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Musica, curiosità, cambiamento – Luca Fantacone

456041Nel corso di questi miei 25 anni di lavoro nella musica (beh sì, 25 anni…tanti, intensi, rapidissimi a dire il vero…) mi è stato chiesto innumerevoli volte “come hai fatto ad entrare nell’ambiente?”, “che cosa ci vuole per fare il tuo mestiere?”, “ma conoscevi qualcuno prima di iniziare vero…?” etc. etc… Domande prevedibili quanto gradite perché fatte da tante persone che avevano o hanno la voglia e l’entusiasmo di fare della musica la propria occupazione quotidiana, e alle quali è doveroso rispondere così come è doveroso secondo me cercare di dare un feedback a chiunque ti mandi un cd, un file, un demo per sapere cosa ne pensi. Non sempre ci si riesce e con il dovuto tempismo, ma l’importante è considerarlo come un impegno personale e professionale. Ma torniamo alle domande di cui sopra: in fondo in fondo hanno (diciamocelo) anche un retrogusto un po’ surreale, perché in realtà, a mio parere sono altre le cose che fondamentalmente servono per lavorare (e bene) nella musica. Sono fondamentalmente 3 i requisiti che non solo permettono di fare questo lavoro bene e con soddisfazione, ma che al tempo stesso sono delle spie in base alle quali capire anche il potenziale che una persona può sviluppare in questo settore.

1) NON POTER FARE A MENO DELLA MUSICA
Potrà suonare banale o naif quanto volete ma da qui si parte: viverla, ascoltarla, sentirla, capirla, difenderla, considerarla come qualcosa che viene prima di tutto il resto, servirla, darle sempre valore. E questo prescinde dai gusti, dalla nicchia o dal grande pubblico, dal presunto livello alto o basso. In ogni canzone, artista, genere c’è un valore intrinseco, qualcosa da trasferire ad un pubblico che lo faccia proprio, per breve o lungo tempo. E già che ci siamo: ricordatevi che la musica è tutta commerciale: non esiste musica che un artista non voglia vendere (sotto forma di cd, file, streaming, video, biglietti) ad un pubblico, piccolo o grande che sia. La musica deve trovare sempre un destinatario. E cercare di allargare il pubblico di un artista è cosa buona e giusta, dipende da come lo si fa. L’importante è stare sempre dalla parte della musica.

2) ESSERE CURIOSI
Indispensabile. Cercare sempre di scoprire, capire, intuire cosa può sentire un artista, cosa vede, e di cosa può avere bisogno, o cosa a cui può aspirare il pubblico. Essere curiosi anche nei propri confronti: capire sempre come migliorarsi, come far accadere le cose, provarci sempre. La curiosità è non solo il motore della sana ambizione e dell’autorealizzazione, ma è anche una chiave di comprensione di ciò che non si conosce. E nella musica, con la musica, tutto è possibile, anche ciò che non sembra reale o che – appunto – non si conosce. Mai rimanere ancorati alle proprie sicurezze o conoscenze. Nel 1991, quando ho cominciato a lavorare in Warner, dopo qualche giorno mi fu data una pila di nastri di album hip hop in imminente pubblicazione, da ascoltare per decidere cosa pubblicare in Italia. Cosa c’entravo io con l’hip hop a quel tempo ? Niente, non sapevo nemmeno da che parte prenderlo, e tendenzialmente non me ne fregava nulla. Superati primi minuti di esitazione, mi ci sono buttato a capofitto, per imparare. E dopo anni, non avevo capito TUTTO dell’hip hop, ma lo conoscevo abbastanza da cominciare a lavorare con Neffa e i membri di Sangue Misto…

3) ESSERE SEMPRE PRONTI A CAMBIARE
La logica conseguenza della curiosità, nonché una necessità assoluta dei nostri tempi. Essere non solo pronti ma proprio disposti mentalmente al cambiamento, a cambiare le regole o ad adattarsi a regole e scenari sempre diversi e in continuo mutamento, è un imperativo ormai. La musica trova sempre il suo pubblico, dicevamo, e il nostro lavoro è proprio quello di aiutarla in questo. Il consumo della musica è cambiato, cambia e cambierà ancora, e ci costringe amabilmente a sviluppare capacità ed attitudini sempre diverse. I tempi del “manda in radio un pezzo, vai in tv, compra una campagna pubblicitari e vendi i dischi” sono finiti, e meno male. Ora si può creare, inventare, scoprire, basta che alla base ci sia una sana voglia di abbracciare contesti sempre differenti.

