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Bombay – SONDAinONDA

Nati nel novembre 2014 a Medicina (Bologna) i Bombay suonano un alternative rock potente, con testi in italiano e una ritmica potente. A marzo 2017 pubblicano il primo EP “Abat-jour”, con cui la band inizia ad inserire nel proprio sound atmosfere più oscure, mescolando alt-rock e del rock sperimentale con l’energia del grunge e post-grunge. Ma la dimensione in cui i cinque bolognesi si danno più da fare è, ovviamente, quella live: tantissime date in giro per la penisola, e aperture a band di spessore come Il Teatro degli Orrori e Bologna Violenta.

Con due videoclip all’attivo, che accompagnano i due singoli tratti dal primo album, abbiamo incontrato il cantante dei Bombay Marco Cardona, per parlare del passato e del futuro della band. Oltre all’intervista, potete guardare il video del loro ultimo singolo “Sospesi” a questo link. Buona visione!

facebook.com/BombayBologna

Angela Finotello – SONDAinONDA

La musica è entrata nella vita della bolognese Angela Finotello per gioco, quando nel ’91 inizia a cantare e decide di formare una band: da lì ha poi proseguito con altre band, l’incontro con Gaetano Pellino con cui ha registrato un mini-album contenente “Piccola luce” con cui ha ricevuto i complimenti da Lucio Dalla, la scoperta del soul e del blues, l’esperienza live con i conterranei Groove City. Nel 2008 assieme all’autrice Tiziana Pisani nascono “Limpido” e “Nomade”, che la fanno avvicinare alla SanLucaSound con cui realizza il singolo “Mare Altrove”, inserito poi nella compilation “quelli di Bologna per la basilica di Santo Stefano” promossa dal Resto del Carlino nell’ambito delle iniziative per raccogliere fondi destinati al restauro della piazza Santo Stefano di Bologna.

Nel 2011 inizia un nuovo progetto con la collaborazione della nuova band, che la porta ad aprire i concerti di Claudio Lolli e Il parto delle Nuvole Pesanti, con i brani inediti che fanno parte del
nuovo cd “Sala d’attesa”, completamente autoprodotto. Nel 2013 entra a far parte della band il bassista Lucio Bellagamba, formando insieme a Danilo Faggiolino alla chitarra e Andrea Sita alla batteria, la nuova band che ora la accompagna nei live. Agli inizi del 2014 esce il suo nuovo 45 giri digitale “Oltre” completamente autoprodotto, che vede la partecipazione di Ivano Zanotti alla batteria.

Tutto questo e molto altro, Angela Finotello ce lo ha raccontato di persona nell’intervista che trovate qui sotto, e ci ha lasciato una versione acustica della sua “Sogno”, che potete ascoltare qui.

facebook.com/AngelaFinotello

La Convalescenza – SONDAinONDA

La Convalescenza è togliersi le bende per mostrare le ferite, è raccontare storie di vita vissuta e storie talmente immaginate da essere ancora più vere”: così si presenta questa band di Modena, formata da Luca Pifferi (voce), Manuel Baraldi (basso), Nicholas Giordano (chitarra), Luca Campanozzi (chitarra) e Francesco Roncaglia (batteria).

Con un EP all’attivo intitolato “L’eco della clessidra”, tre quinti de La Convalescenza sono venuti al Centro Musica di Modena a raccontarci la genesi del gruppo, i progetti per il futuro, il nuovo album in lavorazione, e lasciarci una versione acustica di “Mascara“. Buona visione.

facebook.com/LaConvalescenza

Il produttore artistico devo proprio chiamarlo? #2 (C.Bertotti)

INGCHYSS0290“C’era una volta il produttore artistico. Così come c’era l’arrangiatore, il paroliere e i cosiddetti “turnisti”… Poi sono comparsi Linn 9000, Atari e il magico protocollo MIDI: da allora, per chi voleva fare musica, tutto è diventato più democratico e accessibile. Una mezza rivoluzione, che come tale, ha purtroppo lasciato sul terreno anche un patrimonio ineguagliabile di esperienze e professionalità.

Molti figli dei giacobini di allora, oggi fanno musica senza sapere granchè di musica, arrangiano a orecchio un tanto al chilo e sulla carta d’identità hanno scritto ‘produttori’. Tanto quando vai in comune a farla, la carta d’identità, alla voce professione puoi dire qualsiasi cosa. È gratis. Oggi è difficile spiegare cosa dovrebbe essere un produttore artistico, è un ruolo come l’ala destra: di Causio o Sala in giro non ce ne sono più da tempo… Però conosco artisti che con il tempo sono diventati produttori di sé stessi. Gente con i controcoglioni che però, una volta conclusi i mix, si è spesso tormentata per un risultato che, in qualche modo, non rispettava le esigenti aspettative del proprio ego oppure più banalmente, faceva imprecare per le quantità smisurate di Malox assunte durante la lavorazione di un progetto troppo ‘sentito’, indispensabile e imprescindibile.

Quando devi elaborare o mettere a fuoco delle canzoni dandogli forma e identità è molto difficile riuscire a farlo su materiale che hai pensato tu fin dalla prima stesura. Sei condizionato, magari ti innamori di un arrangiamento che in realtà penalizza il brano in questione, non sei imparziale e questo pregiudica la visione obiettiva che più occorrerebbe in questa fase del lavoro. Il produttore ascolta delle canzoni, conosce chi le ha scritte, cerca di comprendere quali siano le coordinate attorno cui muoversi, le interpreta e immagina una forma e un indirizzo da dare all’intero progetto.

