INVIVO FAIA: Un mondo che finge
Gli Invivo FAIA (l’acronimo sta per Falange Amata per l’Integrazione Armonica) sono nati a Bologna nel 2008. Infatti, non per nulla tra le loro influenze citano alcuni generi musicali (rock, pop, funk, jazz, latin, punk e reggae) ma anche i tortellini, i pasticciotti, gli arrosticini e le cozze. Il loro debutto, “Un mondo che finge”, è figlio di tutto questo, tra testi in italiano ed un calore tipico del reggae. “Bau bau baby (in Babylon)” ci piace immaginare che sia una specie di omaggio a Freak Antoni (anche se non lo è noi siamo contenti ugualmente), mentre alcune parole in dialetto (abruzzese e salentino) appaiono in “Occhio furbo”. Il dialetto è anche il trade d’union di “Tengu N’amicu” e l’album si chiude con una atmosfera lounge e una frase in inglese. Insomma gli Invivo Faia sono una Babele di idiomi, di suoni e di colori. Gli Invivo Faia potrebbero essere considerati i Pollock della musica. Giganti tele esposte nei musei (pardon discoteche) del mondo.
(Autoprodotto) CD
I partner, i locali: ROCK PLANET CLUB
Il Rock Planet Club di Pinarella è uno dei locali storici per il live in Italia. Ospita band di livello nazionale e internazionale e offre un ampio ventaglio di scelta musicale dal vivo, dal rock al metal, passando per l’indie fino all’afro, goa ed elettronica. Alterna al live le serate con musica con dj.
Disposto su tre grandi sale invernali e due giardini estivi, il Rock Planet si caratterizza per il gran numero di concerti live ospitati.
Le Parole dei Valutatori: Luca Fantacone
Fino a qualche tempo fa, in Sony Music, ti occupavi di digital marketing, ora di repertorio internazionale. Come mai hai scelto questo percorso professionale?
“Il digital marketing è stata una fase di sviluppo personale e professionale alla quale sono andato incontro perché le modalità di consumo della musica stavano cambiando così profondamente che non prepararsi ad essi avrebbe significato rinunciare a fare questo lavoro, o peggio chiudere gli occhi e non godere di una rivoluzione più unica che rara. Ed ha cambiato radicalmente il mio modo di lavorare: gli ho dedicato a tempo pieno 4 anni, dopo di che sono tornato ad occuparmi di ambito internazionale con una mentalità di lavoro nuova e con competenze che prima non avevo. A dire il vero, già quando lavoravo nella indie NuN sperimentavamo strumenti digitali che servivano a testare la produzione e la comunicazione di contenuti digitali a supporto del lancio dei CD tradizionali. Poi con l’avvento dei social tutto è cambiato nuovamente, ma ero già abbastanza pronto, e soprattutto curioso. La curiosità è la chiave di tutto secondo me”.
Una provocazione: al giorno d’oggi, per un musicista, vale di più concentrarsi sullo studio di uno strumento musicale oppure farsi un bel corso di Social Media Marketing?
“Buona questa! Beh, io mi concentrerei innanzitutto sullo strumento, ma senza ammazzarsi di tecnica fine a se stessa: la tecnica deve servire ad esprimere bene quello che hai dentro, conta più l’espressione che si è in grado di dare ad una nota che la velocità d’esecuzione. Poi studierei anche i Social, anche in modo artigianale, più che altro per capire come si muove il mondo contemporaneo della comunicazione, nel bene e nel male. Tanto è innegabile che molta parte delle nostre attività di tutti i giorni passino per l’uso dei social, indipendentemente da quello che si fa di professione o da che persone si è. Prenderne coscienza e impararne un po’ serve sia per sapere come usarli (e sfruttarli), sia per prenderne le distanze. Ma rapportarsi ad essi è quasi obbligatorio”.
Visto che hai citato NuN, ti chiedo: perché al giorno d’oggi il mondo “indie” e quello “major” sembrano due compartimenti stagni, che non comunicano tra di loro?