Non è una predica, non è un prontuario, non è un manuale. Solo 3 spunti che si sintetizzano in questo consiglio:
Set up a situation that presents you with something slightly beyond your reach.
(Brian Eno)

Nessuno di questi requisiti è indispensabile, tutti sono necessari.

Frammentarie memorie di un perduto produttore consumatore – Giampiero Bigazzi

INGSEYFS0349Mi capita spesso di pensare a come ho vissuto, da quando ero un ragazzino appassionato di canzoni, le trasformazioni del modo di ascoltare musica. Poi, da professionista, i cambiamenti nei sistemi di registrazione e di riproduzione del suono, e quindi i differenti supporti per la diffusione. Infine i luoghi dove poter acquistare la musica registrata. È una lunga storia, che si è svolta in poco più di mezzo secolo, e quindi memoria e novità s’intrecciano continuamente. Una storia di cui non ho perso un passaggio…

Quando ho cominciato a comprare dischi erano ancora “mono” e in seguito “mono compatibili” (cioè monofonici, ma suonabili anche nei primi rudimentali impianti stereofonici). Quando poi è arrivato lo “stereo” vero e proprio è stato un magnifico sballo: si ascoltavano i dischi dei The Beatles o di Hendrix con l’audio diviso con l’accetta, la chitarra e la batteria da un lato e le voci dall’altra. Era una specie di mono modificato, soluzioni un po’ maldestre ma utili. Infatti si imparava a suonare chiudendo un canale: quelli del disco suonavano e ci si poteva cantare sopra, oppure loro cantavano e noi si poteva accompagnarli con la chitarra o con la batteria. Ho cominciato a registrare anch’io così: utilizzando lo stereo come due tracce diverse.

L’avvento del 4 piste fu una rivoluzione totale: si poteva veramente “separare”! I diversi sistemi di registrazione (dal nastro analogico nei suoi vari formati, al DAT, alle cassette per l’ADAT, al computer…) sono andati di pari passo con le differenti modalità e supporti di ascolto. Il dibattito infinito sulle magnifiche capacità del vinile rispetto al digitale non arriverà a mettere d’accordo tutti, ma domina la sensazione che il microsolco in vinilite sia “più caldo”, più vero, più vicino al suono dal vivo. Quando, negli anni Ottanta, è apparso il compact disc, mi ci sono affezionato subito: meno ingombrante, più comodo da conservare, può contenere più musica, più a portata di mano anche il booklet con le informazioni (e in generale più simile a un libro… oggetto che amo particolarmente). Non mi sono soffermato molto sulla resa nell’ascolto. La compressione digitale dello spettro sonoro si sentiva nettamente, ma la facilità di utilizzazione del nuovo supporto – per quanto mi riguarda – vinceva (con buona pace delle centinaia di LP e 7” che collezionavo).

