo rispetto al progetto al quale ci si sta dedicando”.
Parliamo di “Sento Doppio”: mi parli di come è nato questo disco?
“Ho incontrato Fabrizio Puglisi perché chiamato a collaborare con lui in occasione di un vernissage, la presentazione di una mostra pittorica di Giuseppe Zigaina, un collaboratore storico di Pasolini, che è morto di recente, ma al tempo era ancora vivo. Ci hanno chiamato per musicare in tempo reale, in maniera estemporanea, alcune sue opere pittoriche: quindi in pratica ci siamo incontrati direttamente sul palco, abbiamo iniziato a conoscerci anche dal punto di vista musicale, in qualche modo ci siamo stati simpatici e ci siamo ripromessi di sperimentare insieme. Così, senza un obiettivo preciso. Tempo dopo abbiamo iniziato a fare delle prove, che sono durate un anno e mezzo, fino a quando qualcuno ha scoperto che esisteva questo progetto e ci ha chiamato a fare alcuni concerti, e abbiamo pensato di fermare su disco questo esperimento in duo. Nel frattempo, però, dal momento in cui abbiamo deciso di registrarlo e la sua uscita sono passati altri tre anni”.
Tre anni sono un bel po’ di tempo: come mai avete impiegato così tanto?
“Generalmente devo dire che io tra una pubblicazione e l’altra impiego purtroppo troppo tempo. Dico purtroppo per me, perché in questo tempo così veloce si fa presto ad uscire dall’immaginario: tra il mio terzultimo lavoro e quello successivo sono passati sette anni, e al giorno d’oggi non ce lo si può permettere. E’ che io ho un concetto del tempo molto più rallentato rispetto alla scansione inarrestabile e frenetica di questi tempi, che stride con quello che sono io, e che non credo porti quasi mai a delle scelte ponderate. E’ una modalità che distrugge il concetto di memoria, perché ogni cosa viene sopraffatta da quella successiva in maniera repentina e velocissima, e questa cosa mi dispiace perché tante cose vanno nel dimenticatoio. Intendo cose non solo musicali, ma che riguardano tutti, che fanno parte della nostra storia, degli errori che facciamo come esseri umani”.
Aprendo il tuo sito la prima cosa che si legge è una frase che dice: “Il rispetto per il pubblico non sta nell’accontentarlo”. Potrebbe essere una sintesi della tua visione del fare musica?
“Io sento un forte rispetto per il pubblico e per la sua intelligenza, anche perché anche io mi sento parte del pubblico: vado a vedere concerti, leggo libri e guardo le cose che ci circondano. E sento purtroppo sempre meno di essere rispettato. È difficile da spiegare, diciamo così: se cantassi quello che il pubblico si aspetta già e che già conosce, non credo lo rispetterei. Infatti secondo me la gente alla quale ‘piace quello che piace’ solitamente in realtà applaude se stessa, perché riconosce quello che conosce. E non lo mette nemmeno in discussione, perché è molto più facile, è consolatorio”.
Per concludere: che consiglio daresti a un musicista che vuole fare carriera, vivere di musica, in questo momento?
“Gli sconsiglierei per esempio di avere come obiettivo, o almeno non come obiettivo unico, quello di diventare famoso. Non che ci trovi nulla di male, io stesso avevo le mie passioni e pensavo magari di imitare la carriera di altro. Però come dicevo all’inizio terrei presente che le cose spesso non vanno esattamente come vogliamo, quindi come musicista gli consiglierei di cercare di diventare bravo, di mantenere una passione per quello che si fa al di là del plauso della gente, e di divertirsi cercando però al tempo stesso di essere critici. Perché comunque suonare, così come giocare, è una cosa serissima, anche nel divertimento”.
Intervista doppia: Emidio Clementi e Jonathan Clancy
EMIDIO CLEMENTI
Emidio Clementi è da sempre la voce e il basso dei Massimo Volume. Un’esperienza artistica che negli anni 90 ha dato al panorama del rock italiano una nuova spinta propulsiva. Da quel periodo i Massimo Volume ne sono usciti decisamente vincitori, continuando a sfornare dischi e progetti. Emidio non si è mai adagiato sugli allori, prendendo di volta in volta nuove sembianze, da scrittore ai Sorge (ultima creatura musicale). Parlare con lui è sempre un piacere.
Ti ricordi il giorno in cui hai deciso di suonare pensando magari di farla diventare una vera e propria occupazione a tempo pieno?
“No, non c’è un giorno preciso nel quale ho pensato che suonare sarebbe diventata la mia professione. All’inizio era una situazione a livello amatoriale, poi mi sono reso conto che suonare, andare in studio e provare, riempiva le mie giornate ed ho capito che stava diventando la mia vita. Non c’è mai stata una voce che dentro di me mi diceva che sarei diventato un musicista, piuttosto sono state una serie di circostanze e di momenti che l’hanno fatto succedere”.
Quindi a un certo punto hai pensato che tutta la tua vita sarebbe ruotata attorno alla musica.
“Il mio non è un lavoro fino in fondo. Riesco a vivere di musica nel momento in cui esce un disco e faccio concerti. Per esempio, in questo momento che stiamo scrivendo il nuovo album, devo trovare altre soluzioni per guadagnare da vivere. Il mio è sempre stato un lavoro temporaneo. Insieme alla musica ho sempre fatto anche altro”.
Perché sei arrivato a Bologna?
“Sono giunto a Bologna perché c’ero già stato un paio di volte per vedere dei concerti e avevo un paio di amici che vivevano in città e per me era il centro del mondo che nel 1985 potevo raggiungere. C’era una scena, mi piaceva molto come città ed era viva. È vero che c’erano anche New York, Berlino o Londra ma per me era decisamente più difficoltoso raggiungerle e viverci. Bologna era quello che volevo e quello che cercavo”.