“In realtà secondo me non è mai cessato l’asse indie-major, l’unica differenza forse è che le dinamiche sono un po’ più “brusche”: essendo i cicli di vita e di lavoro molto più compressi che in passato, se prima major e indie dialogavano con più pazienza nello sviluppare anche insieme gli artisti, ora tutto è più rapido e improvviso, a volte un po’ più “cinico” da entrambe le parti. Ma poi, come sempre, sono le persone che fanno la differenza”.
Domanda da un milione di dollari: cosa significa oggi fare il discografico in una major?
“Per me il significato primario è “fare il discografico”, indipendentemente dal fatto di farlo in una indie o in una major. Certamente il contesto e le dinamiche lavorative sono molto differenti sotto alcuni aspetti, ma le “regole” di base del mestiere sono le stesse: cercare un talento e lavorare insieme agli artisti, ai media, al pubblico per riuscire a comunicare questo potenziale ed attuarlo più possibile. Di sicuro comunque lavorare in una major nel 2014 è molto differente rispetto al 1991, quando iniziai: meno persone, più lavoro, più pressione, meno risultati tradizionalmente apprezzabili. Ma anche molte più sfide, nuovi ruoli, nuovi obiettivi, nuovi modi per lavorare su progetti musicali, nuove cose da inventare o visioni da avere. I cambiamenti degli ultimi 15 anni circa non sono ovviamente una prerogativa delle major, ma in esse si sono manifestati con molta più urgenza, ed hanno necessariamente innescato profondi cambiamenti strutturali che in altri contesti più piccoli sono stati più rapidi ed accolti con minore resistenza. Ma questo è un aspetto legato ovviamente anche alla grandezza e alla lentezza di tutte le strutture complesse”.
Parlando di cambiamenti, che cosa è successo al mercato discografico in questi 15 anni?
“Questo è un tema troppo ampio per pretendere di risolverlo in una battuta. Potrei semplicemente dire che è cambiato il tessuto socio/culturale da cui la musica attinge e a cui si rivolge, è cambiato il modo di rapportarsi alla musica, è cambiato il modo di consumarla, ma non è diminuita la sua presenza nella vita della gente, anzi è aumentata. Il mercato è completamente diverso rispetto a 20 anni fa, e lo deve essere anche l’industria. Lo è la gente, lo è drasticamente la tecnologia. In futuro il consumo di musica sarà sempre più ampio e sempre più differenziato, a tratti imprevedibile. Quello che si richiede ad artisti e industria è di essere pronti, lungimiranti, spavaldi, rapidi, visionari”.
Quindi in questo scenario di musica “liquida” ha ancora senso pubblicare un disco? Oppure in futuro ci troveremo in un mondo di sole canzoni?
“Ha senso nella misura in cui lo si considera come solo uno dei centri di interesse della gente, e non come l’unico. Pretendere che tutti si concentrino ancora sul disco come elemento in cui l’interesse del pubblico si autoalimenta, non ha senso. Accettare che ci siano porzioni di pubblico attratte solo da una canzone, che magari si ascolta solamente e non si possiede è indispensabile”.
Per concludere, un consiglio ad un musicista che vuole arrivare a pubblicare una major?
“Scrivere tanto, quello che si sente di scrivere. E tenere sempre presente il contesto in cui si trova – l’Italia ha caratteristiche decisamente particolari e anche difficili per la musica – ma non troppo, altrimenti si rischia di perdere di vista il proprio obiettivo. Infine: non fare il discografico, non pensare a qual è il singolo, alla strategia, ma alla musica e a quello che si vuole dire. Per il resto poi c’è tempo”.
