L’intervista doppia mette a confronto, questa volta, due bassisti. Gianni Maroccolo, membro fondatore dei Litfiba, C.S.I., P.G.R., ancora impegnato a scrivere musica e salire su un palco e Andrea “Sollo” Sologni dei Gazebo Penguins, nonché produttore e proprietario dell’Igloo Audio Factory, centro nevralgico di tante produzioni indipendenti: Giardini di Mirò, Giancarlo Frigieri, Crimea X, Fine Before You Came, solo per citarne alcuni. A loro la parola.
GIANNI MAROCCOLO
Una vita per la musica, quando ti guardi indietro, se lo fai, come vedi Gianni Maroccolo giovane?
“Mah… noto sul mio volto le mutazioni del tempo. Sento il mio fisico che arranca e che fatica sempre di più a stare al passo con la mente, ma dentro sono mosso dalle stesse passioni, dalle stesse speranze, dalla stessa indomabile curiosità di incontrare e sperimentare. Non c’è in me alcun disincanto o rimpianto. Oggi sono un po’ più saggio ma continuo a seguire il mio istinto e il mio cuore senza fare calcoli, senza accontentarmi dei piccoli successi vissuti, senza arroccarmi in certezze né vivere situazioni di comodo. Quando un progetto o una storia finisce, guardo avanti e cerco di andare oltre con la stessa incoscienza di allora”.
Hai fatto parte di alcuni dei gruppi rock più importanti della musica italiana. Come si diventa una band che lascia un segno?
“Credo abbia a che fare con le scelte personali. Non mi accontento facilmente e certi incontri credo non siano avvenuti per caso. Seppur con umiltà, ho sempre desiderato in cuor mio lasciare un piccolo segno del mio passaggio in questa vita e il mezzo per provarci è diventato “casualmente” la musica. Ho gironzolato cocciutamente alla ricerca dell’insieme e del talento e ho avuto anche un po’ di fortuna perché ogni incontro ha lasciato, almeno dal mio punto di vista, quel segno di cui parli. C’è voluto tanto lavoro, pazienza e umiltà ma soprattutto per ogni progetto d’insieme è necessario saper gestire il proprio ego. Un gruppo vive per sottrazione e sintesi. La creatività di ognuno deve essere finalizzata al progetto e non alla gratificazione personale. Credo sia un grave errore pensare che la soluzione migliore sia quella di dare il meglio di sé. Forse ho avuto la fortuna di incontrare musicisti che mi hanno aiutato a comprendere la musica nel suo insieme. Sin da ragazzo mi affascinava più l’arrangiamento di un pezzo, capire il processo creativo con cui si arrivava ad avere una composizione finale. Mi piaceva studiare le singole parti, le sonorità, le melodie e le ho sempre vissute non come “parti singole” ma come una sorta di magici pezzi di un puzzle. Ma le emozioni le vivo in modo forte ascoltando il “puzzle” nel suo insieme”.
Tu hai ispirato tanti bassisti ma quali sono state, invece, le tue ispirazioni?
“Ho iniziato a suonare il basso per caso e non credo di essere un gran bassista. Preferisco pensarmi un buon musicista, il basso, infatti, l’ho sempre usato come “mezzo” per dare note e suoni alle mie suggestioni. Non ho mai perso la testa per un bassista in particolare. Adoro una manciata di bassisti piuttosto sconosciuti ai più: J.J. Burnel, Peter Principle, Peter Hook, Mick Karn, Tina Aumont, Les Claypool, Kim Gordon. E poi due grandi bassisti/ musicisti/produttori: John Paul Jones e Rogers Waters. Grande stima per Jaco Pastorius anche se non mi piacevano i Weather Report. E poi il mito Mr. Groove: Bernard Edwards!”.
Quali sono gli equilibri all’interno di una band? Mi riferisco al fatto, per esempio, che solitamente il cantante assume un ruolo di protagonismo (nel bene e nel male) o che coppie di autori diventano preponderanti nei confronti degli altri componenti di una band.
“Ogni gruppo fa storia a sé e vive di propri equilibri e proprie alchimie. Spesso all’inizio certi “ruoli” si manifestano naturalmente sulla base di attitudini personali. Credo sia controproducente mettere in discussione ciò che, appunto, è naturale. C’è chi è maggiormente portato a scrivere testi, chi ad arrangiare, chi a smanettare sui suoni, chi a comporre armonie, o melodie e non c’è da inventarsi nulla se non lasciarsi trasportare da ciò che, di fatto, c’è. È sempre rischioso cercare di decodificare e comprendere gli elementi che creano il giusto equilibrio. Ogni volta che si fa, almeno a me è accaduto, le storie finiscono”.