Quando ti sei stabilito in città sei rimasto contento della tua scelta?
“Ho avuto un periodo piuttosto lungo d’ambientamento. Dopo circa un anno dal mio arrivo avevo già il mio giro di amici e cominciavo a sentirmi a mio agio”.
In questi anni Bologna com’è cambiata?
“Innanzitutto sono cambiato io, quindi il mio sguardo nei confronti di Bologna è cambiato di conseguenza. Non posso fare un paragone sulle diversità rispetto al passato. Ogni città vive delle stagioni in cui si percepisce più energia rispetto ad altri momenti e questo è un mio pensiero abbastanza fatalista. Bologna, comunque, rimane una città molto vivace, io non la cambierei con Milano o Roma perché alla fine non credo che queste metropoli diano più opportunità”.
Quando hai letto la prima recensione del demotape dei Massimo Volume cosa hai provato?
“Esattamente non me lo ricordo. Se ci penso mi viene in mente l’emozione di leggere qualcosa sul lavoro che avevamo fatto. Leggere una opinione esterna sui nostri brani ci ha fatto sentire più adulti”.
Una band è costruita sui rapporti personali di ogni componente che a volte possono sfociare nell’amore o nell’odio. Come si sopravvive a una band?
“Non lo so’ proprio. L’altro giorno stavamo provando e a un certo punto, tra un pezzo e l’altro, ho detto che è quasi contro natura stare insieme per 25 anni, pensando che non ci riesce l’amore e non ci riescono le coppie. Alla fine, al di là di un grosso affetto che c’è tra di noi, credo che ognuno dei Massimo Volume ci tenga in maniera particolare a quello che facciamo e al nostro suono. Questo ci ha fatto superare i momenti di incomprensione che abbiamo avuto”.
Se pensi a “Stanze”, il vostro primo lp del 1993, cosa provi?
“Provo mille emozioni. È un disco che per alcuni versi sento distante, però rappresenta la mia e la nostra giovinezza. Ricordo una grande insicurezza e una grande presunzione. Da una parte, il fatto che non eravamo un gruppo di genere, ci rendeva particolare ma ci faceva sentire un poco isolati, quindi una sorta di insicurezza unita alla presunzione che pensavamo di cambiare la musica non solo in Italia ma nel mondo”.
Fermo restando che non essendo un gruppo di genere avete poi creato un genere.
“Sì è vero, anche noi abbiamo creato molti mostri”.
C’è un brano di cui vai particolarmente fiero?
“Non voglio essere presuntuoso, ci sono diversi brani cui sono particolarmente affezionato. Potrei dirti “Le nostre ore contate” da “Cattive abitudini”, una canzone che ogni volta che riascolto mi piace molto e credo che tutti quanti abbiamo lavorato per renderlo un brano speciale. Però, per le stesse ragioni, potrei anche dirti “Il primo Dio” da “Lungo i bordi” del 1995”.
Quindi ti succede di riascoltare i vostri dischi?
“Tutto insieme non così spesso, però un brano ogni tanto mi capita di sovente. Quando lavori a del nuovo materiale è utile capire se ci siamo lasciati qualcosa alle spalle, qualcosa che abbiamo dimenticato e che adesso potrebbe servire. È utile riascoltare il passato. Se i brani non li riascolti magari anche tu ti fai una idea basata sui luoghi comuni che è sbagliata. È un esercizio perfino gratificante, perché se penso a questi anni vedo sempre un grande momento di impasse in cui non riesco mai a trovare la frase giusta, mentre riascoltare i dischi e sfogliare i miei libri mi porta a pensare che in fondo qualcosa di buono l’ho fatto anch’io”.
Negli anni è cambiato il tuo metodo di scrittura?
“Difficile dirlo, forse c’è un pizzico in più di comprensione e di sentirsi meno isolati nel mondo, in un scrittura che rimane comunque drammatica. Negli anni avverto sempre meno disagio rispetto agli inizi”.
Ci si accorge quando un brano che può diventare un successo?
“Sì, quando lo riascolti tra una prova e l’altra. Per noi i brani che hanno funzionato di più sono stati proprio quelli che ognuno di noi, in solitudine, riascoltava prima ancora di finirli. Un campanello che ci diceva che quel pezzo avrebbe funzionato”.
Emidio Clementi è un musicista, scrittore, cantante, insomma diverse sfaccettature della stessa persona. Però alla fine tu chi sei?
“Credo di avere una certa sensibilità e poca tecnica. Penso di essere un artista che ha trasformato i suoi limiti in opportunità. Creando uno stile personale”.
Tu cosa ne pensi dei talent musicali?
Non ho niente contro i talent. Quest’anno che a X Factor c’era Manuel (Agnelli N.d.R.) l’ho anche visto con curiosità. Non credo che lo scopo di questi format sia quello di formare dei nuovi artisti. Mi sembra che alla fine i partecipanti siano un po’ abbandonati a se stessi. Forse per essere più sincero dovrebbe essere più spietato. Sbagli una nota, ti cade addosso un secchio di vernice”.
Tu faresti il giudice?
“No, non credo, non mi ci vedo in quel ruolo. Dovrei pensarci”.
Un tuo consiglio per chi oggi decide di cantare o suonare?
“Deve avere lo scopo di creare qualcosa che gli piaccia, senza preoccuparsi di chi ascolterà le sue canzoni. In pratica essere se stessi e originali. Ti accorgi sempre quando hai tra le mani qualcosa che può funzionare e che potrebbe avere un pubblico”.
Artisticamente parlando c’è una cosa che ti sei pentito di aver fatto?