49 anni, laureato in Scienze Politiche, dopo un primo impiego come marketing assistant in Unilever, e un breve soggiorno a Londra, nel 1991 entra in Warner Music come product manager e poi come promotion manager. Dopo 4 anni passa in PolyGram, dove gestisce l’etichetta Black Out in qualità di direttore artistico. Segue una rapida esperienza in Sony Music e un’esperienza indie con la NuN Entertainment, al cui termine lavora due anni come free lance. Nel 2006 rientra in Sony Music, prima come digital marketing manager poi come direttore marketing del repertorio internazionale.
River – SONDAinONDA
River è il progetto solista di Francesco Federico Pedrielli, nato a Correggio il 12/11/1991. Francesco impara a suonare la chitarra sin da piccolo, avvicinandosi alla musica rock e metal e suonando in varie band come chitarrista. Con gli anni capisce che in quell ambito non riusciva ad esprimere se stesso e che la musica che suonava non gli dava soddisfazioni aspettate. Scopre John Mayer e di conseguenza tanti altri, come Neil Young, Nick Drake, Jeff Buckley, Paolo Nutini, Matt Corby e comincia a suonare la chitarra acustica e a cantare, abbandonando le band in cui suonava per fare una musica che fosse più personale. Il suo primo EP, pubblicato pochi giorni fa, contiene 5 canzoni scritte durante il 2014. Una di queste, “She Runs”, ce l’ha regalata in versione acustica per il nostro canale youtube.
PALCO NUMERO CINQUE: Carta straccia
I Palco Numero Cinque arrivano dalla provincia di Bologna ed avevano esordito (discograficamente parlando) con un ep ed una manciata di canzoni. “Carta straccia” è il primo album, un deciso passo in avanti rispetto al passato, dove per passato s’intende aver gettato le basi per un futuro luminoso. La band è stata scelta anche come protagonista di un film, “Paese mio” (se non sapete cosa sia, guardate in giro) e sembra seriamente intenzionata a lasciare il segno. “Carta straccia” è un disco da ascoltare. Sì, proprio da ascoltare per capire cosa succederà alla pallina di carta, o se l’infrarosso attraverserà la realtà senza mutarla. Testi in italiano su una struttura progressive (alla vecchia) che farà la gioia di chi conosce le gesta di Sithonia, Nuova Era, Arcansiel, Ezra Winston, per citare la rinascita italiana del genere di metà anni ottanta. In “Carta straccia” c’è una grande enfasi per il cantato, per le tastiere, per la chitarra (“Il cerchio quadra”), per la sezione ritmica. Un album bello compatto che aspetta solo di essere ascoltato con attenzione. Astenersi faciloni e impasticcati.
(Irma records) CD
PAOLO G.: Blues for me
In verità non c’è molto di che sorprendersi mettendo nel lettore questo “Blues For Me” di Paolo G., al secolo Paolo Giannelli. Tra il titolo e la copertina, oltre al retro, diciamo che acquistandolo a scatola chiusa si consoce già il contenuto: blues, tanto blues, di quello primitivo e tradizionale, chitarra, ritmo in quattro quarti, pentatoniche come se piovesse. Nulla di nuovo, ma fare blues e farlo bene, scrivendo anche dei pezzi interessanti, non è che sia poi così semplice. Quindi tanto di cappello a Paolo G., anche se a trovare un neo bisogna dire che mentre i brani in cui presta la voce Rita Lucca – la opener Life Train, Naturale Dimensione – spiccano all’interno della tracklist, quelli puramente strumentali a volte finiscono per scivolare nel compendio tecnico del bluesman, senza un filo conduttore interno che non sia la classica struttura in dodici misure. Speriamo che Paolo trovi la propria voce, o al limite quella di qualcun altro!
