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Le Parole dei Valutatori: Marco Bertoni
Che cosa significa fare il produttore artistico?
“Fare il produttore artistico per me significa affiancare l’artista nella fase di realizzazione del suo prodotto. Cioè passare dall’idea originale dell’artista a qualcosa di organizzato, definito e messo a fuoco per meglio comunicare/vendere le intenzioni dell’artista”.
Com’è cambiato il tuo mestiere in questi anni?
“A livello tecnico è cambiato ovviamente con l’utilizzo massiccio del computer. Quindi il passaggio dall’analogico al digitale. Per poi tornare al giorno d’oggi dove si usano insieme oramai ambedue le tecnologie. Nel mio studio cablato con pro tools ho un mixer del 1975. I microfoni sono del ‘72. A causa dei budget sempre più bassi, se una volta il produttore era affiancato da un fonico e da un assistente fonico, adesso molte produzioni le seguo interamente io anche come fonico, dalla sala prove al mastering finale. Con il dissolvimento della vecchia industria discografica, nella filiera della produzione musicale il ruolo del produttore artistico ha resistito. Cioè serve ancora un professionista che sappia fare realizzare all’artista il suo prodotto sia tecnicamente sia artisticamente. Se una volta erano le case discografiche a ingaggiarmi ora sono le collaborazioni con gli artisti che mi permettono di essere pagato per quello che faccio”.
Come trovi gli artisti con cui lavori?
“A dire il vero sono loro che trovano me. Però devo dire che sono molto felice che alcune delle ultime cose che ho realizzato le ho fatte insieme a artisti conosciuti grazie a “Sonda” (e anche noi ne siamo felici N.d.R.). Un giorno mentre registravo il cd di un artista di nome Megahertz, è entrato in studio un suo conoscente, uno strano ragazzo, curioso e volenteroso di conoscermi, sarebbe diventato Bob Rifo aka Bloody Beetroots. I Motel Connection mi telefonarono”.
Cosa ti deve colpire al primo ascolto?
“La volontà di esistere”.
Le nuove tecnologie (social network, MP3, ecc.) aiutano l’artista? Se sì, come credi che debbano essere utilizzate?
“In generale aiutano l’artista tanto quanto aiutano tutti noi. Sono degli strumenti che ci mettono in contatto con il mondo e questo da un punto di vista anche professionale è utile. Dal punto di vista artistico è uno strumento ancora poco utilizzato a livello creativo. Se però si pensa che grazie a internet possano uscire nuove star musicali siamo parecchio lontani”.
Come vedi il futuro della musica (in generale) e di quella registrata (nello specifico)?
“La musica in generale come suono e suono prodotto dall’uomo non ha bisogno di futuro, fa parte di noi e della nostra natura e sempre ci accompagnerà. Se si parla di musica commerciata, stiamo vivendo un momento abbastanza stagnante. Rimane il fatto che registrare musica è una cosa entusiasmante, quasi magica. Ma che la musica possa ancora veicolare energia fresca ho qualche dubbio”.
Che cosa deve spingere una persona a fare musica? Tu perché hai deciso di iniziare?
“Io ho iniziato perché da piccolo ho visto alcuni concerti che mi entusiasmarono e mi fecero sentire che succedeva qualcosa suonando. Come dicevo prima la musica è parte della nostra natura, e ci sta che qualcuno di noi trovi un suo modo creativo ed espressivo suonando”.
Ha senso pubblicare un supporto discografico (anche sottoforma di file) in questo periodo storico?
“Ha senso per i collezionisti di vinili (il vinile) e per i banchetti dei concerti (il cd). In generale è proprio la parola “pubblicare” che ha cambiato significato pratico, no?”.
Che cosa deve trasmettere una canzone?
“Quello che l’ascoltatore ritrova di sé, e da lì portarlo da qualche parte”.
Un tempo l’esigenza di fare musica sembrava legata a un bisogno interiore dell’artista, oggi sembra più legato all’aspetto “figo” del fare musica e all’eventuale successo.