Circa un quarto di secolo fa, il gruppo che inventò l’MPEG-1 ha “risolto il problema”, diciamo così: veniva creato un formato digitale che avrebbe cambiato per sempre la diffusione, l’ascolto e anche l’archiviazione della musica registrata, quello che verso la fine degli anni Novanta si è conosciuto come mp3. Una bella trovata che ha decretato la moltiplicazione del multiplo a livelli globali e ha superato perfino il concetto di “pirateria”: nel senso che con la musica registrata ridotta a dei semplici “file”, quindi straordinariamente “trasportabile”, si è minato l’idea stessa di proprietà e quindi di diritto di autore. L’affermazione dell’mp3 (nato e considerato già vecchio rispetto all’mp4 della Apple) è andata di pari passo con la trasportabilità degli impianti di ascolto, dal walkman per le cassette fino all’iPod, la musica si ascolta in cuffia. Alla fine è ovunque e ce la possiamo portare dietro, in centinaia di possibilità multimediali e situazioni differenti (i social, il cinema, i video giochi, la televisione…). Un fiume sonoro, intrecciato, diluito, che crea perfino inconsce esperienze sonore. Tutto ciò ha ridotto al minimo lo spazio di ascolto consapevole. Oggi, questa “rivoluzione” (o “contro-rivoluzione”?) ha portato a un ascolto prevalentemente sommario. I cultori rimangono, ma sono sempre meno. Internet ha moltiplicato le occasioni, ma ha ridotto le capacità di concentrazione. E di conservazione: nei sistemi come Spotify non viene neppure archiviata nel proprio computer. Per dire: credo che non esista una Biblioteca del Congresso che raccolga gli mp3 come raccoglieva i primi dischi… Lo stesso concetto di hi-fi non esiste quasi più nel vasto pubblico. Da questo punto di vista è interessante cercare di capire gli effetti che le tecnologie hanno sulle relazioni umane. Si privilegia quasi più la “macchina” rispetto al contenuto: oggi le file fuori dai negozi si fanno per l’ultimo modello di qualcosa e purtroppo assomigliano alle file che si facevano per l’ultimo disco di qualcuno. Quindi la memoria va anche ai luoghi dove si accedeva alla musica. Dove la si poteva comprare: oggi (nonostante la fievole ripresa del mercato del vinile) son talmente cambiati fino quasi a scomparire. Più che comprare o vendere dischi, all’epoca si capitava nei negozi per conoscere musica e per parlarne. Sul bancone c’era sempre un giradischi disponibile e negli scaffali i migliori dischi d’importazione. Ci si avventurava in complicate teorie e analisi, vere e proprie recensioni fra musicisti, aspiranti discografici, studenti, affabili ragazze, creativi perditempo.

Il cammino tecnologico del suono riprodotto è intimamente connesso alla messa sul mercato e alla vendita del medium fonografico, il microsolco nei vari storici formati – 78, 45, 16, 33 giri tra lavagna e vinilite – e poi il compact disc: comunque un oggetto partecipativo, aggregante, condiviso fra musicisti e ascoltatori, grazie anche al luogo che presenta, vende, scambia, ma pure richiama, seduce, accoglie, informa, assiste. Una specie di zona franca di acquisto, di conoscenza e d’intrattenimento. Il negozio di dischi che è ormai un’oasi rara e oggi dalle caratteristiche “sociali” spesso diverse. (Meno male che, rispetto ai decenni precedenti, c’è una grande presenza di musica dal vivo, che resta impossibile da clonare: un concerto lo puoi videoregistrare, ma le emozioni che ti dà nel momento in cui si svolge sono impossibili da riprodurre artificialmente).