Non si limita a ‘vestire’ una serie di canzoni ma ipotizza un universo di riferimento. Uno spazio che NON è solo sonoro, ma è anche e soprattutto una messa a fuoco, la ricerca di un’identità, una conferma di quella precedente o un sovvertimento totale. Ho lavorato con diversi professionisti in questo ambiente: tecnici esperti, specialisti di ogni genere musicale, geni del marketing, tutta gente comunque competente in materia di tendenze e suoni. Ma in realtà in vita mia ho lavorato soltanto con due veri e propri “produttori”: Carlo Rossi e Roberto Vernetti. Entrambi piemontesi, entrambi geniali, entrambi fermi e irriducibili nelle loro convinzioni. Due fuoriclasse della musica con un’attitudine e un talento fuori dal comune.

Sono stato fortunato. Con Roberto ho potuto sgrezzare e affinare la conoscenza del suono. Da Carlo ho imparato la sintesi e l’armonizzazione fra l’elemento umano e la musica. Ho lavorato con Carlo Rossi a Revigliasco nell’inverno del 2005. C’eravamo conosciuti qualche mese prima a Torino ed erano bastati pochi minuti per capire che era una persona con la quale volevo lavorare. Facevo musica da tanti anni e gli ultimi due album pubblicati con la Bmg Ricordi ce li eravamo prodotti da soli (come predico bene e razzolo male io, nessuno mai…). Carlo ha riportato le lancette dell’orologio a cinque anni prima. Abbiamo lavorato nella sua casa-studio per tre mesi passando dalle ultime giornate di fine estate alle prime nevicate di inizio dicembre. I brani che sembravano già praticamente pronti per la stesura definitiva sono stati destrutturati, spogliati e privati di tutto ciò che non fosse strettamente essenziale. La cosa non era prevista, inizialmente non capivo e osservavo fra l’inquieto e il sorpreso, ma quando abbiamo riascoltato il materiale in quella forma così scarna tutte le convinzioni maturate in fase di scrittura e pre-produzione si sono automaticamente dissolte.

Carlo ci aveva posto di fronte a una semplice questione: che canzoni avevamo scritto? Quali e soprattutto quanto ci piacevano? Non veniva messo in discussione il genere o la qualità degli arrangiamenti. Semplicemente si voleva concentrare sull’essenza del nostro lavoro: il significato di 4 minuti di parole e musica. La fase successiva è stata intensa, faticosa ma soprattutto gratificante. In due mesi abbiamo riscritto praticamente tutti gli arrangiamenti, dalle ritmiche alle parti di orchestra. Carlo era lì, in maniera discreta ma tremendamente efficace: la notte buttavamo giù materiale su materiale, al mattino lui arrivava, rifiniva, tagliava e il pomeriggio ci si confrontava assieme.

Oggi, a distanza di tempo, credo sia il disco che suoni meglio tra tutti quelli che ho avuto la fortuna di scrivere e pubblicare. Grazie di tutto Carlo, è stato un vero onore”.

Il produttore artistico devo proprio chiamarlo? #1 (M.Bertoni)