“L’aspetto “figo” del fare musica è sottolineato anche dalle musiche di tanti gruppi, molto più attenti a sembrare qualcosa piuttosto che a cercare qualcosa. Il successo per come lo intendi tu a mio parere non esiste più, anche “l’essere famoso” ha cambiato abbastanza valore. Rispetto al “bisogno interiore”, ogni musica ha una funzione: se devo far ballare, faccio musica che è una danza e se la gente balla vuole dire che l’ho fatta bene, ma questo è creare qualcosa con uno scopo pratico, non per soddisfare una necessità interiore”.
Perché il mercato discografico si è così contratto negli anni? La colpa di chi è?
“Napster? 🙂 In generale il mercato è sempre tale, solo che non è più discografico. I soldi li fanno/hanno i produttori di hardware. L’ultimo disco degli U2 “distribuito” e “regalato” da Apple mi sembra un ottimo riassunto”.
Per scrivere una hit esiste una formula magica?
“Non credo. Secondo Casadei ha scritto “Romagna mia” che è la canzone italiana con più introiti SIAE nel mondo. L’aveva chiamata “Casetta mia” ed era una canzone come le altre, per lui”.
Nato a Bologna nel 1961, inizia a 16 anni a suonare fondando il Confusional Quartet, gruppo storico della “new wave italiana”. Dopo quell’esperienza inizia a lavorare a progetti di musica contemporanea (uno su tutti il lavoro di ricerca sulla voce umana, che coinvolge le voci di Carmelo Bene, Kathy Berberian e Demetrio Stratos) e di musica leggera (con Lucio Dalla, Gianni Morandi, Angela Baraldi, Bracco di Graci, Gianna Nannini). Produce poi Motel Connection, Maccaroni Circus, il primo lavoro di Bob Rifo, collabora con diversi top dj e cura remix per artisti come Morgan, Jovanotti, The Simple Minds, Raiz, Subsonica. Ha collaborato, infine, come arrangiatore per lo Zecchino d’Oro e ha scritto colonne sonore per il cinema, la tv e la radio. Oltre all’attività con il Confusional Quartet, continua oggi il lavoro di produttore musicale nel suo studio.
I Live di Sonda visti da voi: May Gray
MAY GRAY
Off 19/12/2014 – main guest Go!Zilla
Prima volta sul palco dell’OFF per i May Gray, formazione rock concittadina del locale live modenese, ritrovatisi ad aprire le danze per i fiorentini Go!Zilla in un neanche troppo freddo giovedì di dicembre. “L’OFF per noi è una sorta di seconda casa”, racconta il frontman Paolo Rossi, “L’abbiamo visto nascere, evolversi e affermarsi, e lo frequentiamo spesso durante il weekend. Per noi è stata comunque la prima volta, speriamo di una lunga serie”. Una serata che si è rivelata nel complesso positiva per il quartetto, a prescindere dall’affluenza di pubblico: “Si trattava di un giovedì sera e non si può pretendere lo stesso pubblico del weekend, ma i nostri amici e quelli che ci vogliono bene sono venuti, ci hanno sostenuto e per noi è già tanto”. Un risultato ottenuto, confessa Paolo, unendo le forze con i gestori del locale per promuovere il più possibile la serata, riuscitissima nonostante le due band non fossero propriamente in linea come sonorità, più pop e classic rock americane per i May Gray e più psichedeliche per il power duo Go!Zilla. “Sinceramente li avevamo soltanto sentiti nominare, ma sono stati una piacevolissima scoperta. Ora siamo in contatto con loro, li seguiamo sui social ed averli conosciuti è stato un modo per confrontarci, raccontarci le nostre esperienze e discutere su come gira il mondo della musica dal vivo, in Italia e non solo”. Una possibilità di confronto, offerta da Sonda, a cui altrimenti sarebbe difficile poter accedere, e a cui — parole del Rossi – “un gruppo emergente non può che prendere parte; è gratuita, ti dà visibilità, organizza incontri con gente esperta nel settore, permette alle band iscritte di esibirsi. Non so in quante altre regioni italiane esista qualcosa di simile”. Proprio da Sonda è nata anche la collaborazione tra i May Gray e il produttore Marco Bertoni, con la cui produzione artistica la band sta per pubblicare il suo primo disco.