“No, direi di no. Forse avrei riscritto dei pezzi e qualche disco è sicuramente meno riuscito di altri, però è giusto che in una carriera ci siano anche dei passi falsi, la rende più umana. Servono anche gli sbagli”.
Qual è il disco meno riuscito dei Massimo Volume?
“Credo che sia “Club privè”, perché le mie linee vocali non funzionano e perché cercavamo una strada che non era la nostra. Sentivamo l’esigenza di cambiare ma lo abbiamo fatto in maniera troppo impulsiva. Col senno di poi è stato anche un passo utile, perché abbiamo capito che c’erano sentieri che non dovevamo percorrere. Rimane comunque un disco incostante”.
JONATHAN CLANCY
Partiamo dall’inizio: cosa ti ha fatto avvicinare alla musica, come hai iniziato a suonare e cosa ti ha spinto a continuare?
Sono stato fortunato, in casa sin da piccolo giravano dischi di Marvin Gaye, Neil Young, Al Green, Louis Armstrong, David Bowie, Leon Russell e Van Morrison… Direi che è tutto partito da lì, grazie agli ascolti di mia mamma. Sin da subito ho provato un’attrazione fortissima per la musica, soprattutto a livello live, e così a 16 anni è partito il primo gruppo del liceo che poi son diventati i Settlefish. Sono spinto a suonare ancora dalle stesse cose che provavo da ragazzino, mi rende felice e tramite la musica posso viaggiare tantissimo non da “turista”.
Come vivi la scena bolognese, e quanto credi che questo abbia influenzato la tua musica? Quanto c’è del Canada e quanto di Emilia nella tua musica, secondo te?
Sicuramente gli anni dell’adolescenza in Canada hanno cementificato la mia passione per il rock: in quegli anni usciva il grunge, l’alternative americano… Bologna è stato però il punto di contatto con tutto quello che era underground, i concerti al vecchio Link, tutte le band viste al Covo, all’Atlantide, al TPO. Ho avuto la possibilità di vedere qualsiasi cosa e soprattutto saltare da un ambito all’altro.
Come è cambiato se è cambiato, il tuo rapporto con la musica prima della notorietà con Settlefish e A Classic Education? E come ha influenzato il tuo modo di lavorare come His Clancyness?
Non è cambiato in nessun modo. Ogni volta cerco, anzi cerchiamo visto che dipendo anche dalle altre persone della band, di fare qualcosa che sia il più possibile personale. Sicuramente crescendo lasci da parte molte influenze, le mastichi meglio, ti senti più sicuro di rischiare e fare qualcosa di diverso.
Con gli His Clancyness avete pubblicato da poco un nuovo LP “Isolation Culture”: qual è secondo te il maggiore passo avanti in questo album rispetto a “Vicious”, e come mai avete aspettato tanto tempo prima di fare un nuovo album?
Abbiamo aspettato tanto tempo semplicemente perché per due anni siamo stati costantemente in tour e difficilmente riusciamo a scrivere durante i concerti. Abbiamo bisogno di staccare completamente, trovare nuovi stimoli. Il nuovo disco penso sia molto diverso, soprattutto perché è l’unione di 4 persone, Giulia, Nico, Jacopo e Jonathan. Ci siamo influenzati a vicenda, abbiamo discusso sugli arrangiamenti e soprattutto suonato oltre 160 concerti assieme. Lo sento come un album più a fuoco, più denso.
Cosa ti ispira nello scrivere le tue canzoni, in generale? E quali sono state le tue maggiori ispirazioni per i brani di “Isolation Culture”?
Viaggiare, quasi sempre è quello il primo stimolo. Spesso guardando dal finestrino del furgone mi vengono in mente pezzi di testi, idee, riflessioni sulla serata prima… Isolation Culture nasce da lì, dalla banalissima osservazione di dove va a finire tutto il sapere che accumuliamo, tutte quelle nozioni che poi non condividiamo… Il vivere la cultura in maniera isolata e solitaria, condividere magari solo la parte banale e superficiale. Volevamo che fosse un disco senza pause, da immersione completa.
Sei riuscito a ottenere ottimi risultati proponendo un genere musicale e uno stile che sicuramente non è facile in Italia, anche perché in inglese. Quali pensi siano stati i tuoi punti di forza?
Sicuramente il fatto di aver viaggiato così tanto, e di aver visto tantissime situazioni diverse. Lavoriamo tantissimo, scartiamo tante cose e dobbiamo essere tutti molto convinti per pubblicare qualcosa. Forse anche il fatto di non guardare ai confini… Non ci interessa fare distinzione tra suonare a Catania, Monaco, Belgrado o Austin. Pensiamo siano tutti posti importanti e vogliamo che la nostra musica ci arrivi, per quanto possibile.
Dal momento che vivi da un po’ di tempo nella scena indipendente italiana: com’è la situazione? Migliore o peggiore di quando hai iniziato a suonare? Qual è lo “stato di salute” della musica indipendente in Italia?
In superficie, abbastanza “terribile”. Ai concerti va sempre meno gente e se ci va, è per le cose grosse, sicure, confortanti, in “italiano”, senza pensare troppo. Questo ha creato secondo me un divario gigantesco, il pubblico si è decisamente “assopito” e non ha troppa curiosità. Detto ciò, forse proprio in contrapposizione c’è una scena underground viva come non mai, gruppi e artisti che letteralmente spaccano e girano il mondo e hanno anche qualche piccolo riconoscimento fuori dai confini. Non ho mai ascoltato così tanta musica Italiana come nel 2016!
Con tutti i tuoi progetti hai sempre ottenuto buoni riscontri all’estero: quali differenze, nel bene o nel male, hai potuto vedere tra il modo di vivere la musica e la discografia dentro e fuori dall’Italia?