INGCHYSS0631Il produttore artistico è una figura avvolta nell’ombra, soprattutto negli ultimi anni, dove tutti possono esserlo (come possono essere allenatori della nazionale di calcio). In realtà, però, chi è o cosa fa un produttore artistico in un mondo fatto di sette note? Lo abbiamo chiesto a due musicisti (ci piace mettere per prima questa parola) e produttori: Marco Bertoni e Carlo Bertotti. Quest’ultimo ci ha inviato un suo scritto, Marco invece ha risposto alle nostre domande perché ci stiamo convincendo sempre di più che non tutti possono essere allenatori e produttori. “Una volta, ilproduttore artistico in ambito musicale, era quella figura professionale che funzionava da interfaccia tra l’artista e la struttura che commissionava il lavoro discografico. Quindi il produttore stava tra l’artista, aiutandolo a confezionare il suo lavoro, interpretando e recependo le sue idee artistiche, e la casa discografica. Cercava di rendere il prodotto il più commerciabile possibile, in un’ottica non solo d’immediato successo ma anche di carriera musicale dell’artista. Gli artisti erano legati alle case discografiche per almeno cinque anni con l’impegno di realizzare tre album e lavorare con loro voleva dire anche investire sulla loro crescita ‘spalmata’ nel tempo. Oggi il produttore artistico è quella figura professionale diversa, che aiuta sempre l’artista a realizzare e a mettere a fuoco il suo lavoro, ma si colloca tra lui e ‘il mondo’. L’artista è diventato nella maggior parte dei casi il committente di se stesso, cioè colui che investe tempo, energie e danaro nella produzione di brani, al fine di realizzare un master. Il master, anche se non vi è più l’industria discografica, resta comunque un importante asset sempre fondamentale per un progetto e in una strategia musicale. Oggi, che l’artista sia esordiente oppure no, il produttore artistico deve avere un’abilità di messa a fuoco del proprio lavoro, non solo dal punto di vista musicale, ma anche dal punto di vista di strategie, che incidano sull’identità del prodotto e sulla gestione dello stesso una volta realizzato per fare in modo che sia concretamente pubblicabile”, ci dice Marco Bertoni, facendo luce sul ruolo (nel) passato, presente e futuro di un produttore artistico. In un’epoca dove esisti solo in base ai “mi piace” che ottieni (per i motivi più disparati anche in campo musicale), dove la musica è un superfluo, quasi un peso da sopportare perché altrimenti non si giustificano i concerti, le comparsate televisive, le programmazioni radiofoniche, il ruolo del produttore artistico diventa fondamentale, invece, per tutti i musicisti che ancora scrivono canzoni con l’intenzione (seria) di farle ascoltare e dire qualcosa (il genere di appartenenza non conta, nella storia ci sono stati brani pop socialmente più rilevanti di elucubrazioni cantautorali). Quindi come lavora un produttore artistico all’interno di un mercato sempre più ristretto? Dalle parole di Marco: “Posso raccontare cosa faccio io, anche perché, per l’età che ho, la parte iniziale della mia carriera si è fondata su un know how maturato nel tempo in cui i committenti erano le case discografiche e in cui il prodotto era confezionato per il mercato discografico. Oggi produco artisti, soprattutto esordienti, che mi ‘ingaggiano’, proponendomi progetti. I progetti che ritengo interessanti e stimolanti e ‘buoni investimenti’, li curo iniziando dai provini, dalla sala prove e da tanti discorsi riguardanti la strategia di dove e a chi si vuole e si può proporre il lavoro. Quindi diciamo che la mia figura si è evoluta da un momento meramente tecnico e musicale (la confezione delle canzoni nelle varie fasi del lavoro e cioè le pre-produzione, l’arrangiamento, la produzione in studio di registrazione) a un processo lavorativo che aiuta e coadiuva l’artista nel realizzare qualcosa che sia adatto a una strategia che si è stabilita e costruita e che comprende cosa fare e come farlo, per giungere alla pubblicazione e alla promozione del lavoro: una continua disamina e ricerca di che cosa serve per l’inizio o la continuazione di una carriera”. La necessità di un produttore artistico diventa quasi indispensabile, come prosegue Bertoni: “Il bisogno di avere un produttore artistico risiede nel fatto che al di là della tecnologia, che oggi più facilmente aiuta nell’auto produzione, una persona che abbia competenze della tecnica musicale, della tecnica della produzione sonora, delle attuali forme di mercato e delle tecniche della comunicazione può realmente fornire più possibilità di alzare il livello del lavoro, dal punto di vista artistico, creativo e anche comunicativo. Inoltre un orecchio esterno ha un potere maggiore di manipolazione e di realizzazione di qualcosa di altro che parta dal materiale originale fornito dall’artista, ha una sicurezza dovuta sì all’esperienza e alle capacità, ma anche all’assenza di responsabilità e di identificazione con il prodotto che il produttore non ha creato, ma che deve, in maniera creativa, confezionare. Io sono anche musicista e devo dire che (quando mi è capitato) essere prodotti è per me il massimo, cioè io scrivo un pezzo, suono la mia parte in studio, poi di tutto il resto, i suoni, le scelte, i tagli… se ne occupa il produttore, non m’interessa. Tanto tempo fa mi colpì constatare che un grande artista come Lucio Dalla, dava il meglio di sé quando in studio era affiancato da un produttore, ad esempio come Mauro Malavasi, che lo sollevava dalle scelte e lo lasciava libero di creare senza preoccuparsi della confezione del lavoro. Ecco, il produttore può rendere il creativo libero di emanare idee, che poi sono selezionate, ottimizzate econfezionate per aumentarne le possibilità di comunicazione (e quindi di vendita)”. Insomma i social aiutano, la tecnologia aiuta, ma la mano di un produttore artistico è ancora indispensabile. Di persone che si credono produttori e allenatori ne è pieno il mondo. Basta non farli entrare in studio di registrazione o sul campo di gioco, cercando, invece, quelli col “patentino”.

La scena che (non) c’è (D.Rumori)

INGCHYSS0065Qualunque che sia il contesto, chiunque sia il musicista/impresario/discografico con cui state parlando, vi dirà la stessa cosa: al giorno d’oggi l’unica cosa che sopravvive nel mondo musicale, in cui girano un po’ di soldi e con cui potete farvi notare, è l’ambito live. Dal momento che in compenso i locali dedicati alla musica live sono sempre meno, e chiunque abbia mai preso in mano uno strumento sa bene che sono più le date ‘pagate’ a pizza e birra che a moneta sonante, abbiamo iniziato a chiederci se questo mantra rispecchi la realtà o sia piuttosto una leggenda metropolitana.