Come si sopravvive, artisticamente parlando, alle mode, all’amore dei fan, all’invidia dei colleghi, alle canzoni che non vogliono girare per il verso giusto?
“Non so rispondere a questa domanda perché, davvero, ho sempre lottato per cercare di realizzare i miei sogni senza mai badare a ciò che mi girava intorno. È fondamentale comprendere bene l’epoca in cui viviamo, essere consapevoli delle mutazioni e viverle senza timori ma credo che un’artista debba riuscire a livello creativo ad essere oltre il tempo, oltre tutto. E se poi le canzoni non girano beh, meglio attendere che torni l’ispirazione invece di forzare un disco”.
Come sono nate queste canzoni: “Tziganata”, “Apapaia”, “Del mondo”, “Cupe vampe”?
“Tziganata da un giro di tastiere di Aiazzi su cui Piero iniziò subito a canticchiare quella che poi divenne la melodia del pezzo, poi arrivò il basso e successivamente il resto. Apapaia non ricordo bene ma sono certo che fu una gestazione piuttosto lenta, testo e melodia vocale arrivarono qualche tempo dopo la parte musicale. Ma credo che nessuno possa smentirmi se dico che sia valsa davvero la pena di attendere. Del mondo nacque una mattina in Bretagna da un giro di tastiere di Magnelli, lo suonò per un bel po’ ma nessuno gli andava dietro, era un bellissimo giro e avevamo paura di buttare delle note a caso. Poi dopo un po’ mi è venuto il giro di basso e a quel punto Ferretti iniziò a lavorare la melodia vocale. Il pomeriggio tornò col testo finito e noi completammo il pezzo. Su Cupe vampe c’è un vecchio aneddoto che vale la pena di essere raccontato. Cupe vampe è una delle canzoni di “Linea Gotica”, album ispirato alla resistenza e alle figure di Don Dossetti e del Comandante Diavolo. Giovanni una sera dette il testo di Cupe vampe a Francesco e gli disse che desiderava una musica molto grave e dolorosa. Rimanemmo io e lui fino a notte fonda a suonare, poi Francesco accennò il giro armonico di quella che sarebbe diventata la prima parte del pezzo, ci guardammo con soddisfazione e andammo avanti. A me venne fuori il finale in 6/8 su cui poi Giorgio mise un bellissimo solo di violino.
La mattina facemmo ascoltare la bozza a Giovanni che guardandoci ci disse piuttosto incazzato qualcosa del genere: “Se voi credete di fare un disco pop sappiate che io non sono e non canto come Baglioni“. Ci guardammo esterrefatti. Aveva appena ascoltato la musica di Cupe vampe, credo insieme a Memorie di una testa tagliata, una delle canzoni più tristi e scure dei C.S.I. Comunque sia, la si poteva definire in tutti i modi, tranne che una canzone pop. Cose che capitano in gruppi umorali come i CS.I.”.
Cosa ti ha spinto ad iniziare a suonare e a continuare?
“Credo sia stata la passione. Infanzia passata a percuotere pentole, ad ascoltare di notte ogni genere di radio e di giorno i 45 giri di mia sorella nel mangiadischi. Guardavo ogni genere di programma tv musicale e adoravo le colonne sonore degli sceneggiati di allora, sono cresciuto fondamentalmente con tre grandi passioni: il mare, la musica e il calcio che ho coltivato per anni senza nessuno scopo specifico. Vivevo in Sardegna, quindi mare bellissimo e musica ad ogni sagra o festa. Poi decisi che il mio mestiere sarebbe stato quello del marinaio e iniziai il Nautico ma la vita mi ha portato altrove e così, sempre senza rendermene conto, la musica ha preso il sopravvento sul resto. Non credo che smetterò mai di suonare (anche se in passato stava per accadere) così come non abbandonerò il mare. Un conto è fare musica, sperimentare, comporre, altra cosa è fare dischi e concerti”.
Come è cambiato negli anni, se è cambiato, il tuo rapporto con la musica?