Non so… Potrei risponderti con tutte le banalità del caso, che spesso sono vere: “fuori è più facile”, “il pubblico è più caldo”, “si vendono più dischi”, “i promoter sono più attenti”, “ti senti trattato veramente come un musicista”. Però poi alla fine che senso ha? Io abito qua, in Italia, e comunque suono tantissimo e cerco costantemente di portare il mio contributo organizzando concerti, festival e via dicendo. Penso sia meglio fare delle cose in contrapposizione che lamentarsi. Non c’è quello che vorresti, prova in piccolo a crearlo.
Cosa ti colpisce quando ascolti una canzone che ti piace?
Sicuramente l’aspetto emotivo.
Qual è per te la tua canzone più bella, o a cui ti senti più legato, e quale la più brutta?
Al momento “Pale Fear”, dall’ultimo album. Più brutta… mmm… ce ne sono tante (eh eh)! Sicuramente alcune delle prime cose, non amo troppo risentire “Slash The Night” da Vicious ma agli altri nella band piace molto.
Un consiglio per un musicista emergente che vuole fare musica in Italia nel 2016?
Per quanto possibile fare qualcosa di personale, farsi veramente una analisi profonda… “sto facendo qualcosa che non è 100% uguale all’ennesima band di Brooklyn o Londra? Posso portare dentro la mia musica, anche se è un genere distante, qualcosa delle mie radici?”.
E un consiglio per un musicista che punta all’estero per far conoscere la propria musica?
Confrontarsi subito con realtà piccole fuori dal proprio paese, non pensare che la musica possa diventare un lavoro.
Intervista doppia: Gianni Maroccolo e Andrea Sologni
L’intervista doppia mette a confronto, questa volta, due bassisti. Gianni Maroccolo, membro fondatore dei Litfiba, C.S.I., P.G.R., ancora impegnato a scrivere musica e salire su un palco e Andrea “Sollo” Sologni dei Gazebo Penguins, nonché produttore e proprietario dell’Igloo Audio Factory, centro nevralgico di tante produzioni indipendenti: Giardini di Mirò, Giancarlo Frigieri, Crimea X, Fine Before You Came, solo per citarne alcuni. A loro la parola.
GIANNI MAROCCOLO
Una vita per la musica, quando ti guardi indietro, se lo fai, come vedi Gianni Maroccolo giovane?
“Mah… noto sul mio volto le mutazioni del tempo. Sento il mio fisico che arranca e che fatica sempre di più a stare al passo con la mente, ma dentro sono mosso dalle stesse passioni, dalle stesse speranze, dalla stessa indomabile curiosità di incontrare e sperimentare. Non c’è in me alcun disincanto o rimpianto. Oggi sono un po’ più saggio ma continuo a seguire il mio istinto e il mio cuore senza fare calcoli, senza accontentarmi dei piccoli successi vissuti, senza arroccarmi in certezze né vivere situazioni di comodo. Quando un progetto o una storia finisce, guardo avanti e cerco di andare oltre con la stessa incoscienza di allora”.
Hai fatto parte di alcuni dei gruppi rock più importanti della musica italiana. Come si diventa una band che lascia un segno?
“Credo abbia a che fare con le scelte personali. Non mi accontento facilmente e certi incontri credo non siano avvenuti per caso. Seppur con umiltà, ho sempre desiderato in cuor mio lasciare un piccolo segno del mio passaggio in questa vita e il mezzo per provarci è diventato “casualmente” la musica. Ho gironzolato cocciutamente alla ricerca dell’insieme e del talento e ho avuto anche un po’ di fortuna perché ogni incontro ha lasciato, almeno dal mio punto di vista, quel segno di cui parli. C’è voluto tanto lavoro, pazienza e umiltà ma soprattutto per ogni progetto d’insieme è necessario saper gestire il proprio ego. Un gruppo vive per sottrazione e sintesi. La creatività di ognuno deve essere finalizzata al progetto e non alla gratificazione personale. Credo sia un grave errore pensare che la soluzione migliore sia quella di dare il meglio di sé. Forse ho avuto la fortuna di incontrare musicisti che mi hanno aiutato a comprendere la musica nel suo insieme. Sin da ragazzo mi affascinava più l’arrangiamento di un pezzo, capire il processo creativo con cui si arrivava ad avere una composizione finale. Mi piaceva studiare le singole parti, le sonorità, le melodie e le ho sempre vissute non come “parti singole” ma come una sorta di magici pezzi di un puzzle. Ma le emozioni le vivo in modo forte ascoltando il “puzzle” nel suo insieme”.
Tu hai ispirato tanti bassisti ma quali sono state, invece, le tue ispirazioni?
“Ho iniziato a suonare il basso per caso e non credo di essere un gran bassista. Preferisco pensarmi un buon musicista, il basso, infatti, l’ho sempre usato come “mezzo” per dare note e suoni alle mie suggestioni. Non ho mai perso la testa per un bassista in particolare. Adoro una manciata di bassisti piuttosto sconosciuti ai più: J.J. Burnel, Peter Principle, Peter Hook, Mick Karn, Tina Aumont, Les Claypool, Kim Gordon. E poi due grandi bassisti/ musicisti/produttori: John Paul Jones e Rogers Waters. Grande stima per Jaco Pastorius anche se non mi piacevano i Weather Report. E poi il mito Mr. Groove: Bernard Edwards!”.
Quali sono gli equilibri all’interno di una band? Mi riferisco al fatto, per esempio, che solitamente il cantante assume un ruolo di protagonismo (nel bene e nel male) o che coppie di autori diventano preponderanti nei confronti degli altri componenti di una band.