Per vedere di capirci qualcosa abbiamo fatto qualche domanda a Daniele Rumori, confidando nel fatto che in 15 anni da direttore artistico del Covo Club di Bologna qualcosa, di quel mondo lì, lo avesse capito. Facciamo intanto un quadro di quello che è la situazione locale: “Credo che ogni città faccia caso a sé, ma io un’idea di quello che è successo a Bologna un po’ ce l’ho”, racconta Daniele. “Una volta qui venivano a studiare tutti i ‘creativi’ del paese, il Dams era un’istituzione e Bologna era la capitale delle sottoculture perché città libera e profondamente tollerante. Negli ultimi 15 anni purtroppo le cose sono molto cambiate, è diventata sicuramente molto meno attraente a causa di scelte politiche, e perché è diventato molto più semplice andare a studiare o vivere nelle capitali culturali degli altri paesi. Ecco che quel tipo di studente che una volta vedeva Bologna come unica alternativa, ora ne ha di migliori e molto spesso più economiche”. Una situazione di certo meno rosea rispetto ad anni fa, ma che vede comunque il capoluogo emiliano tra le “migliori città d’Italia in quanto ad offerta culturale e musicale ed anche in quanto a qualità di pubblico”, nonostante stia vivendo nell’ultimo anno un periodo di ‘restaurazione’ volto a “valorizzare il centro città come vetrina per il turismo, dimenticandosi della periferia e di locali storici come Estragon, Covo o Link. Per non parlare poi dello sgombero di Atlantide, davvero un bruttissimo segnale. Il rischio concreto è di far diventare Bologna una città sempre più spenta e standard”. Che la musica e la cultura underground non siano tra le priorità delle istituzioni del nostro Paese, non è una novità. L’idea è ancora quella che la musica rock e alternativa, ma anche elettronica, siano un fenomeno giovanile, o al limite un fenomeno culturale di serie B. Un qualcosa che crea e porta problemi piuttosto che risorse. “Mi dispiace dirlo, ma credo che il ritardo che c’è in Italia rispetto ad altri paesi sia insormontabile. Forse ci vorranno due o tre generazioni per recuperare”, taglia corto Daniele, “Ormai me ne sono fatto una ragione. Anni di organizzazione di concerti, eventi, manifestazioni, rassegne, festival mi hanno fatto capire che in questo Paese è quasi impossibile trovare degli interlocutori che capiscano il valore della proposta, sia da un punto di vista culturale che economico”.

Tutto questo ovviamente, sul lungo termine ha finito per riflettersi in un impoverimento sia della scena culturale e musicale Italiana, sia dal punto di vista della risposta pubblico, sempre meno ricettivo verso le proposte musicali, sia dal punto di vista dei gruppi indipendenti che si affacciano sul mondo indipendente. Il quadro che ci fa Rumori è abbastanza desolante: “Funzionano (e non sempre) solo gruppi affermati e con una storia, c’è pochissima curiosità nello scoprire gruppi nuovi, italiani o stranieri che siano. Oggi si fa fatica a portare un pubblico decente anche per vedere gruppi che all’estero finiscono regolarmente su copertine di riviste straniere. In più è in atto un incredibile processo di ‘poppizzazione’ dei gruppi emergenti, e forse anche del pubblico. Non so se la colpa sia di X Factor o Amici, ma mi sembra che la maggior parte dei giovani che suonano ora guardino più a quel mondo lì che a quello indipendente internazionale”.

Inevitabilmente quindi il pubblico è diminuito e difficilmente frequenta un locale per la musica live, e chi gestisce un live club è inevitabilmente sempre più vincolato alla certezza di avere un ritorno di pubblico, e anche una realtà come il Covo che cerca, quando possibile, di supportare artisti emergenti mettendoli in apertura ad artisti stranieri, non riesce a creare le condizioni ottimali perché diventino per loro un’effettiva occasione per farsi conoscere. Tuttavia nell’opinione di Daniele, non è solo colpa del pubblico o della promozione del locale o della crisi della discografia: “Mi sembra che manchi purtroppo il concetto di ‘scena’, visto che spesso a vedere questi gruppi non vengono nemmeno i loro amici. Qualche anno fa quando al Covo suonava, ad esempio, un gruppo italiano indie era naturale avere tra il pubblico tanti musicisti che abitavano in città. Ad esempio se suonavano i One Dimensional Man qualche componente dei vari Yuppie Flu, Julie’s Haircut, Cut, Three Second Kiss, Settlefish, Giardini di Mirò c’era sempre. E parliamo di gente che veniva spessissimo a vedere concerti in generale. C’era interesse nel vedere quello che facevano gli altri, ed in questo modo si era creata una piccola scena che si supportava in tutta Italia”. Oggi questo accade sempre meno, tanto che “la maggior parte dei gruppi che ci chiede di suonare spesso non sono mai venuti a vedere un concerto al Covo. Quello che penso è che le band devono capire che se vogliono che gli sia data una chance per suonare devono sbattersi, devono coltivarsi un pubblico e per farlo devono essere loro i primi ad andare a vedere gli altri, non basta mettere parteciperò ad un evento Facebook”.

Insomma se il circuito live è in crisi dovrebbero essere i musicisti, soprattutto giovani, i primi a supportarlo, a fare da ‘zoccolo duro’ del pubblico, anche perché è proprio andando a vedere altre band suonare dal vivo che si possono prendere spunti per la propria arte, intessere rapporti, creare sodalizi musicali, fare rete e aiutarsi a vicenda ad emergere. In tutto questo contesto abbastanza disastrato, la formula trovata dal Covo per andare avanti è quella di guardare alla musica senza ragionare troppo (per quanto possibile) sul ritorno economico delle proprie scelte: “So che sembra banale, ma davvero facciamo tutto solo per amore del nostro locale e della ‘nostra’ musica. Il Covo nasce come un locale creato da ragazzi super appassionati di musica e deve continuare su questa strada, anche se cambiano facce e nomi di chi poi prende le decisioni. Credo sia molto importante lavorare in squadra, ho la fortuna di lavorare con un gruppo di ragazzi straordinari con cui mi confronto in continuazione e che sicuramente influenzano le mie scelte. Detto questo, dobbiamo anche fare i conti con il fatto che operiamo in un paese in crisi economica, ed onestamente credo sarà sempre più difficile riuscire a creare situazioni che offrano così tanti concerti importanti reggendosi solamente sugli introiti del bar o dei biglietti di ingresso, che in occasioni come quella del Bolognetti Rocks è ad offerta libera”.