(Autoprodotto) CD
PECORANERA: 7 minuti avanti
Il punk rock è stato il male assoluto, o il bene assoluto. Dipende dai punti di vista. Noi propendiamo per il bene assoluto, così quando ci capitano tra le mani dischi come “7 minuti avanti” siamo felici come una Pasqua. I modenesi Pecoranera (Lero, Zillo, Ramon e Mattia, ex The Burps), fanno punk rock cantato in italiano, quel punk alla Green Day, No Fx, Offspring, che ama il sole californiano, la melodia e i testi pieni di invettive (“Oggi”). Qui si viaggia a mille all’ora lanciati come un fuso verso il pensiero comune che punk significhi solo brutte cose. Qui ci si diverte e si poga. Qui è come aprire una scatoletta di tonno e trovarci dentro un pasticcio di tofu. Qualcuno potrebbe obiettare che i Pecoranera sono in ritardo sui tempi di marcia ma noi che ci divertiamo da tempo immemore ascoltando dischi punk non ci preoccupiamo di questi tuttologi. Pecoranera per trascorrere momenti spensierati. Punk rock per avere un sorriso stampato in faccia.
(Autoprodotto) CD
PHONO EMERGENCY TOOL: Get the pet
Terzo album per il trio Phono Emergency Tool, il primo finalmente su etichetta dopo anni di autoproduzione: a firmare la band di Andrea Sgarzi, Sandro Sgarzi e Marco Lama è la Red Cat Records di Firenze, che da alle stampe questo “Get The Pet”, distribuito da Audioglobe. Il sound dirompente dei tre si mette in chiaro già dalla opener Floating So Fast, e proseguendo nella tracklist si presentano chiari i riferimenti all’alternative rock tra fine secolo e inizio millennio, divisi tra le strutture schizofreniche di Beck e un sound che richiama i Pavement di Stephen Malkmus, senza dimenticare una venatura pop che si rifà all’immaginario britannico nelle sue accezioni più classiche (Beatles) e moderne (Blur). Un’ottima prova per i bolognesi, che si spera li porterà lontano, anche oltre confine, dove sicuramente potranno avere più spazio rispetto a quello riservatogli sicuramente dalla scena indie italiana.
(Red Cat Records) CD
RAIN: Mexican way
Un episodio estemporaneo che mostra un lato finora sconosciuto della formazione bolognese, che un paio di anni fa ha festeggiato i trenta anni di attività. Estemporaneo perché “Mexican Way” è suonato quasi interamente in acustico, salvo qualche inserto elettrico decisamente più hard, e inedito perché la band nelle dodici tracce che compongono la tracklist oltre a un paio di inediti e altrettante cover – Tijuana Jail e Ride Like The Wind – reinterpreta in spagnolo (o meglio, messicano) alcuni episodi della propria carriera più recente. Il disco nel complesso è estremamente piacevole, e tra un calavera e uno shot di tequila i cinque danno sfogo alle proprie capacità tecniche senza prendersi troppo sul serio, risultando in un album di southern rock e hard blues in cui non manca l’ironia. Assolutamente da avere sia per chi ha sempre seguito i Rain, sia per chi ama il rock a stelle e strisce, quello targato anni ’80, e le chitarre alla Stevie Ray Vaughan.
(Aural Music) CD
NATAN RONDELLI: Someone will save you
Ha sicuramente un passato rock Natan Rondelli: si sente dalle strutture, dalla scrittura, dalle chitarre degli undici brani di questo “Someone Will Save You”, c’è qualcosa di oscuro che richiama alla fine degli anni ’90, ma anche a esperienze più recenti come Interpol, Editors, Radiohead. Tuttavia, la musica di Nathan non è prettamente rock, è pop, elettronica, cantautorale, sintetica, sognante, scura e piena di luce allo stesso tempo. Un mosaico di influenze e sonorità in cui la voce e la melodia – sempre calme e sottotono, alla Lou Reed per capirci – tengono il filo di un discorso in cui chitarre acustiche e violini si scontrano con sintetizzatori, vocoder, distorsioni, un gioco in cui sarebbe facile perdere l’equilibrio… a meno che non si sia Rondelli. Dato il livello complessivo di questo album, c’è da augurarsi che Nathan accolga presto la sfida più ardua e lasci l’inglese per l’italiano, perché qualcosa del genere nella lingua di Dante non si è mai sentito.
(Autoprodotto) CD / Digitale