“Ogni gruppo fa storia a sé e vive di propri equilibri e proprie alchimie. Spesso all’inizio certi “ruoli” si manifestano naturalmente sulla base di attitudini personali. Credo sia controproducente mettere in discussione ciò che, appunto, è naturale. C’è chi è maggiormente portato a scrivere testi, chi ad arrangiare, chi a smanettare sui suoni, chi a comporre armonie, o melodie e non c’è da inventarsi nulla se non lasciarsi trasportare da ciò che, di fatto, c’è. È sempre rischioso cercare di decodificare e comprendere gli elementi che creano il giusto equilibrio. Ogni volta che si fa, almeno a me è accaduto, le storie finiscono”.
Come si sopravvive, artisticamente parlando, alle mode, all’amore dei fan, all’invidia dei colleghi, alle canzoni che non vogliono girare per il verso giusto?
“Non so rispondere a questa domanda perché, davvero, ho sempre lottato per cercare di realizzare i miei sogni senza mai badare a ciò che mi girava intorno. È fondamentale comprendere bene l’epoca in cui viviamo, essere consapevoli delle mutazioni e viverle senza timori ma credo che un’artista debba riuscire a livello creativo ad essere oltre il tempo, oltre tutto. E se poi le canzoni non girano beh, meglio attendere che torni l’ispirazione invece di forzare un disco”.
Come sono nate queste canzoni: “Tziganata”, “Apapaia”, “Del mondo”, “Cupe vampe”?
“Tziganata da un giro di tastiere di Aiazzi su cui Piero iniziò subito a canticchiare quella che poi divenne la melodia del pezzo, poi arrivò il basso e successivamente il resto. Apapaia non ricordo bene ma sono certo che fu una gestazione piuttosto lenta, testo e melodia vocale arrivarono qualche tempo dopo la parte musicale. Ma credo che nessuno possa smentirmi se dico che sia valsa davvero la pena di attendere. Del mondo nacque una mattina in Bretagna da un giro di tastiere di Magnelli, lo suonò per un bel po’ ma nessuno gli andava dietro, era un bellissimo giro e avevamo paura di buttare delle note a caso. Poi dopo un po’ mi è venuto il giro di basso e a quel punto Ferretti iniziò a lavorare la melodia vocale. Il pomeriggio tornò col testo finito e noi completammo il pezzo. Su Cupe vampe c’è un vecchio aneddoto che vale la pena di essere raccontato. Cupe vampe è una delle canzoni di “Linea Gotica”, album ispirato alla resistenza e alle figure di Don Dossetti e del Comandante Diavolo. Giovanni una sera dette il testo di Cupe vampe a Francesco e gli disse che desiderava una musica molto grave e dolorosa. Rimanemmo io e lui fino a notte fonda a suonare, poi Francesco accennò il giro armonico di quella che sarebbe diventata la prima parte del pezzo, ci guardammo con soddisfazione e andammo avanti. A me venne fuori il finale in 6/8 su cui poi Giorgio mise un bellissimo solo di violino.
La mattina facemmo ascoltare la bozza a Giovanni che guardandoci ci disse piuttosto incazzato qualcosa del genere: “Se voi credete di fare un disco pop sappiate che io non sono e non canto come Baglioni“. Ci guardammo esterrefatti. Aveva appena ascoltato la musica di Cupe vampe, credo insieme a Memorie di una testa tagliata, una delle canzoni più tristi e scure dei C.S.I. Comunque sia, la si poteva definire in tutti i modi, tranne che una canzone pop. Cose che capitano in gruppi umorali come i CS.I.”.
Cosa ti ha spinto ad iniziare a suonare e a continuare?
“Credo sia stata la passione. Infanzia passata a percuotere pentole, ad ascoltare di notte ogni genere di radio e di giorno i 45 giri di mia sorella nel mangiadischi. Guardavo ogni genere di programma tv musicale e adoravo le colonne sonore degli sceneggiati di allora, sono cresciuto fondamentalmente con tre grandi passioni: il mare, la musica e il calcio che ho coltivato per anni senza nessuno scopo specifico. Vivevo in Sardegna, quindi mare bellissimo e musica ad ogni sagra o festa. Poi decisi che il mio mestiere sarebbe stato quello del marinaio e iniziai il Nautico ma la vita mi ha portato altrove e così, sempre senza rendermene conto, la musica ha preso il sopravvento sul resto. Non credo che smetterò mai di suonare (anche se in passato stava per accadere) così come non abbandonerò il mare. Un conto è fare musica, sperimentare, comporre, altra cosa è fare dischi e concerti”.
Come è cambiato negli anni, se è cambiato, il tuo rapporto con la musica?
“Non è cambiato. È qualcosa che fa parte di me. Molto semplicemente, se non amassi e vivessi la musica non sarei la persona che sono. È un rapporto molto viscerale e di rispetto, qualcosa che mi arricchisce (ahimè, purtroppo non in senso materiale), che mi aiuta a crescere, fa bene alla mia mente e al mio spirito. Suono e ascolto musica da sempre e ho imparato a scindere il “piacere della musica” da quello che ritengo il più bel mestiere che ci sia. Beh, forse accadrà che cambierò mestiere ma non smetterò di suonare e ascoltare musica”. Cosa ti colpisce quando ascolti una canzone che ti piace? “L’ insieme. E immagino che per molti sia la stessa cosa. Un approccio emotivo quindi privo di qualsiasi analisi mentale. Quando suono, riesco a estraniarmi totalmente da ciò che sto facendo e ascolto tutto l’insieme. Lo stesso accade quando ascolto una canzone. Solo dopo un po’ di tempo mi concentro sulle singole parti, sugli
arrangiamenti, i suoni, la voce e il testo”.