Un’età di mezzo – Carlo Bertotti

1525R-89014Vivo un’età di mezzo. E non è solamente una questione anagrafica ma qualcosa che ha più a che fare con il senso di provvisorietà, con il non ritrovarsi più con i tuoi luoghi, le tue sicurezze.
È una cosa che è successa a poco a poco. E se all’inizio la identifichi con un momento di crisi, poi la riconosci dal fatto che come te la vedono in tanti. E in tanti non riescono a trovare più le coordinate di sempre.
Di musica ho vissuto per anni, una passione irrazionale che poi è diventata anche lavoro. Un periodo in cui ho capito che qualsiasi cosa avessi fatto di differente nella vita non sarebbe stato lo stesso.
Poi quella stessa vita ti cambia le carte in tavola e arriva il giorno in cui capisci che devi comunque fare una scelta che ti porta altrove. Spesso è una questione economica, altre volte la fine di un sodalizio. Ma sempre più spesso ad un certo punto ti accorgi che vivere di musica nel terzo millennio è diventata cosa difficile, per certi versi impossibile.
Amici, musicisti, fonici, produttori. Una e più generazioni di addetti ai lavori falciata dagli eventi degli ultimi anni, arata da globalizzazione, internet e rivoluzione digitale.
La musica più di altro ha pagato. E pochi là fuori realmente hanno afferrato questo evento nella sua gravità. Perché quando si perdono per strada le idee, la progettualità, l’istinto e la grazia, una parte di noi si congela e non vive più.
La gente ormai pensa che la musica sia qualcosa di dovuto, un arredo, un contorno. Perché pagare per vedere un film? Per leggere un libro? Per ascoltare musica? In Rete c’è tutto e non costa nulla. Io ricordo librerie e negozi di dischi pieni di gente che sfogliavano avidamente copertine e booklet. Album che riunivano gente diversa tra loro o che diventavano bandiere di un movimento. Una cosa probabilmente incomprensibile per tanti, troppi millennials.
Perché oggi i ventenni aspettano spazientiti il loro turno, che per altro ai trentenni è regolarmente già stato negato e ai quarantenni è già sfuggito di mano.
Si vive di apparenza (che non è quella degli anni 80, si badi), la socializzazione pialla ogni forma di contrasto e originalità mentre una comunicazione smisuratamente veloce ci toglie capacità di reazione intima, autonoma, viscerale.
Pretendiamo qualcosa che non sappiamo neanche che forma abbia e non ci accontentiamo più del poco perché troppo poco pensiamo di aver fino a qui ricevuto.
Siamo prede di noi stessi, perché anch’io in questo momento scrivo su un Mac mentre controllo la posta elettronica o l’ultima asta su Ebay.
Un’età di mezzo. Perché quella musica che ben ricordo mi manca tanto. E non parlo dei concerti vissuti su un palco o delle sessioni di registrazioni in sala quando suonare era una professione . Ma di quelle note che ascoltavo nei solchi dei vinili che faticosamente ma regolarmente riuscivo a comprare ogni settimana da New Kary o da Buscemi qui a Milano.
Probabilmente bisognava farci una rivoluzione per questa cosa.
Si è scesi in piazza per nazioni lontane o per come facciamo l’amore, si è protestato per torti subiti da dissidenti e si sono fatte barricate per negare l’altrui esistenza.
Ma mai nessuno ha reagito con tutta la rabbia che sarebbe stata necessaria per rivendicare quella parte così importante che ci è stata portata via pezzo a pezzo.
Un giorno, durante un incontro con i ragazzi del Centro Musica a Modena ho detto loro che mi sembravano dei guerriglieri, soldati giapponesi che si nascondono nella giungla perché la loro guerra non è ancora finita. Ecco, se ce ne fosse qualche centinaio in più di questi Jedi della Stratocaster o del Minimoog allora certi orizzonti sembrerebbero meno opachi. O quantomeno ascolterei musica migliore alla radio.