La discografia oggi (M.Balestra, L.Fantacone, R.Trinci)

70-style-record-playerSe state leggendo queste pagine quasi certamente siete musicisti, molto probabilmente giovani, con un progetto musicale avviato o ancora chiuso in sala prove. E sicuramente vi starete domandando: come faccio a farmi notare, a trovare un’etichetta, a portare la mia musica alle persone? In questo articolo cercheremo di fare un quadro della situazione attuale nella discografia, per cercare di capire quali sono ad oggi i suoi meccanismi e come muoversi al loro interno.

“Scovare un artista oggi è complesso, dato il numero esagerato di giovani in evidenza tra talent, rete e live”, ci racconta Marcello Balestra, “Ma specialmente per la tipologia diversa di artisti che si propongono per stile, lingua, linguaggio e potenzialità commerciali o comunicative”. In misura proporzionale alla moltiplicazione dei canali comunicativi e delle occasioni per farsi conoscere, è quindi aumentato anche il rumore di fondo: un ‘rovescio della medaglia’ che ha in parte annullato gli effetti positivi del vero e proprio bagno di musica in cui siamo immersi negli ultimi anni. A pensarci, infatti, prima dell’avvento dei vari talent show c’era molta meno musica nella televisione generalista. Il problema è che sono diventati gli unici interlocutori delle grandi major, in parte a causa della contrazione del mercato discografico e in parte per l’arretratezza culturale fisiologica del nostro Paese. Nelle parole di Roberto Trinci: “In altri paesi con una cultura musicale diversa, l’editore può essere il primo a lanciare una promozione sincronizzando un brano in una pubblicità o in un film. Se la cosa funziona salterà fuori un discografico che si interessa a quel brano, e da lì potrebbe nascere un contratto discografico e la relativa promozione. Purtroppo, invece, in Italia le case di produzione (televisive, cinematografiche e pubblicitarie) di solito chiedono hits o nomi già consolidati, per cui questa strada è molto difficile da percorrere”.

Quindi l’unica possibilità per promuovere un nuovo progetto è convincere un discografico a lavorarci sopra, sempre che l’artista in questione abbia già dei risultati alle spalle, una carriera già avviata. “Sono convinto che ormai le multinazionali discografiche abbiano ben poche possibilità di lanciare effettivamente un artista esordiente, se non passando da uno dei talent show in corso”, spiega sempre Roberto. “Le case discografiche ormai non investono più su artisti effettivamente esordienti, ma solo su artisti che abbiano saputo già trovarsi un pubblico, tramite un talent televisivo o tramite un’attività live di successo”. Insomma, in uno scenario in cui anche a detta di Balestra “non sono più le major a fare il mercato, ma a comprarsi i piccoli o medi attori sul mercato” per un emergente che vuole agganciare una casa discografica importante è indispensabile ‘farsi notare’ prima dal pubblico. Però non volendosi giocare la ‘carta’ del talent show, quali alternative rimangono? Quella di maggiore impatto è sicuramente il live, la gavetta ‘vecchia maniera’ insomma, anche secondo Roberto Trinci, per il quale il live è ad ora “l’unica vera promozione per un artista esordiente che non voglia passare da un talent. Lo provano esempi recenti come Dente, Brunori Sas, Lo Stato Sociale, Le Luci Centrale Elettrica: tutti artisti che sono diventati quello che sono da soli, senza che nemmeno un’etichetta indipendente ci abbia messo una lira, anzi molti si sono creati la propria etichetta”.

E allora le etichette e le major a cosa servono? O meglio, servono ancora? Meglio pensare a crearsi il proprio percorso senza attendere un ‘aiuto’ discografico, che può al limite ‘aiutare’ a fare un salto di livello in un secondo momento. “L’etichetta o la major hanno sicuramente un vantaggio in esperienza e nel gestire nel tempo il percorso di un artista. Vero è che se queste entità non si impegnano nel fare grandi sforzi per sostenere un progetto nuovo, tanto vale fare da sé, utilizzando i Social e il Web in modo organico, e credendoci molto di più di quanto un’etichetta possa fare” conferma Balestra, “Bisogna però cercare di capire l’entità del progetto che propone, la sua potenzialità reale, poi decidere di chi si può o si deve aver bisogno. Il potenziale del progetto non è facile da capire da soli, ma ci si può far aiutare da esperti del settore, che possono indirizzare il progetto con o senza etichetta”.

Se rimboccarsi le maniche e mettersi in proprio a questo punto non vi sembra più una cattiva idea, Internet diventerà per forza il vostro principale canale promozionale per un emergente: economico, massivo, accessibile. Il problema è che è ormai talmente saturo di musica, di nuovi artisti, di blog e webzine che parlano di musica, che farsi notare da un pubblico distratto come quello del Web al giorno d’oggi non è per niente facile. Anche a costo di regalare totalmente la propria musica per fare in modo che più gente possibile abbia modo di ascoltarla, e con la consapevolezza che comunque avere un ritorno economico dalla vendita (anche digitale) del proprio disco sia quasi impossibile.

