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Un’età di mezzo – Carlo Bertotti

1525R-89014Vivo un’età di mezzo. E non è solamente una questione anagrafica ma qualcosa che ha più a che fare con il senso di provvisorietà, con il non ritrovarsi più con i tuoi luoghi, le tue sicurezze.
È una cosa che è successa a poco a poco. E se all’inizio la identifichi con un momento di crisi, poi la riconosci dal fatto che come te la vedono in tanti. E in tanti non riescono a trovare più le coordinate di sempre.
Di musica ho vissuto per anni, una passione irrazionale che poi è diventata anche lavoro. Un periodo in cui ho capito che qualsiasi cosa avessi fatto di differente nella vita non sarebbe stato lo stesso.
Poi quella stessa vita ti cambia le carte in tavola e arriva il giorno in cui capisci che devi comunque fare una scelta che ti porta altrove. Spesso è una questione economica, altre volte la fine di un sodalizio. Ma sempre più spesso ad un certo punto ti accorgi che vivere di musica nel terzo millennio è diventata cosa difficile, per certi versi impossibile.
Amici, musicisti, fonici, produttori. Una e più generazioni di addetti ai lavori falciata dagli eventi degli ultimi anni, arata da globalizzazione, internet e rivoluzione digitale.
La musica più di altro ha pagato. E pochi là fuori realmente hanno afferrato questo evento nella sua gravità. Perché quando si perdono per strada le idee, la progettualità, l’istinto e la grazia, una parte di noi si congela e non vive più.
La gente ormai pensa che la musica sia qualcosa di dovuto, un arredo, un contorno. Perché pagare per vedere un film? Per leggere un libro? Per ascoltare musica? In Rete c’è tutto e non costa nulla. Io ricordo librerie e negozi di dischi pieni di gente che sfogliavano avidamente copertine e booklet. Album che riunivano gente diversa tra loro o che diventavano bandiere di un movimento. Una cosa probabilmente incomprensibile per tanti, troppi millennials.
Perché oggi i ventenni aspettano spazientiti il loro turno, che per altro ai trentenni è regolarmente già stato negato e ai quarantenni è già sfuggito di mano.
Si vive di apparenza (che non è quella degli anni 80, si badi), la socializzazione pialla ogni forma di contrasto e originalità mentre una comunicazione smisuratamente veloce ci toglie capacità di reazione intima, autonoma, viscerale.
Pretendiamo qualcosa che non sappiamo neanche che forma abbia e non ci accontentiamo più del poco perché troppo poco pensiamo di aver fino a qui ricevuto.
Siamo prede di noi stessi, perché anch’io in questo momento scrivo su un Mac mentre controllo la posta elettronica o l’ultima asta su Ebay.
Un’età di mezzo. Perché quella musica che ben ricordo mi manca tanto. E non parlo dei concerti vissuti su un palco o delle sessioni di registrazioni in sala quando suonare era una professione . Ma di quelle note che ascoltavo nei solchi dei vinili che faticosamente ma regolarmente riuscivo a comprare ogni settimana da New Kary o da Buscemi qui a Milano.
Probabilmente bisognava farci una rivoluzione per questa cosa.
Si è scesi in piazza per nazioni lontane o per come facciamo l’amore, si è protestato per torti subiti da dissidenti e si sono fatte barricate per negare l’altrui esistenza.
Ma mai nessuno ha reagito con tutta la rabbia che sarebbe stata necessaria per rivendicare quella parte così importante che ci è stata portata via pezzo a pezzo.
Un giorno, durante un incontro con i ragazzi del Centro Musica a Modena ho detto loro che mi sembravano dei guerriglieri, soldati giapponesi che si nascondono nella giungla perché la loro guerra non è ancora finita. Ecco, se ce ne fosse qualche centinaio in più di questi Jedi della Stratocaster o del Minimoog allora certi orizzonti sembrerebbero meno opachi. O quantomeno ascolterei musica migliore alla radio.