Io voglio vivere di musica – Marcello Balestra

INGDMYFS0359Da oltre 30 anni incontrando, ascoltando, scoutizzando, producendo, gestendo chi fa musica, mi sono sentito dire migliaia di volte che lo scopo della vita del cantante, del musicista, dell’autore o del cantautore di turno era principalmente ed assolutamente quello di voler vivere di musica, ossia di voler rispondere, a chi sapeva che quella persona si dilettasse in musica e alla quale poneva la solita domanda: “Sì tu suoni ma di lavoro cosa fai?” , di dire con disinvoltura: “Io di lavoro faccio musica!”. Come si fa a non dare ragione alla passione, al bisogno inarrestabile ed incontenibile di chi ama la musica e vuole farne un lavoro a vita? Tutto giusto, viviamo di musica, ma come si fa e da dove s’inizia? Generalmente i più facilitati a vivere di musica attiva, ossia suonarla o cantarla o scriverla, sono di due categorie: 1) quelli che la scrivono o la eseguono come nessun altro, 2) quelli che prima di essere cantanti, sono comunicatori o personaggi. Grazie per l’ovvietà direte voi e io rispondo prego, prego per voi! Sì prego perché le categorie suddette sono privilegiate, in quanto trattasi di persone che hanno il DNA intriso con la musica e con la comunicazione, ossia sono diventati esseri speciali. Quindi vivere di musica per chi ha studiato lo strumento ed ha trovato in quello strumento il suo microfono, il prolungamento dell’anima, un’estensione della propria natura umana ed artistica, attraverso cui esprimere energia, passione, estro, cuore, credo e umanità, non è conseguenza della bravura o della capacità tecnica, ma di un flusso di energia che raggiunge pubblico, tecnici e addetti ai lavori, per cui diventa lavoro solo di conseguenza. Vero è che la fortuna e la capacità di mettersi in contatto con il mondo fa la differenza, ma di questi tempi chi ha qualcosa di diverso su una base tecnica di qualità, viene notato sempre e comunque, anche se nascosto dietro la telecamera del tablet. Venendo al secondo gruppo di eletti a poter tranquillamente vivere di musica, ossia a comunicatori e personaggi, è utile far notare o ricordare che molti artisti mondiali hanno come caratteristica principale e primaria quella di essere un mix tra comunicatore visivo e sonoro e personaggio, ai quali si è aggiunta la vena espressiva del cantante o la si è utilizzata come forma di comunicazione di tali personalità. Ma siamo sicuri che tutti questi privilegi appartengano solo a pochi eletti? A parte il fatto che ci sono paesi e culture che sostengono la musica a vita per chi la abbraccia, sia a livello di studio che come performer, nella normalità dei casi eletto è chi fa un percorso non solo di apprendimento e di miglioramento del proprio strumento personale (voce) o aggiunto, ma chi trasferisce la propria essenza naturale e ben definita in ciò che esprime come voce, strumento e scrittura. La conferma di questo assunto è nella riprova che chi vive di musica a vita, è chi è capace di lasciare un segno personale intenso ed inconfondibile in ogni cosa che realizza, esegue o esprime, aggiungendo al brano o all’esecuzione quel bisogno di stupire se stesso e chi ascolta, senza per forza dover strafare, comunicando semplicemente quello che ha accettato di essere come persona e quindi come artista o musicista. Non si tratta certo di accettare un ruolo, ma bensì di accettare definitivamente la propria persona per quella che è, alla quale consentire poi di esprimere con tecnica e personalità, quello che la persona libera può esprimere artisticamente. Sembra complicato, forse logico, forse banale, forse per privilegiati, ma in realtà è cosa per tanti, tantissimi, ossia per tutti coloro che anziché chiedere di essere ascoltati per ciò che fanno artisticamente, prima cerchino di farsi ascoltare come persone e poi come artisti. Nella mia lunga esperienza mi è capitato di vedere, come sarà capitato anche a voi, persone fortunate che hanno avuto successo occasionalmente o fortuitamente o inspiegabilmente, che poi si sono dovute accontentare di replicare la stessa cosa mille volte per poterci vivere, mentre ne ho viste altre che dopo aver messo a fuoco il proprio punto di forza personale ed artistico, hanno avuto la possibilità di instaurare un dialogo in perpetuo con un pubblico, che anche in base alla fortuna del repertorio, diventava più ampio, ma sempre fedele alla persona che si celava dietro l’artista! Ecco quindi la soluzione all’esigenza di vivere di musica, quella di trovare o ritrovare veramente il proprio canale unico espressivo, per poi cercare un pubblico da coinvolgere con le proprie storie, le proprie performance sia canore che strumentali. Chi non fa questo percorso personale (che sia autore, musicista o cantante) al di là delle qualità tecniche, esecutive o estetiche, difficilmente potrà trovare il modo di vivere di musica attiva, ossia da protagonista, salvo accontentarsi del ruolo dignitosissimo e molto spesso più sereno e regolare, di insegnante, tecnico, organizzatore, fonico, co-autore, animatore, intrattenitore-pianobarista, regista musicale, corista, turnista ecc. ossia un meraviglioso ruolo di contorno e di supporto al mondo della musica, che accoglie tutti coloro che accettano di ricoprire sinceramente e seriamente detti ruoli, ma mai come ripiego a qualcosa che avrebbero preferito fare o essere. Vivere di musica vuol dire amarla, rispettarla e condividerla, senza morire di invidia o da incompresi!