“Ci troviamo nel bel mezzo di un momento epocale, di un netto cambiamento di modalità di consumo di musica e di tutte le attività che ruotano intorno ad esso” spiega Luca Fantacone. “Esattamente come quando iTunes cominciò a diventare importante in Italia, il modello di consumo e di business ora sta cambiando profondamente in favore dello streaming, e l’impatto che Spotify e i maggiori servizi di streaming hanno sul mercato sta cambiando le regole del gioco. Questo non vuol dire: ‘non si vendono più i CD’, ma ‘si consumerà sempre più musica in streaming’”. A fronte di un’opinione così entusiastica bisogna però dire che si vendono pochi dischi, e che si è ancora ben lontani dal poter ottenere un introito dallo streaming: “Spotify o YouTube (che indubbiamente sono i ‘posti’ dove effettivamente gira la musica oggi) sono purtroppo calibrati sui mercati internazionali, per cui un artista pop internazionale con milioni di visualizzazioni può avere un ritorno economico, ma non un artista locale di buona popolarità”. Questo secondo Roberto Trinci, per il quale “sarà senz’altro necessario ricalibrare nei prossimi anni il modello economico di queste imprese e i contratti che intercorrono tra i soggetti del mercato musicale per fare in modo che tutte le parti in causa (autori e interpreti, editori e discografici) possano vedere riconosciuto anche economicamente il successo del loro lavoro”.

Quindi, in conclusione, cosa ci rimane? Un quadro di un sistema frammentato, che sta ancora cercando un equilibrio economico e in cui è sempre più importante per un musicista, oltre a saper suonare e scrivere canzoni, anche saper fare (bene) tutto il resto: promuoversi, organizzare concerti, saper dialogare con i fan, crearsi un pubblico, un’immagine. Oppure mettersi in gioco in qualche talent televisivo. Tutto questo sempre tenendo a mente, ci sentiamo di dirlo, di rimanere sinceri e fedeli alla propria arte, senza inseguire le mode del momento: perché al di là della qualità artistica o del genere o del gusto, nulla colpisce di più che vedere un artista che si diverte nel suonare e crede in quello che fa.

Jet Leg: Effemeridi

jet-legOK“Le effemeridi sono fondamentali per trovare immediatamente gli astri nel cielo, pianificare osservazioni a lungo e breve termine e identificare gli stessi astri presenti nel campo di osservazione dello strumento”. Nel caso dei Jet Leg, quintetto modenese nato nel 2012, “Effemeridi” più che uno strumento per studiare la volta celeste può essere una colonna sonora per guardare le stelle in una sera d’estate. Per quanto le influenze dichiarate dalla band stessa siano marcatamente funk e soul (Jamiroquai, Red Hot Chili Peppers e James Brown i nomi citati sul loro sito web) il risultato in questo primo EP è assolutamente pop: brani orecchiabili e solari, che ammiccano alla radio e al grande pubblico, con una scrittura da mettere a fuoco in particolare nei testi, di una leggerezza forse eccessiva nascosta dalla lingua inglese. Il brano più riuscito risulta la conclusiva “Rise”, dove finalmente l’anima funky dei Jet Leg fa sentire più la sua voce: un ottimo spunto per le prossime produzioni del gruppo.

(Autoprodotto) CD

Le parole dei valutatori: Giampiero Bigazzi

untitledCosa significa essere un produttore artistico e un discografico?

“Il ruolo del produttore artistico è importante. Salvo che l’artista non abbia la capacità di “sdoppiarsi” fra essere l’interprete (e spesso anche l’autore) e il “supervisore” del proprio lavoro. Il produttore, infatti, ha un ruolo di coordinamento artistico e musicale dell’opera, ma di solito ne è anche il regista, l’arrangiatore e l’ispiratore. Quindi con un importante ruolo creativo, a fianco e in condivisione con i musicisti. È un ruolo utile, perché un orecchio, una sensibilità e anche un occhio esterno spesso sono necessari a chi crea la musica. Solitamente è anche il collegamento con chi registra e stampa il disco. Il discografico è la figura che realizza in modo esecutivo l’opera musicale. La promuove e, se gli riesce sotto questi chiari di luna, cerca di commercializzarla. Secondo noi di Materiali Sonori il discografico non deve essere solo un “ragioniere”, ma anch’esso un artista che ragiona”.

Cosa ti deve colpire al primo ascolto?

“Personalmente sto molto attento all’esecuzione, alla precisione, all’intonazione, agli arrangiamenti e alla struttura dei brani. Forse non è un buon approccio, ma è la prima cosa che ascolto. È una specie di “vizio” dovuto dalla lunga frequentazione della musica contemporanea e classica. Poi ovviamente ci deve essere lo spessore del progetto. L’originalità invece può essere un optional”.

Quale consiglio puoi dare a un giovane che inizia a suonare?

“Studiare, studiare, studiare. Non accontentarsi. Migliorare sempre. Fare gavetta. Suonare dal vivo. Registrarsi sempre, riascoltarsi e riflettere. Correggersi di continuo. Ascoltare più musica possibile. Essere curiosi. Ma poi fare le proprie scelte”.

Le nuove tecnologie (social network, MP3, ecc.) aiutano l’artista? Se sì, come credi che debbano essere utilizzate?

“È una buona opportunità. Oggi fondamentale. Insieme alla musica dal vivo, le due cose spesso s’intrecciano. I social vanno sfruttati pienamente. Tutti. Ma ovviamente non dovrebbero essere la partenza e l’arrivo del progetto. Perché se uno cammina restando sempre nello stesso punto, alla fine si scava una buca. Far vivere un progetto vuol dire anche confrontarsi con il pubblico vero, di persone reali. Inventarsi e mantenere rapporti diretti. E alla fine è la musica che vince. L’idea, la sua realizzazione. Spesso chi non raggiunge il successo trova un sacco di scuse: colpa della distribuzione, della promozione, del booking. Invece, quasi sempre, se non funziona, è colpa del progetto”.