I Live di Sonda visti da voi: Divanofobia
DIVANOFOBIA
Calamita, 29/03/2014 – main guest Maria Antonietta
I bolognesi Divanofobia sono stati catapultati sul palco del Calamita per aprire un concerto della cantautrice pesarese Maria Antonietta. “Conoscevamo di nome il Calamita ma non ci eravamo mai stati, come conoscevamo la musica di Maria Antonietta e considerando la peculiarità della nostra musica, il suo progetto artistico tutto sommato era in linea con il nostro stile, testi in italiano e ambiente cantautorale. Al nostro arrivo i gestori del Calamita ci hanno accolto e mostrato i camerini. Con Maria Antonietta e i suoi musicisti ci siamo confrontati sulle nostre realtà musicali sia durante il soundcheck e la cena sia dopo il concerto. Aprire a un artista più affermato è sempre una circostanza particolare. Le persone vengono soprattutto per l’artista headliner. Questo però non ci ha penalizzato: siamo stati molto applauditi e siamo rimasti soddisfatti. L’iniziativa creata da Sonda è sicuramente lodevole e utile per una band emergente. Il confronto con il pubblico e con gli altri artisti permette di fare alcune riflessioni importanti all’interno della band, per quel che riguarda l’arrivare al pubblico con le proprie canzoni e anche per riflettere sulla propria resa live. In sé l’iniziativa non crediamo sia propriamente migliorabile, è importante che essa sia inserita, come il Centro Musica già fa, all’interno di un progetto più ampio, che veda la band confrontarsi anche con gli aspetti produttivi artistici e di promozione. Un aneddoto memorabile legato alla serata non c’è. Però i momenti in cui abbiamo caricato gli strumenti nel montacarichi del locale e quello del brindisi nel backstage con gli altri musicisti rimangono sicuramente nella nostra memoria”.
Le Parole dei Valutatori: Daniele Rumori
Parliamo della tua esperienza al Covo Club. Cosa significa oggi, fare il direttore artistico?
“Di base significa provare ad interpretare i gusti del pubblico e cercare di essere sempre aggiornati su quello che succede nel mondo musicale. Credo sia necessario essere molto curiosi e vogliosi di scoprire musica nuova. Nel mio caso, essendo il Covo un locale storico, significa anche rispettare un’importante tradizione e provare a dettare la linea, cercare cioè di arrivare prima degli altri su quelle che saranno le nuove sensazioni del nostro micro mondo”.
Di solito come entri in contatto con gli artisti con cui poi scegli di collaborare?
“Il nostro rapporto è soprattutto con le agenzie. Abbiamo la fortuna di lavorare con tutte le principali, e di poter selezionare tra la parecchie proposte che ci vengono fatte. Spesso, inoltre, siamo noi a chiedere alle agenzie stesse di provare a lavorare con alcuni gruppi che ci piacciono e che crediamo possano funzionare. Infine a volte c’è anche il contatto diretto con le band, soprattutto quando non hanno agenzie di riferimento. Da questo punto di vista i social network sono stati utilissimi”.
Immagino che nel tuo lavoro entrerai spesso in contatto anche con realtà estere: che differenze noti tra il nostro Paese e l’estero?
