Nuovi negozi di dischi stanno aprendo un po’ dovunque. Il vinile è tornato ad essere un supporto amato ed acquistato. Ai concerti si registrano sold-out ad un ritmo vertiginoso, mentre i talent e il Festival di Sanremo macinano share da capogiro. Sono segnali di una ripresa o di una imminente apocalisse? Ecco cosa ne pensano i valutatori di Sonda.
È finita la crisi dell’industria della musica? Non so. E dal mio piccolo angolino indipendente e radicale m’interessa il giusto. Certo la sua produzione e la sua diffusione sono cambiate ormai da diversi anni e non torneranno mai come prima. Come d’altra parte son cambiati i modi di ascoltare la musica e di “consumarla”.
E certo non è “finita”, la musica. Anzi, mai come adesso è difficile trovare l’intervallo (avrebbe detto Gillo Dorfles), quel giusto silenzio che è il senso stesso di ogni forma musicale, dentro il mare di suoni, di ritmi, di voci che circondano la nostra vita.
La musica si adatta. Come è sempre stato: i musicisti (con i suoni che sanno inventare) hanno sempre trovato il modo di esistere e di creare, modellando la loro arte agli strumenti di diffusione che la “tecnologia” dell’epoca offriva e spesso, proprio con la musica, proponendo tracce per trovarne di nuovi.
I meccanismi di circolazione, e di vendita, oggi sono diversificati. Si sa: non c’è più un supporto dominante. Si possono fare le classifiche che vogliamo, ma il panorama è vasto e variabile: oggi si rilanciano gli antichi vinili, ci sono lo streaming e il downloading, il CD, le USB, gli smartphone di ogni tipo, le molte radio, e i diversi canali TV, c’è Youtube (che a mio avviso resta il mezzo predominante e più comodo di ascolto e di conoscenza), volendo anche i vecchi registratori a nastro di vario tipo, e ci sono ancora perfino le musicassette (in uno snobbistico revival che batte, per piglio massimalista, la stessa rinascita del LP).
Proprio nel 2018, fra i tanti anniversari, si è celebrato anche quello dell’ellepì così come si conosce ancora oggi. Nel giugno del 1948 la Columbia lanciò il formato che avrebbe rivoluzionato (ma fu solo la prima di tante rivoluzioni) la storia della musica. Per inciso (termine quanto mai adatto): il primo LP messo in commercio fu il “Concerto per violino in mi minore” di Mendelssohn. Quel padellone nero in cloruro di polivinile, con la copertina colorata e invitante che ha da sempre identificato, in base all’immagine scelta, il titolare dell’opera discografica, adesso è tornato. Il suo dissolversi fu veloce e riempì di malinconia gli appassionati. Il gelido CD ci sembrò eterno e indistruttibile. Le collezioni di vinili e il loro ascolto (e compravendita fra collezionisti) è restato per alcuni decenni appannaggio di pochi estremisti, catalogabili decisamente un po’ fuori del tempo. Poi sono tornate le fabbriche (pur poche e lentissime), i giradischi, le produzioni. Una sorta di controtendenza, un sussulto che ha il sapore quasi perverso della rivincita. Bene. Ben tornato vinile! Ma a me piacevano più i CD, belli compatti, mini supporti dal relativo ingombro, quindi trasportabili con facilità, vicini all’idea di libro, ascoltabili facilmente ovunque, senza scricchiolii, dove entrava tanta musica.
La (rin)corsa al vinile ha ormai preso tutti gli operatori. Tanto che le edicole (visto che vendono ormai poca carta stampata) sono ritornate sulla breccia come luogo di commercio musicale. E speriamo che anche il vinile non faccia la fine, grazie in parte alle edicole, che fece il CD quando diverse case editrici (le solite sigle che oggi si sono buttate sul giornalesco ellepì) inondarono i chioschi di ristampe (spesso bruttine), di compilation e novità a prezzi bassissimi e non pagando l’iva come i rivenditori specializzati.
In questo contesto, è interessante riflettere su come sta cambiando l’ideazione e la produzione di un lavoro musicale multiplo. Lo chiamo così perché il termine “disco”, al quale sono comunque affezionato, mi fa oggi un po’ impressione e mi sembra ormai limitante. Si parte dalla soglia di attenzione degli ascoltatori ormai ai minimi storici e ci siamo allontanati dall’idea di quanta musica invece può raccogliere un CD (fino a ottanta minuti circa). Anche facendo i conti con il digitale ci si riadatta alla cultura del vinile, che era ed è soprattutto “costrizione tecnica”. La brevità, e quindi l’essenzialità, possono essere una virtuosa soluzione all’affollamento di suoni. Quindi si è tornati a produzioni lunghe poco più di venti minuti con 6 o 7 brani. Una scelta che facilita anche l’odierna soglia di attenzione dell’ascoltatore. Oggi, come abbiamo visto, le possibilità di imbattersi in un brano musicale sono infinite, ma, avendo ormai superato l’idea del disco come formato, ci si sta comodamente adattando a una nuova essenziale brevità creativa. Scelta che conferma la perdita di centralità dell’opera musicale registrata e che, dal punto di vista della fantasia, può essere una virtù, una risposta – se viene salvaguardata la qualità – agli ingorghi sonori dei nostri tempi.
Gli “album”, pur brevi, rimangono il biglietto da visita degli artisti e lo start per la musica dal vivo che resta oggi, in questo sconfinato oceano di suoni, l’elemento vincente. Le difficoltà sono tante (basta pensare alla cosiddetta “sicurezza”) e arranca la curiosità per il nuovo e il non “famoso” (non solo da parte del pubblico ingessato, ma soprattutto da parte di promoter e organizzatori che non vogliono mai “rischiare”), ma la musica suonata “per davvero” e ”davanti alle persone” resta vitale. Sporca o raffinatissima, è sempre difficile clonarla.