Qual è la canzone più bella e più brutta che tu abbia mai scritto?
“Ho la tentazione di risponderti da furbetto, qualcosa del tipo; quella che devo ancora comporre. Scherzi a parte, non saprei davvero e poi ho quasi sempre condiviso la composizione di canzoni con altri. Sono molto affezionato a Linea Gotica dei C.S.I. e a Louisiana dei Litfiba e, ad essere sincero, ritengo un pezzo non riuscito Io e Tancredi”.
I C.S.I. torneranno insieme a Giovanni Lindo Ferretti?
“I C.S.I. non hanno ragione di esistere senza Giovanni. Così come cessarono di esistere quando se ne andò Zamboni nel ‘98, e questo vale per tutti. I C.S.I. sono un’ insieme che per vivere necessita di tutti e cinque, e se uno di noi non c’è, non ci sono i C.S.I. Se ti riferisci al periodo in cui ci siamo ritrovati e abbiamo chiesto ad Angela Baraldi di cantare le “nostre” vecchie canzoni beh, credo sia improprio parlare di C.S.I. Cosa accadrà in futuro non lo so davvero. Navigo a vista, felice di avere con Francesco, Ginevra, Giorgio, Giovanni e Massimo, un vero rapporto di affetto e sana amicizia. La domanda giusta da farsi forse sarebbe: torneranno mai insieme i C.S.I.? E la mia risposta rimane quella di sempre: non lo so. Se ciò potesse accadere non mi tirerei di certo indietro ma possibilmente per produrre nuove parole e nuove note”.
Cosa è stato il C.P.I.?
“Una bellissima esperienza di musica e cultura condivisa. Incoscienti, visionari e poco avvezzi al music business, provammo a creare una vera e propria Factory all’interno della quale operavano creativamente due strutture produttive: Sonica a Firenze e I Dischi del Mulo a Reggio Emilia. Un tentativo di far circolare nuova musica, giovani talenti e al tempo stesso di creare progetti condivisi come ad esempio Materiale Resistente, il tributo a Robert Wyatt, Il Maciste e i raduni (che tu Andrea ben conosci!). Nel giro di poco tempo il C.P.I. divenne un piccolo punto di riferimento per creativi e artisti di ogni tipo, grafici, pittori, scrittori, videomakers, tecnici del suono, produttori, da noi c’era la possibilità di sperimentare e di crescere. E la Factory si trasformò velocemente in una ’big family‘. Sicuramente uno dei progetti più belli e importanti della mia vita”.
Quale eredità lasceranno i Litfiba e i C.S.I.?
“Non lo so davvero. E forse non credo spetti a me dirlo”.
Qual è il tuo consiglio per un giovane che vuole fare musica nel 2015?
“Capire al più presto se si è disponibili a fare della musica una scelta di vita. Dopodichè, non potrebbe essere altrimenti, ognuno troverà il suo percorso e il proprio spazio. Fare musica è una cosa, ricercare successo, ricchezza, fama è tutt’ altra storia”.
Cosa succederà alla musica nei prossimi anni?
“Continueremo a suonare, a produrre musica, ad ascoltarla. Le mutazioni epocali (come quella che stiamo vivendo) condizionano il mercato, la tecnologia, ma di fatto, e da sempre è così, nessun fenomeno sarà in grado di ’eliminare‘ la musica dalle nostre vite. A differenza di noi, la musica è, e sempre sarà, eterna. E ritengo ininfluente sapere se ce ne ’ciberemo‘ attraverso un lettore, un telefonino, un chip, o un giradischi”.
ANDREA SOLOGNI
Cosa ti ha fatto avvicinare alla musica?
“Mi sono avvicinato alla musica con l’hip hop, a 14 anni. Mi sono messo a produrre le mie prime basi con un Akai 950 e il primo cubase, che mi è servito tantissimo per il mio lavoro di adesso. Da allora ho deciso che prima che un musicista volevo essere un bravo tecnico del suono”.
Come mai hai scelto di suonare il basso, e quali sono i musicisti a cui ti ispiri?
“Ho imparato a suonare il basso per necessità, perché io e Capra volevamo fare un trio che poi sono diventati i Gazebo Penguins. Non credo di avere dei musicisti a cui mi ispiro, traggo ispirazione più da certi produttori e produzioni. Anche se un bassista che mi fa impazzire adesso è Joshua Abrams”.
È cambiato il tuo rapporto con la musica, rispetto a quando con i Gazebo Penguins non eravate famosi?
“Non ritengo assolutamente di poterci definire famosi! Abbiamo sempre fatto quello che volevamo fare e ci è ‘andata bene’, abbiamo potuto suonare tantissimo in giro e vivere tante belle situazioni. I musicisti ‘famosi’ fanno solo quello, noi abbiamo tutti un altro lavoro. Suonare rimane la nostra passione più grande, continueremo a farlo anche se non ci fosse un ritorno di notorietà”.
Come è nato l’Igloo Audio Factory? E come mai questo nome?
“È nato per la necessità di avere un posto dove poter produrre quello che desidero quando voglio e come voglio, oltre a registrare e mixare chiunque abbia bisogno. Prima di avere questo posto, con i Penguins e i Valerian Swing provavamo in un vecchio casolare dove ogni 4 mesi organizzavamo delle serate live chiamate ‘Igloo’. Una volta dismesso quel posto causa terremoto, ho deciso di tenere il nome come ricordo”.
Raccontaci un po’ come affronti il lavoro in studio con una band o un solista.