Come vedi il futuro della musica (in generale) e di quella registrata (nello specifico)?

“Il problema è nelle capacità di “vendita”, non di diffusione e tanto meno di creazione. Queste crescono a dismisura, proprio grazie al digitale che invece è la tomba delle possibilità commerciali della musica registrata. Diciamo che la musica dal vivo, i concerti fatti da persone in carne, ossa, nervi, corde vocali e sudore, non si possono scaricare, si possono registrare o filmare e mettere in un file ma non è la stessa cosa”.

Un tempo l’esigenza di fare musica sembrava legata a un bisogno interiore dell’artista, oggi sembra più legata all’aspetto “figo” del fare musica e all’eventuale successo.

“E’ stato sempre così, diciamocelo, già quando ero poco più che adolescente mi era facile trovare fidanzate perché suonavo, è il fascino dell’artista. Oggi potrei dire che c’è un inizio e uno sviluppo (e quasi mai c’è una fine) nel fare musica, nel motivo per cui una persona si mette a scrivere musica e provare a trasmetterla al pubblico. L’inizio può essere, adesso come lo era anche 40 anni fa, perché fa “figo”. Poi c’è chi rimane su questa lunghezza d’onda e chi matura piano piano l’idea che si sta facendo arte. Ci si esprime con essa. E matura l’idea che questo possa essere un lavoro. Perché il mondo – per non morire – ha bisogno di musica, di arte e di bellezza. Ma detto questo non trascurerei l’elemento “divertimento”. Fondamentale come d’altronde il godimento che si prova nel suonare, comporre, cantare”.

Perché in Italia non si è mai creato un bacino numeroso d’ascoltatori rock come in altri Paesi (Germania, Francia, UK)?

“Non saprei, forse perché siamo ancora il Paese del Bel canto? O più materialisticamente non si è fatto nulla, nei decenni, per facilitare la diffusione della musica rock. Dico come facilità di organizzare, progettare, creare reti. Le istituzioni (e ci metto anche la televisione e la Siae) non hanno aiutato. Anzi spesso hanno boicottato. Noi siamo l’unico Paese nel mondo, dico nel mondo, ad avere una cosa come il Festival di Sanremo, quando lo raccontiamo ai nostri amici giapponesi, messicani, americani (ma anche belgi) non riescono neppure a capire di cosa si tratta”.

Oggi sembra ancora reggere l’aspetto legato ai concerti. Da musicista, produttore, discografico com’è cambiato il live?

“I concerti sono fondamentali. Anche se la crisi morde pure questo settore e le occasioni diminuiscono, ma ce ne sono ancora molte e poi uno se le inventa. Il live è cambiato nel senso che tutto è molto più professionale di quanto lo fosse venti anni fa. E questo aiuta la crescita dei giovani talenti, che devono insistere, anche se è sempre più difficile in questa fase: ma la cosiddetta “gavetta” è importantissima”.

Che cosa deve trasmettere una canzone in chi la ascolta?

“Una canzone deve raccontare. Sentimenti, stati d’animo, storie. Deve essere “semplice”, perché è la sua cifra stilistica e deve trasmettere essenzialità. Quando questa capacità di sintesi custodisce la profondità della narrazione e dei colori che si è voluto rappresentare, si catturano l’attenzione e i sentimenti di chi ascolta. In più, per quanto mi riguarda, resto legato molto anche a una cosa che ritengo necessaria, anzi urgente: la melodia”.

Ha senso pubblicare un supporto discografico (anche sottoforma di file) in questo periodo storico?

“Oggi viviamo una generalizzata, enorme, diversificazione degli strumenti di diffusione della musica. Non c’è più un supporto solo, come lo è stato per molti decenni. E c’è comunque una prevalenza di valore nella musica dal vivo. Quindi sembrerebbe quasi superfluo “fare un disco”. Ma non è così, penso al teatro e provo a fare un confronto… il disco è come il copione per il teatro. Fare un disco oggi (operazione fra l’altro molto più onerosa che stampare un libro) vuol dire dare il via a un progetto musicale che poi si sviluppa nelle “recite” (i concerti) dal vivo e cresce nella sua diffusione sui palcoscenici. Il disco è anche una forma di promozione del progetto stesso, un multiplo che spesso vive principalmente nella dimensione digitale on line. Ma resta un’opera d’arte, l’inizio e il cuore pulsante della produzione musicale”.


Giampiero Bigazzi
Produttore, editore, compositore, autore e musicologo, ha cominciato a suonare nel 1968 e ha legato il suo nome a quello dell’etichetta Materiali Sonori. Più “organizzatore di suoni” che musicista, ha collaborato con importanti artisti e band fra i protagonisti della musica indipendente e di ricerca in Italia e nel mondo. Scrive, organizza festival, mette in scena spettacoli di narrazione e di teatro minimo musicale.

Le parole dei valutatori: Roberto Trinci

untitledIniziamo dalla base: cosa significa oggi fare l’editore, rispetto a dieci anni fa?

“Al giorno d’oggi essere editore significa ritrovarsi al centro del nuovo mercato musicale, un mercato che non si basa più sulla vendita del supporto fonografico, ma che si sorregge su fonti di introito differenti. E tutto questo senza in compenso avere ancora i mezzi e le persone necessarie per sostenere questa rinnovata mole di lavoro”.