“Naturalmente anche il nostro settore, quello della musica live, paga quelli che sono i difetti di questo Paese in generale: una burocrazia mostruosa, e regole poco chiare o di diversa interpretazione a seconda dei casi. Ma la nostra arretratezza è soprattutto culturale. I festival musicali, i locali che organizzano concerti o dove ci si diverte la sera, qui da noi sono ancora visti con sospetto, non si fa nulla per sostenerli, in diversi casi si cerca di eliminarli. Altrove si è capito da tempo che, al di là della sua importanza culturale, la musica è anche fonte di turismo ed indotto. Qui siamo ancora fermi al concetto di fenomeno giovanile o comunque culturale di serie B. Per nostra fortuna Bologna rimane un’isola felice, ma basta girare un po’ in Europa e vedere come funzionano le cose in città delle stesse dimensioni per capire che siamo comunque molto indietro”.
Perché il mercato discografico si è così contratto, e come vedi il futuro della musica?
“Bisogna considerare che il motore del mercato musicale è sempre stato rappresentato dai giovani. Chi oggi ha 20 anni da bambino già scaricava musica gratis, ed ora la ascolta dal computer o dall’iPhone, probabilmente in streaming. Quindi quello che una volta era il target principale di questo mercato ora è probabilmente l’acquirente meno probabile di supporti fonografici. E non credo che in futuro le cose cambieranno molto, nel senso che si continuerà a creare supporti principalmente per gli appassionati. Per il resto il modello Spotify mi sembra quello vincente, anche se sono molto curioso di vedere cosa farà in questo campo la Apple ora che ha comprato Beats”.
Molti artisti al giorno d’oggi decidono di regalare la propria musica gratuitamente, e puntare principalmente sul live: è un modello sostenibile, secondo te?
“Sicuramente la crisi del mercato discografico, di cui parlavamo prima, ha fatto aumentare di molto i cachet degli artisti, anche quelli più piccoli. Di conseguenza si è drasticamente ridotto il margine di chi organizza concerti, che in questo modo fa sempre più fatica a starci dentro e a poter rischiare puntando su gruppi emergenti. Il sistema è sempre meno sostenibile, e qualcosa dovrà cambiare per forza. Il rischio economico non può più rimanere solo del promoter, ma deve iniziare ad essere condiviso con gli artisti. In altri paesi è già così: negli Stati Uniti sono anni che, in locali della dimensione del Covo, i gruppi anziché un cachet prendono solo una percentuale dei soldi che il locale incassa. È brutto da dire ma la dura legge del mercato è che se vali e quindi porti gente, guadagni. Altrimenti no”.
Dunque c’è sempre meno spazio, nel circuito live italiano, per gli emergenti.
“Come dicevo, lo spazio si è ridotto ed è sempre più difficile proporre gruppi emergenti. Chi gestisce un locale alla fine deve far quadrare i conti, cosa impossibile se si fanno suonare artisti sconosciuti e che quindi non hanno ancora un seguito. Bisogna chiedersi però di chi sia la colpa di questa situazione. Mi sembra che il pubblico, soprattutto quello più giovane, non abbia più nessuna curiosità, o che almeno sia davvero poco incline ad andare a vedere cose che non conosce già attraverso altri canali. Ed è una cosa che vale anche per i concerti gratuiti, non solo per quelli a pagamento. Oltre a questo c’è anche un grosso problema di tipo culturale, un problema che riguarda gli stessi gruppi: quanti artisti emergenti vanno a vedere i loro colleghi suonare o frequentano i locali della propria città? Da quello che vedo io, pochi”.
Da promoter, quale consiglio ti sentiresti di dare ad un emergente che vuole organizzarsi un tour, o arrivare a suonare in un locale del livello del Covo?
“L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di non avere fretta. Con le nuove tecnologie si è persa la cara vecchia abitudine di conquistarsi le cose piano piano: mettere i soldi da parte per anni prima di riuscire ad entrare in uno studio di registrazione, risparmiare per settimane per riuscire a comprare un disco. Oggi con un click hai tutto e subito. Per meritarsi di suonare in locali importanti bisogna ancora fare molta gavetta, mangiare tanti bocconi amari e superare mille difficoltà. Bisogna farsi conoscere, iniziando a suonare in posti minuscoli e crearsi un pubblico che parli di te e ti aiuti a farti conoscere. Non è facile, lo so. Ma chi vale, alla fine, di solito ce la fa”.