Buona musica a tutti, con affetto.

Hanno detto/hanno fatto/hanno smesso – Marco Bertoni

70-style-record-playerInteressante? Può essere interessante… E quello che segue è uno scritto volutamente confuso.

In fondo il finale sarebbe: noi vecchi che abbiamo suonato in un certo periodo, sentiamo con stupore che adesso non si suona più per slegare, ma per altro… E questo è sentito come un vuoto… Come qualcosa di più povero e minore.

La provincialità… Ahhhh la provincialità.

L’importanza delle radici e della consapevolezza delle radici, ahhhhh le radici.

Dal mio piccolo osservatorio di produttore “specializzato” nello svezzamento di giovani (nel tempo ho tirato l’elastico di Motel Connection, Angela Baraldi, Fiamma Fumana, Megahertz, Bracco di Graci, Bob Rifo, Simons, per poi tirare la fionda e vedere dove arrivava il sasso), è sempre molto interessante notare come le cose cambiano, avere delle percezioni, osservare.

Ad esempio una delle cose che non sono cambiate è: il gas che viene a chi “ce la fa”, a chi “ha successo”.
Telefonare a Lorenzo Bedini di Antenna Music Factory (ragazzo nato a Fronte del Palco, umile in Mescal per poter iniziare a lavorare una 15ina di anni fa) o a Matteo di Garrincha prima o durante l’esplosione de “Lo Stato Sociale”, e provarci adesso, può rendere già una prospettiva che fa sentire il gas, si può sentire un sapore che travalica le generazioni, quel sapore che ti fa percepire che le persone sono diventate diverse da come erano prima.

E’ interessante? Bah…

“Uè ce l’hanno fatta”. Hanno fatto il colpaccio e hanno trovato l’Eldorado.
E no, quello l’ha trovato Walter Mameli con Cesare Cremonini… Forse uno degli ultimi colpi di vero agio derivato dal mondo della musica leggera ai tempi della discografia.

Ai vecchi tempi della discografia, dove con una sola hit ti sistemavi finanziariamente.
Forse uno scritto a parte andrebbe fatto a parte sul pubblico.
Esiste?
Sì esiste, frammentato, zeppo di informazioni e in un certo qual modo (forse) inebetito e scarsamente motivato nei confronti della musica, che può solo trovarsi davanti proposte nel loro piccolo imposte e accettate nella misura in cui riempiono un breve spazio non più generazionale, ma serale.
Come dire, non facciamo più canzoni, facciamo altro, chi seguirà Lo Stato Sociale tra qualche anno?
Nota per i lettori, che non c’entra nulla ma va chiarita una volta per tutte: io suonavo e suono (quando ne abbiamo voglia e progetti che ci interessano) in un gruppo chiamato Confusional Quartet. Iniziammo alla fine degli anni ’70.
Ricordo che nei primi ’80 gente come i Diaframma erano degli sfigati, non so neanche se simpatici perché non ci siamo mai incrociati, ma il ricordo che ho di loro era che tutti li consideravano gli ultimi. Vedi vedi che in Italia a stare lì, non muoversi, continuare, alla fine qualcosa paga. Qualcosa. Cosa.
Altra cosa, alcune band che vennero dopo, tipo CCCP/CSI/PGR et similia ci hanno sempre fatto schifo. Diciamolo così, per simpaticamente volersi bene su delle basi di reciproca e disinteressata sincerità. Ricordo un bellissimo articolo della sua rubrica “carta vetrata” di Freak Antoni dove finalmente diceva proprio questo: mi fanno cagare. Mi associo, con calma e candore ma con fermezza.
Una band degli anni ’70/’80, i Gaznevada, beccarono (con un non piccolo aiuto da parte di musicisti turnisti in studio quali Bob Costa e Luca Orioli) un buon pezzo (IC love affaire), e poi non seppero più replicare tale successo.