“Non è cambiato. È qualcosa che fa parte di me. Molto semplicemente, se non amassi e vivessi la musica non sarei la persona che sono. È un rapporto molto viscerale e di rispetto, qualcosa che mi arricchisce (ahimè, purtroppo non in senso materiale), che mi aiuta a crescere, fa bene alla mia mente e al mio spirito. Suono e ascolto musica da sempre e ho imparato a scindere il “piacere della musica” da quello che ritengo il più bel mestiere che ci sia. Beh, forse accadrà che cambierò mestiere ma non smetterò di suonare e ascoltare musica”. Cosa ti colpisce quando ascolti una canzone che ti piace? “L’ insieme. E immagino che per molti sia la stessa cosa. Un approccio emotivo quindi privo di qualsiasi analisi mentale. Quando suono, riesco a estraniarmi totalmente da ciò che sto facendo e ascolto tutto l’insieme. Lo stesso accade quando ascolto una canzone. Solo dopo un po’ di tempo mi concentro sulle singole parti, sugli
arrangiamenti, i suoni, la voce e il testo”.
Qual è la canzone più bella e più brutta che tu abbia mai scritto?
“Ho la tentazione di risponderti da furbetto, qualcosa del tipo; quella che devo ancora comporre. Scherzi a parte, non saprei davvero e poi ho quasi sempre condiviso la composizione di canzoni con altri. Sono molto affezionato a Linea Gotica dei C.S.I. e a Louisiana dei Litfiba e, ad essere sincero, ritengo un pezzo non riuscito Io e Tancredi”.
I C.S.I. torneranno insieme a Giovanni Lindo Ferretti?
“I C.S.I. non hanno ragione di esistere senza Giovanni. Così come cessarono di esistere quando se ne andò Zamboni nel ‘98, e questo vale per tutti. I C.S.I. sono un’ insieme che per vivere necessita di tutti e cinque, e se uno di noi non c’è, non ci sono i C.S.I. Se ti riferisci al periodo in cui ci siamo ritrovati e abbiamo chiesto ad Angela Baraldi di cantare le “nostre” vecchie canzoni beh, credo sia improprio parlare di C.S.I. Cosa accadrà in futuro non lo so davvero. Navigo a vista, felice di avere con Francesco, Ginevra, Giorgio, Giovanni e Massimo, un vero rapporto di affetto e sana amicizia. La domanda giusta da farsi forse sarebbe: torneranno mai insieme i C.S.I.? E la mia risposta rimane quella di sempre: non lo so. Se ciò potesse accadere non mi tirerei di certo indietro ma possibilmente per produrre nuove parole e nuove note”.
Cosa è stato il C.P.I.?
“Una bellissima esperienza di musica e cultura condivisa. Incoscienti, visionari e poco avvezzi al music business, provammo a creare una vera e propria Factory all’interno della quale operavano creativamente due strutture produttive: Sonica a Firenze e I Dischi del Mulo a Reggio Emilia. Un tentativo di far circolare nuova musica, giovani talenti e al tempo stesso di creare progetti condivisi come ad esempio Materiale Resistente, il tributo a Robert Wyatt, Il Maciste e i raduni (che tu Andrea ben conosci!). Nel giro di poco tempo il C.P.I. divenne un piccolo punto di riferimento per creativi e artisti di ogni tipo, grafici, pittori, scrittori, videomakers, tecnici del suono, produttori, da noi c’era la possibilità di sperimentare e di crescere. E la Factory si trasformò velocemente in una ’big family‘. Sicuramente uno dei progetti più belli e importanti della mia vita”.
Quale eredità lasceranno i Litfiba e i C.S.I.?
“Non lo so davvero. E forse non credo spetti a me dirlo”.
Qual è il tuo consiglio per un giovane che vuole fare musica nel 2015?
“Capire al più presto se si è disponibili a fare della musica una scelta di vita. Dopodichè, non potrebbe essere altrimenti, ognuno troverà il suo percorso e il proprio spazio. Fare musica è una cosa, ricercare successo, ricchezza, fama è tutt’ altra storia”.
Cosa succederà alla musica nei prossimi anni?
“Continueremo a suonare, a produrre musica, ad ascoltarla. Le mutazioni epocali (come quella che stiamo vivendo) condizionano il mercato, la tecnologia, ma di fatto, e da sempre è così, nessun fenomeno sarà in grado di ’eliminare‘ la musica dalle nostre vite. A differenza di noi, la musica è, e sempre sarà, eterna. E ritengo ininfluente sapere se ce ne ’ciberemo‘ attraverso un lettore, un telefonino, un chip, o un giradischi”.
ANDREA SOLOGNI
Cosa ti ha fatto avvicinare alla musica?