Nato ad Ancona il 25 ottobre 1977, Daniele Rumori si occupa di musica indipendente da circa 15 anni. Vive a Bologna dal 1995, città dove ha fondato Homesleep Music (proclamata dalla stampa italiana migliore etichetta discografica indipendente del nostro Paese), di cui è stato direttore artistico fino al 2009 e per la quale hanno inciso gruppi come Giardini Di Mirò, Yuppie Flu, Julie’s Haircut, Fuck, Cut e Midwest. Da circa 10 anni è uno dei gestori, nonché responsabile della programmazione, del Covo Club di Bologna.
I Live di Sonda visti da voi: Ashman
ASHMAN
Bronson, 16/03/2014 – main guest Piers Faccini
Diagonal Loft Club, 09/04/2014 – main guest Quilt
“Non avevamo mai avuto l’occasione di suonare né al Bronson, né al Diagonal ma li conoscevamo per fama, essendo due bellissimi locali. Da parte nostra abbiamo apprezzato entrambi (Faccini, Quilt), sia professionalmente sia umanamente. Una nota particolare va sicuramente per Faccini, un’artista di enorme spessore. È stato un vero onore aprire il suo live. La sua musica e il suo pubblico sono stati una cornice perfetta anche per la nostra esibizione. Ottima platea, attenta e davvero recettiva, ottimo locale, con gestori precisi e accoglienti. Dei Quilt ricordiamo una bellissima cena prima del concerto in cui abbiamo esibito il nostro sgangherato inglese. Metti degli americani e degli italiani a tavola assieme e di sicuro ne verrà fuori qualcosa di divertente. Sono dei ragazzi molto amichevoli e davvero talentuosi. Da segnalare anche l’accoglienza dei gestori del Diagonal, decisamente “romagnola” e quindi ottima, ci siamo sentiti a casa. Questa iniziativa legata a Sonda è molto importante. Misurarsi con situazioni live professionali e artisti che fanno di questa passione un mestiere consente di toccare con mano l’impegno che suonare dal vivo richiede, in termini sia di passione sia di competenze tecniche. Non ultimo, pone di fronte alle aspettative di un pubblico pagante che desidera uno spettacolo all’altezza e consente di mettersi in gioco per dare il meglio e non disattenderle. Come migliorarlo? Forse dandogli maggiore continuità e aumentando il numero di date per ogni band ma ci rendiamo conto che non è semplice. In chiusura un aneddoto legato alla cena con Faccini. Abbiamo mangiato dei piatti a base di cozze, non esattamente l’ideale per arrivare leggeri sul palco! Dei Quilt ricordiamo una bellissima cena prima del concerto in cui abbiamo esibito il nostro sgangherato inglese. Metti degli americani e degli italiani a tavola assieme e di sicuro ne verrà fuori qualcosa di divertente”.
Le Parole dei Valutatori: Marcello Balestra
Iniziamo parlando della tua storia personale: come hai iniziato a lavorare nella discografia?
“Conobbi Lucio Dalla nell’80 alle Isole Tremiti e successivamente incominciai ad andare in studio di registrazione a Bologna per curiosare durante la registrazione di album di artisti dell’area bolognese: Dalla, Stadio, Carboni ed altri. Nel frattempo facevo parte di una piccola band nella quale suonavo, cantavo e scrivevo canzoni. Dall’87 iniziai a lavorare in tour come road manager e così via fino all’89, e concluso il tour Dalla-Morandi ho iniziato ad occuparmi della discografia di Dalla e della Pressing. Ho vissuto in prima persona le trasformazioni del settore musicale, avendo passato gli ultimi 14 anni a Milano, in Warner, con incarichi di direzione artistica e produttiva. Ho visto venir meno il ruolo primario e storico del supporto come tale e il ruolo della musica come potentato di chi la produceva, passato quasi gratuitamente e ingenuamente prima a radio e tv e poi alla rete, quindi ho sempre lavorato su progetti che potessero sopravvivere al decadimento del settore e del supporto, cercando di privilegiare la qualità e l’importanza di canzoni e artisti, il lancio di personaggi con canzoni e talento, anche producendo o pubblicando artisti apparentemente fuori dal mercato istituzionale”.