OK.
Fine della prima parte.

Foolica inzio a conoscerla perché lavora bene a livello promozionale con Paletti, poi cresce, arrivano gli M+A poi arrivano Thegiornalisti, poi arriva in sostanza questa loro ricetta di una ipotesi di nuovo mainstream dove alcune consapevolezze(*) (anch’esse travalicanti le generazioni) vengono attuate e vengono molto bene lavorate per farle diventare in un qualche modo business.

Ripeto, imparagonabile al business di solo dieci anni fa, ma insomma qualcosa che dà il gas di cui sopra, dà del tempo in cui svaccarsi per bene tra birre, ragazze, studi, chitarre, tastiere, ecc. e poi in questo momento nessuno si sogna di comprarsi una barca con la musica.
Forse si sogna una paghetta. O magari scopare e divertirsi, tanto è tutto un delirio.

Queste consapevolezze(*) sono: la cassa in 4 si vende a livello internazionale e sopra ci sta bene la scritta “Made in Italy” (M+A), e la melodia dei cantautori e il modo di cantare dei cantautori anni ’90 sono sdoganate senza vergogna anche per il pubblico odierno che ama cantare (Thegiornalisti).
Dietro ai brani dei Thegiornalisti sento che c’è un lavoro e anche un perché, e qui la ricetta non è certo nuova, ma potrebbe funzionare e anzi ve n’è il bisogno.
Se c’è una cosa che dà piacere è cantare delle canzoni che sappiano di sincero e di fresco e allora Calcuttiamo.
Foolica (una sorta di Sugar in piccino) si muove anche bene: poche connections ma quelle “giuste” e i progetti crescono e si piazzano in 2 anni e possono esplodere.
Poi, molto bene crescere e lavorare a costi molto bassi per realizzare situazioni da piazzare dopo a labels o editori con soldi, e non andare prima a chiedere aiuto e un tozzo di pane; molto bene.

Ai primi giri dei Thegiornalisti i promoters dicevano , “boh…li faccio mi hanno detto che sono forti…”.
Questo “mi hanno detto” è una forza, una forza che impone accelerazione ad alcuni progetti.
In Inghilterra hanno l’ hype noi abbiamo l'”hanno detto”.
Questo “hanno detto” è un giro di poche persone, mediamente simpatiche, alcune giovani, altre vecchie.
Non è mai stato facile come ora diventare musicisti famosi in Italia.
Suono al Covo e intanto scrivo la hit per Carboni (il winner sino ad ora, voto a Carboni 10 e lode).
Poi lasciamo i vecchi critici o musicisti a dire che queste nuove cose fanno cagare, è sempre stato così, i vecchi a dire che le cose dei giovani sono già sentite, sono copiate, ma poi, se ho successo, chi se ne frega?