“Se accetto di lavorare a una produzione è fondamentale il lavoro pre-studio: sentire le bozze, le prove, dare una direzione al lavoro. Ascolto sempre le opinioni e i pareri di tutti, anche se su certe cose come i suoni o gli ambienti non transigo molto, per la buona riuscita del disco. Per gli arrangiamenti mi piace coinvolgere a pieno chi sceglie di lavorare con me, mentre si fa un disco bisogna pure sempre ricordare che tutti si devono anche divertire”.
Qual è la funzione degli studi di registrazione professionali come il tuo, ora che quasi chiunque può registrare con un computer e qualche software?
“La loro funzione è quella di sempre: garantire che la musica possa trasmettersi nel miglior modo possibile, con messaggi sonori ben precisi. Una produzione in uno studio è fondamentale per far si che le cose non suonino tutte uguali, che ci sia creatività nel fare un disco, che ricordiamolo è un prodotto di arte e creatività. Negli studi si può sperimentare con strumenti che a casa non si hanno, le idee possono centuplicarsi e trovare i mezzi giusti per incanalarsi”.
Cosa ti colpisce quando ascolti una canzone o un artista che ti piace?
“Mi colpisce la canzone in sé, se mi trasmette un’emozione appena faccio play. Ascolto se la voce è particolare, se ha senso assieme al resto, mentre se è strumentale mi devono colpire i suoni, l’ambiente. L’unico metro di giudizio di un artista, oltre alla validità del progetto in sè, è la serietà. La voglia di fare qualcosa senza la paura di doversi poi fare il mazzo per portarlo in giro. E anche un po’ di umiltà non guasta”.
Domanda aperta, diciamo: dal momento che vivi la scena sia come bassista di una band che come produttore, qual è lo “stato di salute” della musica indipendente in Italia?
“Ritengo che la facilità con cui ora chiunque possa fare musica abbia dato a chi ha veramente talento i mezzi per esprimersi, anche se genera una quantità enorme di cose fatte tanto per fare, che distraggono dalle poche cose realmente interessanti. In generale però l’età con cui un musicista può iniziare a farsi sentire a livello semi professionale si sta abbassando, ed è un gran bene”.
Un consiglio per un musicista emergente che vuole fare musica nel 2015?
“Di tenersi aperte tutte le possibilità, come può essere un lavoro part time ad esempio. Io mentre lavoravo per mettere in piedi lo studio e con i Penguins portavo in giro ‘Legna’, oltre a fare il fonico dal vivo per varie band lavoravo anche come proiezionista al cinema di Correggio. Per 3 anni non ho avuto vita sociale, ma ciò mi ha consentito di investire in quello in cui credevo. Bisogna essere sinceri e ammettere che prima che la musica diventi un lavoro possono volerci tempo e sacrifici”.
Intervista doppia: Afterhours e Lo Stato Sociale
AFTERHOURS
Gli Afterhours fanno parte della scena rock italiana da tanti anni. Il loro successo è palpabile, nei concerti e nei dischi venduti. Manuel Agnelli è da sempre il motore principale della band. Per capire una storia artistica così importante gli abbiamo rivolto qualche domanda.
Perché sono nati gli Afterhours e come avete affrontato gli inizi di carriera?
“Sono nati da un’esigenza. Tutti noi volevamo suonare perché era l’unico linguaggio con il quale potevamo parlare. Suonando ci sentivamo noi stessi. Non è stato un progetto nato a tavolino pensando a una carriera. All’inizio abbiamo cercato, anche stentando, una nostra personalità, che quando abbiamo trovato è diventata irrinunciabile. Non c’era una volontà professionale, perché altrimenti non saremmo andati avanti per così tanto tempo. I primi veri guadagni sono arrivati dopo sette/otto anni di gavetta. Non consiglierei mai a nessuno di mettere in piedi un progetto con il puro scopo di crearsi una carriera suonando musica come la nostra”.
Che cosa è cambiato dagli inizi a oggi?
“Sono cambiate tante cose. Sia dal punto di vista di line-up sia dal punto di vista di una crescita personale. Adesso a livello professionale le cose sono molto più gratificanti e semplici, avendo una squadra di persone che lavora con e per noi. Siamo arrivati al punto che suoniamo per il piacere di suonare senza pensare al resto. Con questo non dico che non ci siano, ogni tanto, dei problemi, perché non siamo i Rolling Stones. Però mi ricordo che all’inizio dormivamo per terra dentro i sacchi a pelo e ripensandoci si suonava in situazioni che oggi nessuno affronterebbe neanche all’inizio di carriera”.
Quando vi siete resi conto che era arrivato il successo?
“Dopo l’uscita di “Hai paura del buio?” c’è stata una svolta. Il nostro pubblico è passato da 100 a 1000 persone a concerto, com’è aumentato il numero dei live, da una dozzina all’anno a più di 60, per poi continuare a crescere in maniera costante. Nel 2006 i concerti sono stati ben 120 tra Italia, Stati Uniti ed Europa”.
Come avete gestito il successo a livello mentale?
“Fortunatamente le cose attorno a noi non sono cambiate da un giorno all’altro, il successo è arrivato dopo tanti anni di gavetta che ci hanno permesso di tenere i piedi ben saldi per terra. Con questo non voglio dire che gli Afterhours erano immuni da problematiche interne. Avevano visioni e opinioni diverse su come continuare a fare musica, perché più aumenta la diffusione della tua musica, più diventa difficile gestire tutti i dettagli. Oggi è impensabile, come vent’anni fa, dedicare lo stesso tempo a 300 persone che vogliono parlarti dopo un concerto”.
Come si superano le crisi all’interno di una band?