Quale ruolo hanno, o dovrebbero avere, secondo te le major discografiche nel panorama italiano e internazionale?
“Se una volta aiutavano gli artisti a crescere, ora sembra più una cassa di risonanza per chi ha già successo, o per prodotti che arrivano da altri contesti. Le major raccolgono sempre più il successo di fenomeni artistici più o meno già visibili, provenienti dai talent o da altre vetrine, ma non potrebbe fare diversamente: hanno lentamente abbandonato la ricerca e la produzione interna, cancellando di fatto il ruolo di direzione artistica, di persone in grado di riconoscere il talento prima che si esprimesse da solo attraverso altri canali. Rinunciando alle persone che in realtà ‘facevano’ l’azienda con il proprio istinto e carisma produttivo, hanno dovuto ripiegare sull’attività di acquisizione di progetti già in parte portati avanti da produzioni televisive. Il ruolo delle major dovrebbe invece essere quello di creare spazi, canali reali e propri di promozione della nuova musica locale e internazionale, o almeno dovrebbero coltivare alcuni ‘ceppi creativi’, come ce ne sono in Italia e all’Estero: ad esempio XL Recordings è uno di questi, che con artisti come Adele ha dimostrato quanto sia fondamentale per le major ancora oggi individuarne di simili, per avere almeno un rapporto con la creatività vincente da finanziare”.
C’è stato un momento in cui i Talent Show sembravano l’unico appiglio di salvezza per le major discografiche. E’ ancora così, o la situazione è ulteriormente cambiata?
“I talent sono il serbatoio e il palco dei personaggi di ricambio. La discografia inizialmente li ha supportati, approfittando del possibile vantaggio economico dato dalla vendita immediata di prodotti di questi nuovi artisti. Poi è divenuta vittima dei contenitori e dei talent stessi. Tutti questi nomi nuovi infatti hanno creato un pubblico che li segue, partecipa attivamente sui social e li vota, ma che, salvo eccezioni, non compra e lascia che l’artista rimanga sospeso, senza un ruolo che non sia quello di partecipante ad un talent. Questo perché i talent sono solo apparentemente musicali, ma nascono e vivono per essere programmi televisivi: portano avanti il consenso di fan che rimangono legati al programma e ai giudici, ma non agli artisti, non c’è interesse per i giovani appena messi in evidenza, non c’è una struttura che li segua in futuro. Ecco perché chi esce da un talent è costretto a mostrare ancora più talento dei giovani che escono da altri canali, altrimenti è destinato a sparire. Con il risultato che la musica è sempre più appannaggio di chi esiste da prima, o di chi fa capire con talento al pubblico quanto sia vitale il proprio bisogno di comunicare attraverso la musica”.
Quindi, si può sperare almeno nel web come canale per far emergere nuovi artisti?
“A mio parere la Rete ha sempre fatto finta di creare dei fenomeni di successo, ha piuttosto dato spazio per esprimersi ad alcuni personaggi dalla personalità non comune. La musica comunque non può nascere da Internet, o almeno non ancora, perché la Rete con la sua democraticità non ha la capacità e il potere di creare coesione, ma al contrario genera assoluta ed enorme distrazione. Il ruolo di comunicatore di successi è ancora delle radio ufficiali e più seguite sul territorio: la rete crea milioni di web-radio, di playlist, ma non un sistema autoritario o autorevole per far si che nascano successi da essa, perché questa libertà di scelta crea più che altro frammentazione e non uniformità di attenzione su una nuova proposta, salvo che già se ne parli altrove”.