E vai di melodia, e poi, se ascoltate il primo disco di Carboni, sentite uno che copiava Vasco mica poco.
Quindi perché Thegiornalisti non possono fare Venditti, Dalla e non possono divertirsi nel riprendere le cose e digerirle per l’oggi?
Thegiornalisti vanno bene, li teniamo fermi e li facciamo uscire dal vivo a novembre, solo posti da 1000/2000 persone.
Però gli facciamo fare (gli facciamo fare) il Primo Maggio a Roma, e allora nell’occasione butto fuori un singolo, che vuole dire un video su YouTube e un po’ di FaceBook.
Poi il cantante va comunque al MIAMI – non si può perdere un giro – e fa Vasco Rossi.
Il singolo buttato fuori per il Primo Maggio non è proprio forte e che facciamo?
Siamo pazzi, siamo moderni e dopo un mese ne buttiamo fuori un altro… Qual è il problema? I costi del video? I costi di produzione e stampa?
La promozione? Se hai i canali giusti si può essere fighi a costo quasi zero.
Intanto Paletti sullo sfondo sfuma…
La cosa cresce, la Sugar indipendente e intelligente comincia a capire che i numeri li fanno (li possono, li potrebbero fare) gli artisti indipendenti (cosa che Roberto Trinci ha capito un milione di anni fa, è la coda lunga, piccoli numeri però continui nel tempo, e alla fine fanno fatturato) e quindi comincia a farsi tastare, comincia a spaciugare: Bob Rifo a San Remo, Paletti con contrattino, iniziano sinergie, ipotesi, simbiosi, c’è voglia di andare all’estero, c’è voglia di realizzare quello che non è mai riuscito con Elisa. Vediamo.
Forse gli M+A (con qualche soldo si scopre pure che si può suonare con gli stranieri nei propri dischi) possono farcela là fuori.
Cassa in 4, featuring di vocalist madrelingua e via. No probem.
E poi l’utilizzo finalmente intelligente di festival internazionali, che lanciano nomi italiani nel circuito europeo e anche nell’ignorante patria dove se sei stato allo Sziget, al Primavera, o a Glanstonbury (non importa a che ora hai suonato e se nelle foto non vedo mai il pubblico) è la notizia in sé che pompa e ti fa crescere l’hype, perché oltre a l’ “hanno detto” si somma anche l’ “hanno fatto” e forse cresce un poco pure il cachet.

Superbo il Marchetti (Vittorio), che è un ragazzo che sa suonare e ho visto che gli esce la musica dalle mani con tanta naturalezza, finisce con le Altre di B (il tour negli USA…) band carina ma hopeless nonostante Zoff, e fa una cosa che a parer mio andrebbe studiata.
Studiatela.
Nei giri con gli Obagevi e con Altre di B conosce tutti, ha sulla sua agenda la lista che un booking e un ufficio stampa avrebbe.

Quali caratteristiche deve avere un gruppo nuovo? Essere light, poca gente poca strumentazione, musicalmente ammiccante e adesso l’elettronica può esserlo.
Quindi vai: Osc2x. Il giro giusto di gente, “hanno detto”, poi per “hanno fatto” ci mettiamo dentro le semifinali di X Factor e i festival i cui contatti erano rimasti dalla volte che le Altre di B…
OK adesso aspettiamo le canzoni, ma senza discografia e se il live gira, a cosa servono in fondo? A qualche minuto di YouTube? Mutamenti e valori…
Descrivo queste cose immaginandomele, badate bene.
Sono solo mie personali congetture e supposizioni e giudizi forse utili per insegnarvi a leggere e a guardare alcune cose che accadono mentre accadono.
Per chi vuole entrare nel meccanismo sono forse interessanti non tanto le cose in sé (mie personali supposizioni ripeto) ma una abitudine a leggere cosa abbiamo intorno.
Per concludere, tornando alle cose che sono mutate e no, beh il provincialismo italiano è rimasto inalterato come prima.

Il sapore che si respira tra gli addetti ai lavori…
Cioè diciamo un buon 80% di super provincia che si fa il viaggio e un 20% di cose che sono fighe e rappresentano un momento di qualità allo stesso livello del resto del pianeta.
Il resto è una apparenza, un inganno dato dal fatto che non è cresciuto il nostro livello, causa crisi e miseria si è abbassato quello degli altri.
Per qualche sterlina a Londra vi trattano pure bene al giorno d’oggi.
Ecco io alla mia età questo lo sento come un vuoto.
La possibilità a volte realizzata che nel mainstream potesse entrare l’intelligenza, l’arte, la proposta alternativa adesso si è patinata, è diventata sega da farsi davanti a ProTools o una chimera per ultra ricchi.
Quindi onore a chi sogna cose sue e continua a farlo (sognare) e a farle (cose sue) (no, non sei tu che stai leggendo).