“Mi sono avvicinato alla musica con l’hip hop, a 14 anni. Mi sono messo a produrre le mie prime basi con un Akai 950 e il primo cubase, che mi è servito tantissimo per il mio lavoro di adesso. Da allora ho deciso che prima che un musicista volevo essere un bravo tecnico del suono”.
Come mai hai scelto di suonare il basso, e quali sono i musicisti a cui ti ispiri?
“Ho imparato a suonare il basso per necessità, perché io e Capra volevamo fare un trio che poi sono diventati i Gazebo Penguins. Non credo di avere dei musicisti a cui mi ispiro, traggo ispirazione più da certi produttori e produzioni. Anche se un bassista che mi fa impazzire adesso è Joshua Abrams”.
È cambiato il tuo rapporto con la musica, rispetto a quando con i Gazebo Penguins non eravate famosi?
“Non ritengo assolutamente di poterci definire famosi! Abbiamo sempre fatto quello che volevamo fare e ci è ‘andata bene’, abbiamo potuto suonare tantissimo in giro e vivere tante belle situazioni. I musicisti ‘famosi’ fanno solo quello, noi abbiamo tutti un altro lavoro. Suonare rimane la nostra passione più grande, continueremo a farlo anche se non ci fosse un ritorno di notorietà”.
Come è nato l’Igloo Audio Factory? E come mai questo nome?
“È nato per la necessità di avere un posto dove poter produrre quello che desidero quando voglio e come voglio, oltre a registrare e mixare chiunque abbia bisogno. Prima di avere questo posto, con i Penguins e i Valerian Swing provavamo in un vecchio casolare dove ogni 4 mesi organizzavamo delle serate live chiamate ‘Igloo’. Una volta dismesso quel posto causa terremoto, ho deciso di tenere il nome come ricordo”.
Raccontaci un po’ come affronti il lavoro in studio con una band o un solista.
“Se accetto di lavorare a una produzione è fondamentale il lavoro pre-studio: sentire le bozze, le prove, dare una direzione al lavoro. Ascolto sempre le opinioni e i pareri di tutti, anche se su certe cose come i suoni o gli ambienti non transigo molto, per la buona riuscita del disco. Per gli arrangiamenti mi piace coinvolgere a pieno chi sceglie di lavorare con me, mentre si fa un disco bisogna pure sempre ricordare che tutti si devono anche divertire”.
Qual è la funzione degli studi di registrazione professionali come il tuo, ora che quasi chiunque può registrare con un computer e qualche software?
“La loro funzione è quella di sempre: garantire che la musica possa trasmettersi nel miglior modo possibile, con messaggi sonori ben precisi. Una produzione in uno studio è fondamentale per far si che le cose non suonino tutte uguali, che ci sia creatività nel fare un disco, che ricordiamolo è un prodotto di arte e creatività. Negli studi si può sperimentare con strumenti che a casa non si hanno, le idee possono centuplicarsi e trovare i mezzi giusti per incanalarsi”.
Cosa ti colpisce quando ascolti una canzone o un artista che ti piace?
“Mi colpisce la canzone in sé, se mi trasmette un’emozione appena faccio play. Ascolto se la voce è particolare, se ha senso assieme al resto, mentre se è strumentale mi devono colpire i suoni, l’ambiente. L’unico metro di giudizio di un artista, oltre alla validità del progetto in sè, è la serietà. La voglia di fare qualcosa senza la paura di doversi poi fare il mazzo per portarlo in giro. E anche un po’ di umiltà non guasta”.
Domanda aperta, diciamo: dal momento che vivi la scena sia come bassista di una band che come produttore, qual è lo “stato di salute” della musica indipendente in Italia?
“Ritengo che la facilità con cui ora chiunque possa fare musica abbia dato a chi ha veramente talento i mezzi per esprimersi, anche se genera una quantità enorme di cose fatte tanto per fare, che distraggono dalle poche cose realmente interessanti. In generale però l’età con cui un musicista può iniziare a farsi sentire a livello semi professionale si sta abbassando, ed è un gran bene”.
Un consiglio per un musicista emergente che vuole fare musica nel 2015?
“Di tenersi aperte tutte le possibilità, come può essere un lavoro part time ad esempio. Io mentre lavoravo per mettere in piedi lo studio e con i Penguins portavo in giro ‘Legna’, oltre a fare il fonico dal vivo per varie band lavoravo anche come proiezionista al cinema di Correggio. Per 3 anni non ho avuto vita sociale, ma ciò mi ha consentito di investire in quello in cui credevo. Bisogna essere sinceri e ammettere che prima che la musica diventi un lavoro possono volerci tempo e sacrifici”.