“Con l’esperienza e con l’intelligenza. Non ci sono delle regole da applicare. Dipende dalle persone coinvolte. Bisogna capire quali sono le cose importanti da salvaguardare. Il mondo della musica non è un mondo di geni, ci sono troppe velleità in ballo. Se manca l’intelligenza prima o poi una band è destinata a rompersi, perché è un compromesso troppo grande da sopportare. Mediamente un gruppo dura intorno ai 4/5 anni. Una band è galvanizzante ma è anche un forte compromesso di personalità diverse”.
Tu ti sei prodigato per far crescere il rock italiano. Però la scena non è mai esplosa. Perché?
“Credo che sia colpa di una mancata informazione. È colpa dei giornalisti che hanno minimizzato quello che stava accadendo rispetto, invece, a quello che succede in Paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, dove la stampa sostiene anche fenomeni musicali del tutto marginali. Forse c’è stata una sorta di paura di sostenere degli artisti che si sarebbero sgonfiati di lì a poco. La stampa specializzata ha aiutato la scena rock nostrana facendolo però con un paternalismo dannoso. Si è persa una grossa occasione per cambiare anche le strutture che stavano intorno alla musica, mi riferisco ai fonici, produttori, tecnici ecc. Non è stata colpa del pubblico e nemmeno degli artisti”.
Per una band calata nell’oggi quanto è importante l’utilizzo dei new media?
“Oggi per una band già avviata è indispensabile avere una forte comunicazione sul web. Per gli esordienti non credo che sia così efficace, in tutto il mondo saranno una decina, le band che sono riuscite a farsi conoscere attraverso la Rete. Troppa informazione crea un corto circuito”.
LO STATO SOCIALE
E’ praticamente dal giorno della pubblicazione di “Turisti della democrazia” nell’ormai quasi lontano 2012, o forse ancora meglio da qualche tempo prima con gli EP “Welfare Pop” e “Amore ai tempi dell’Ikea”, che i ragazzi de Lo Stato Sociale in qualche modo dividono gli animi: da una parte il pubblico spesso giovane (o giovanissimo) che li ha eletti a portavoce generazionale e nuovo fenomeno del cosiddetto “indie” italico, dall’altra la critica che a sua volta si scinde tra gli elogi degli avanguardisti del pop e il biasimo della vecchia guardia, la quale li considera più o meno come la bufala del secolo. Tuttavia, visto che (citando uno che di Pop se ne intendeva) “non c’è migliore pubblicità della cattiva pubblicità”, in questi due anni Lo Stato Sociale ha comunque macinato palchi su palchi, conquistandosi con sudore e chilometri un posto di diritto nel panorama musicale italiano e mettendo sullo scaffale un nuovo lavoro: “L’Italia peggiore”, accolto sorprendentemente con prime posizioni in classifica e compagnia bella, e definitiva consacrazione di questi cinque ragazzi di Bologna. Quale miglior esempio di gruppo emergente (o ormai emerso) per questa intervista doppia? A sopportare le nostre domande è stato Alberto Cazzola, bassista e fondatore del gruppo.
Quando è stato il momento in cui vi siete accorti di essere diventati un gruppo di successo?
“Non so bene cosa sia il successo, forse non esiste. Sicuramente non si può misurare nella dicotomia successo / non successo. Pensa se fossimo diventati un gruppo di insuccesso, per noi è già una battaglia vinta essere un gruppo e basta. Un collettivo che si fa forza e va avanti grazie al supporto di tutti. Per rispondere comunque alla domanda, credo di aver capito definitivamente che non si sarebbe più tornati indietro quando Bebo ha lasciato il suo lavoro per suonare”.
Come è cambiata la vostra vita dopo “Turisti della democrazia”?
“Più che altro abbiamo iniziato ad avere molto meno tempo libero. E adesso, spesso, anche il tempo libero lo si passa a pensare allo spettacolo, ad una canzone, ad una parola”.
Ci sono stati dei momenti difficili? L’impatto con la notorietà, le critiche, i lunghi tour?
“Per uno come me i momenti difficili sono quelli di mancanza di fiducia interna. Certo, il tour alla lunga diventa estenuante e ti succhia il sangue, ma questo lo immaginavamo già da prima, era una cosa messa in conto, difficile da quantificare ma preventivata. Quando a volte invece non funziona qualcosa all’interno è una spiacevole sorpresa per tutti. Quelli sono i momenti più difficili da superare per un collettivo. Per fortuna siamo capaci di psicanalizzarci abbastanza bene tra di noi, guardarci in faccia e andare avanti a volte superando le divergenze, a volte mettendole da parte”.
Come è stato scrivere “L’Italia peggiore” dopo il successo di “Turisti della democrazia”?
“C’è stata un po’ di ansia da prestazione e tante ore di lavoro e discussione. Non per tutto il disco però. Alcuni pezzi si sono scritti e composti praticamente da soli. Altri hanno visto una gestazione al limite della sopportazione umana di tutti, Matteo di Garrincha Dischi compreso”.
Potendo viaggiare nel tempo fino a 20 anni fa, quale esordiente italiano avreste voluto essere?
“Ligabue o Jovanotti, che adesso riempiono gli stadi. Riuscire a fare lo stesso percorso da indipendenti sarebbe un risultato incredibile e inedito… Ma sono tempi diversi e, sebbene possiamo definirci pop, difficilmente potremmo raggiungere quel livello di penetrazione e consenso. Da un certo punto di vista siamo forse anche un po’ troppo estremi per raggiungere un livello del genere”.
Un consiglio per una band giovane che inizia adesso a suonare?
“Consiglio di non pensare solo a suonare ma di dedicare molto tempo ad altro, scoprire cose, uscire di casa, parlare, godere, informarsi, ascoltare musica e parole”.
Dopo un anno di successo, vi siete rotti di…?
“Di rispondere a domande che contengono citazioni dei nostri pezzi”.