Quale consiglio ti sentiresti quindi di dare ad un musicista emergente che vuole arrivare a pubblicare un album, con un’etichetta indipendente o con una major discografica?
“La major o l’indipendente non deve essere l’obiettivo fondamentale di chi scrive musica, ma di chi ha qualcosa da dire. Servono album di canzoni che racchiudano una ragione anomala, comprensibile e gustosa, perché possano essere lavorate anche da una major. Per essere anomali, gustosi e comprensibili serve un repertorio di che abbia tale stoffa e un comunicatore coerente, altrimenti difficilmente una major o il mercato si dimostreranno interessati”.
Autore e compositore, laureato in legge con una tesi sul Diritto d’autore. L’inizio della sua carriera nell’industria musicale è legato a Lucio Dalla: Balestra è stato tour manager del cantautore bolognese nel periodo ‘86-’88 poi nel tour mondiale Dalla-Morandi ‘88-’89. Nello stesso anno diventa responsabile editoriale, artistico e legale dell’etichetta Pressing, sempre con Dalla, e delle Edizioni Assist. Fino al 2000 è docente universitario in Diritto d’autore e Discografia ESE, poi inizia a collaborare con la casa discografica CGD. Dal 2004 al 2013 è in Warner Music Italia.
Le Parole dei Valutatori: Luca Fantacone
Fino a qualche tempo fa, in Sony Music, ti occupavi di digital marketing, ora di repertorio internazionale. Come mai hai scelto questo percorso professionale?
“Il digital marketing è stata una fase di sviluppo personale e professionale alla quale sono andato incontro perché le modalità di consumo della musica stavano cambiando così profondamente che non prepararsi ad essi avrebbe significato rinunciare a fare questo lavoro, o peggio chiudere gli occhi e non godere di una rivoluzione più unica che rara. Ed ha cambiato radicalmente il mio modo di lavorare: gli ho dedicato a tempo pieno 4 anni, dopo di che sono tornato ad occuparmi di ambito internazionale con una mentalità di lavoro nuova e con competenze che prima non avevo. A dire il vero, già quando lavoravo nella indie NuN sperimentavamo strumenti digitali che servivano a testare la produzione e la comunicazione di contenuti digitali a supporto del lancio dei CD tradizionali. Poi con l’avvento dei social tutto è cambiato nuovamente, ma ero già abbastanza pronto, e soprattutto curioso. La curiosità è la chiave di tutto secondo me”.
Una provocazione: al giorno d’oggi, per un musicista, vale di più concentrarsi sullo studio di uno strumento musicale oppure farsi un bel corso di Social Media Marketing?
“Buona questa! Beh, io mi concentrerei innanzitutto sullo strumento, ma senza ammazzarsi di tecnica fine a se stessa: la tecnica deve servire ad esprimere bene quello che hai dentro, conta più l’espressione che si è in grado di dare ad una nota che la velocità d’esecuzione. Poi studierei anche i Social, anche in modo artigianale, più che altro per capire come si muove il mondo contemporaneo della comunicazione, nel bene e nel male. Tanto è innegabile che molta parte delle nostre attività di tutti i giorni passino per l’uso dei social, indipendentemente da quello che si fa di professione o da che persone si è. Prenderne coscienza e impararne un po’ serve sia per sapere come usarli (e sfruttarli), sia per prenderne le distanze. Ma rapportarsi ad essi è quasi obbligatorio”.
Visto che hai citato NuN, ti chiedo: perché al giorno d’oggi il mondo “indie” e quello “major” sembrano due compartimenti stagni, che non comunicano tra di loro?
“In realtà secondo me non è mai cessato l’asse indie-major, l’unica differenza forse è che le dinamiche sono un po’ più “brusche”: essendo i cicli di vita e di lavoro molto più compressi che in passato, se prima major e indie dialogavano con più pazienza nello sviluppare anche insieme gli artisti, ora tutto è più rapido e improvviso, a volte un po’ più “cinico” da entrambe le parti. Ma poi, come sempre, sono le persone che fanno la differenza”.