Quali sono le dinamiche che hanno fatto cambiare così tanto il mercato discografico, e quali conseguenze questo ha avuto sul tuo lavoro?

“Il motivo che sta alla base di tutti i cambiamenti avvenuti ultimamente è che ora si può “consumare” musica senza pagarla, quindi il mercato si è decisamente ristretto. Questa novità epocale ha avuto risvolti negativi, perché ci sono sempre meno tempo e soldi per sviluppare progetti nuovi, ma anche lati positivi, nel senso che in un mercato di questo tipo conta molto di più il pubblico reale e molto meno le strategie marketing adottate dalle major”.

Con l’evolversi del digitale, del web 2.0 e della musica liquida, per le case discografiche secondo te si sono aperte più possibilità oppure si è solo ristretto il margine di guadagno?

“In realtà sono successe entrambe le cose. E’ vero che il guadagno si è sensibilmente ristretto, ma contemporaneamente si sono anche diversificate le fonti da cui questo guadagno deriva. Il risultato più che altro è che tutto è molto frazionato e quindi anche più complicato da gestire”.

Quindi come vedi in generale il futuro della musica?

“Credo che il futuro della musica sarà buono, non penso proprio che la musica possa dirsi in pericolo. Anche se poco ma sicuro cambieranno ulteriormente le aziende che regolano il settore discografico e il modo che hanno di generare un fatturato che gli permetta di sostenersi, e di continuare a proporre nuovi artisti”.

Di sicuro una prima strada percorsa è stata quella dei Talent Show, che permettono alle case discografiche di sfornare ogni anno interpreti dal successo più o meno assicurato.

“In realtà a ben guardare i Talent Show inseriscono nel mercato musicale al massimo uno o due interpreti significativi all’anno, quindi non ritengo che abbiano cambiato un granché la situazione. In compenso offrono opportunità di lavoro per gli autori, e questa è la vera novità”.

Per la tua esperienza, ad ora quanti musicisti raggiungono ancora il successo dalla gavetta o dal mondo indipendente, e quanti invece attraverso talent show e simili?

“Diciamo che il rapporto è ancora a favore di cantautori e gruppi indipendenti che fanno il proprio percorso partendo dalle basi, dai concerti, dai locali. Alla fine la porzione di interpreti che arriva al successo attraverso i Talent è ancora abbastanza ridotta, quasi nemmeno un terzo del totale”.

Eppure ora come non mai sembra che il mondo indipendente e quello major non si incontrino, lavorino a compartimenti stagni. E che in compenso chi riesce a passare a una notorietà più ampia finisca a fare la parte del “venduto”…

“In realtà la mia impressione è proprio opposta, e che mai come negli ultimi anni indipendenti e major abbiano lavorato insieme. Basta guardare casi come quelli di Baustelle, Subsonica, Dente, Le Luci della Centrale Elettrica, Il Teatro degli Orrori… L’importante certo è che un artista nel momento in cui comincia a lavorare con le majors non inizi immediatamente a parlar male di quello che si è fatto fino a quel momento”.

Quale consiglio ti sentiresti di dare ad un giovane musicista che vuole arrivare a una major?

“L’unico consiglio che mi sento di dare è di darsi da fare per trovare un pubblico, perché solo quando hai già un pubblico, un tuo seguito, una major può essere coinvolta. Una volta era la major a occuparsi di “trovare” il pubblico a un artista, ora purtroppo non è più così”.

Quindi normalmente come entri in contatto con i nuovi artisti con cui lavori?

“Spesso mi capita di leggerne bene sulle riviste specializzate o sui Social Network, vado a verificare cosa trovo in rete e dopo aver ascoltato del materiale, se condivido i giudizi positivi che ho letto, mi metto direttamente in contatto con loro”.

Nel fare il discografico senti una sorta di responsabilità, come se stessi contribuendo a scrivere la storia della musica, o è una roba da film sul rock anni ’70?

“Beh, io in particolare questa responsabilità la sento e infatti cerco di non spingere mai cose che non approvo. In realtà però ormai il pubblico reale conta, per fortuna, molto più delle major e di chi lavora al loro interno quindi diciamo che la mia è una responsabilità limitata…”.

Lancio il sasso e nascondo la mano: da editore, se puoi, un commento sulla SIAE. Giusto perché nella sua storia più recente non è stata esente da scandali, moltissimi artisti soprattutto giovani iniziano a vederla sempre più come un monopolio opprimente piuttosto che come una fonte di tutela della propria opera.

“Mi limito a commentare che, diversamente da come pensano molti artisti, una SIAE funzionante sarebbe estremamente preziosa per tutti… Purtroppo però non sempre si ha la sensazione che riesca a sviluppare tutte le sue enormi potenzialità”.


Roberto Trinci
Laureatosi nel 1991 con il massimo dei voti ed una tesi sull’utilizzo delle perversioni sessuali nel marketing discografico, consegue un Master in Business Comunication presso Cà Foscari e dal ’94 inizia a lavorare come band manager per Elio e le Storie Tese e label manager di Casi Umani, Psycho Records, Casasonica. Head of A&R in BMG Music Publishing dal 1997, nel 2005 diventa Direttore Artistico di EMI Publishing Italia, oggi Sony/emi Publishing. Ha firmato e scoperto, tra gli altri: TARM, Subsonica, Baustelle, Dente, Zen Circus, Il Pan del Diavolo, Perturbazione.