Domanda da un milione di dollari: cosa significa oggi fare il discografico in una major?
“Per me il significato primario è “fare il discografico”, indipendentemente dal fatto di farlo in una indie o in una major. Certamente il contesto e le dinamiche lavorative sono molto differenti sotto alcuni aspetti, ma le “regole” di base del mestiere sono le stesse: cercare un talento e lavorare insieme agli artisti, ai media, al pubblico per riuscire a comunicare questo potenziale ed attuarlo più possibile. Di sicuro comunque lavorare in una major nel 2014 è molto differente rispetto al 1991, quando iniziai: meno persone, più lavoro, più pressione, meno risultati tradizionalmente apprezzabili. Ma anche molte più sfide, nuovi ruoli, nuovi obiettivi, nuovi modi per lavorare su progetti musicali, nuove cose da inventare o visioni da avere. I cambiamenti degli ultimi 15 anni circa non sono ovviamente una prerogativa delle major, ma in esse si sono manifestati con molta più urgenza, ed hanno necessariamente innescato profondi cambiamenti strutturali che in altri contesti più piccoli sono stati più rapidi ed accolti con minore resistenza. Ma questo è un aspetto legato ovviamente anche alla grandezza e alla lentezza di tutte le strutture complesse”.
Parlando di cambiamenti, che cosa è successo al mercato discografico in questi 15 anni?
“Questo è un tema troppo ampio per pretendere di risolverlo in una battuta. Potrei semplicemente dire che è cambiato il tessuto socio/culturale da cui la musica attinge e a cui si rivolge, è cambiato il modo di rapportarsi alla musica, è cambiato il modo di consumarla, ma non è diminuita la sua presenza nella vita della gente, anzi è aumentata. Il mercato è completamente diverso rispetto a 20 anni fa, e lo deve essere anche l’industria. Lo è la gente, lo è drasticamente la tecnologia. In futuro il consumo di musica sarà sempre più ampio e sempre più differenziato, a tratti imprevedibile. Quello che si richiede ad artisti e industria è di essere pronti, lungimiranti, spavaldi, rapidi, visionari”.
Quindi in questo scenario di musica “liquida” ha ancora senso pubblicare un disco? Oppure in futuro ci troveremo in un mondo di sole canzoni?
“Ha senso nella misura in cui lo si considera come solo uno dei centri di interesse della gente, e non come l’unico. Pretendere che tutti si concentrino ancora sul disco come elemento in cui l’interesse del pubblico si autoalimenta, non ha senso. Accettare che ci siano porzioni di pubblico attratte solo da una canzone, che magari si ascolta solamente e non si possiede è indispensabile”.
Per concludere, un consiglio ad un musicista che vuole arrivare a pubblicare una major?
“Scrivere tanto, quello che si sente di scrivere. E tenere sempre presente il contesto in cui si trova – l’Italia ha caratteristiche decisamente particolari e anche difficili per la musica – ma non troppo, altrimenti si rischia di perdere di vista il proprio obiettivo. Infine: non fare il discografico, non pensare a qual è il singolo, alla strategia, ma alla musica e a quello che si vuole dire. Per il resto poi c’è tempo”.
49 anni, laureato in Scienze Politiche, dopo un primo impiego come marketing assistant in Unilever, e un breve soggiorno a Londra, nel 1991 entra in Warner Music come product manager e poi come promotion manager. Dopo 4 anni passa in PolyGram, dove gestisce l’etichetta Black Out in qualità di direttore artistico. Segue una rapida esperienza in Sony Music e un’esperienza indie con la NuN Entertainment, al cui termine lavora due anni come free lance. Nel 2006 rientra in Sony Music, prima come digital marketing manager poi come direttore marketing del repertorio internazionale.