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Le parole dei valutatori: Carlo Bertotti

untitled“Tricarico qualche anno fa ha scritto che la musica lo aveva salvato.

Ecco, in qualche modo potrei dire la stessa cosa: negli anni in cui la politica era ancora un ideale, quando indossare certi capi di vestiario o frequentare un certo locale determinava la tua appartenenza ad una data “tribù” la musica mi ha salvato. Dalle botte, dalla noia, dalla famiglia, dal conformismo.

Il concetto di “fare musica” negli ultimi decenni è cambiato radicalmente. Fino alla fine degli anni ‘80 si scriveva musica e si suonava, con un gruppo o da soli, in sala prove o in cantine umide.

Amplificatori, chitarre e synth si avvicendavano a seconda dei generi e i punti di riferimento erano artisti che hanno fatto la storia della musica e non intuizioni da un album e via come spesso accade nel terzo millennio.

La musica si comprava, non si rubava. Un album in uscita di un artista di cui eri fan lo assaporavi settimane prima e quando lo avevi tra le mani consumavi la copertina rileggendoti i crediti e guardandoti le foto a loop.

Dai novanta in poi la tecnologia ha determinato una frattura: da una parte chi ha continuato a fare musica come prima, dall’altra chi ha cominciato a usare le infinite possibilità di computer e campionatori per emanciparsi e creare in autonomia il proprio progetto. Tutto normale: qualcuno direbbe evoluzione della specie anche perché questa nuova impostazione di lavoro ha permesso l’affermazione di artisti di caratura mondiale.

Peccato però che le derive di questa “democrazia tecnologica” abbiano portato alla nascita di una modalità di fare musica del tutto differente. Quando ho cominciato a sentir dire a giovincelli trendy che la sera andavano a “suonare” in un locale armati di una borsa piena di cd e un paio di vinili ho capito che c’era un problema.

Faccio un distinguo: i deejay non sono una categoria da mettere all’indice. Qualche pezzo che senti alla radio non è neanche malaccio, per carità. Ma non venitemi a dire che un cappellino da baseball calcato all’incontrario sulla capoccia, un paio di tatuaggi, un mixerino e la borsa di cd che ti porti a tracolla fanno di te un musicista. Perché non è così, la musica è altro, scrivere musica è altro. Caparezza ha scritto “più stratocaster e meno dj”. Ecco, appunto.

Un giorno, nei primi anni ‘90 un mio caro amico discografico mi raccontò che un membro di un importante gruppo della mia stessa etichetta (gente che vendeva ai tempi parecchi album) gli aveva detto che avrebbe voluto scrivere una colonna sonora. Figo. Peccato che non sapeva neanche cosa fosse una nota, il suo mestiere nel gruppo presso cui militava consisteva nel far girare cd su cui l’altro tipo rappava. Ha anche tentato in seguito una carriera solista durata lo spazio di una stagione, forse meno. Mi sono sempre chiesto perché qualcuno avesse tirato fuori soldi per una minchiata epocale come quella, ma in questo Paese funziona così, anzi funzionava così perché adesso hanno finito i soldi.

Ho cominciato a seguire giovani artisti quando ho smesso di stare su un palco, ci si scrive, si confrontano idee e si danno consigli. Poi ognuno segue il suo istinto.

Ma a chi vuole fare musica oggi, a chi crede che la cosa lo faccia stare bene suggerisco un’unica cosa: prendete quello che vi serve, vestiti, strumenti, un po’ di soldi. Salutate a casa e prendete il primo aereo con destinazione a piacere. Il nord Europa, l’Australia, gli Usa, dove c…. volete ma andatevene di qui.

In Italia non si può fare. Non esiste la benché minima possibilità che ce la possiate fare. Potete avere il talento più cristallino, le idee più innovative, un carisma monumentale ma nulla vi salverà dall’indifferenza e dalla frustrazione ma soprattutto dall’insipienza di chi la Musica la dovrebbe proteggere e far crescere. Guardatevi da discografici, manager, direttori “artistici”, impresari, da chi lavora nelle radio, dai pennivendoli e imbrattacarte di chi scrive di musica e non ne sa nulla.

Quelli bravi hanno smesso da tempo oppure hanno lasciato da parte entusiasmi e ideali e pensano che dopotutto c’è ancora un mutuo da pagare o una ex moglie da mantenere.

Io non credo in un Paese dove le etichette più importanti investono ormai quasi unicamente su chi esce da un talent show.

Non credo a promoter che propongono date a rimborsi spese ridicoli o spesso inesistenti.

Non credo alle radio che fatturano cifre da capogiro grazie alla pubblicità e trasmettono musica da rincoglioniti.

Non credo più ad un Paese che non protegge un bene fondamentale come la cultura.

Pochi giorni fa una mia amica mi ha detto che gli hipster sono i mod del nuovo millennio. Volevo ammazzarmi perché probabilmente aveva ragione e questo spiega tutto.

Ma per questa volta metto da parte i barbiturici e soprassiedo: ho un mutuo da pagare e una ex moglie da mantenere anche io.

Ps: rileggendo queste righe sembra abbia un conto aperto con rap e hip hop. Niente di più sbagliato. Dai De la Soul ai Beastie boys la lista di chi fa bene questo mestiere è lunga. Anche in Italia. Un esempio: Salmo.

Una spanna sopra tutti”.


Carlo Bertotti
Autore, produttore e musicista, inizia la propria attività nei primi anni ’90 come compositore di musiche per cortometraggi e pubblicità. Nel 1996 fonda i Delta V insieme a Flavio Ferri, formazione con cui scrive e produce 6 album durante il decennio successivo. Parallelamente ha scritto e remixato brani per molti artisti italiani (Ornella Vanoni, Garbo, Alex Baroni, Baustelle, Angela Baraldi), e ha collaborato con Neil Maclellan (produttore di Prodigy e Nine Inch Nails), JC001 (Nitin Sawhney, Le Peuple de l’Herbe), Roberto Vernetti (La Crus, Elisa, Ustmamò).

I Live di Sonda visti da voi: Natan Rondelli

NATAN RONDELLI

Estragon, 22/02/2014 – main guest Anna Calvi

Natan-Rondelli-Band-@-Estragon-Club-2014---francesca-sara-cauli-_01-OKNatan Rondelli (da Bologna) ha giocato in casa, presentandosi insieme alla sua band per aprire un concerto organizzato dal Covo Club presso l’Estragon. L’headliner era Anna Calvi, cantante inglese di successo internazionale. Natan si è, infatti, esibito davanti ad un Estragon bello pieno, lasciando negli spettatori belle emozioni e un dubbio che ci racconterà lui stesso. “Ovviamente conoscevo l’Estragon, locale nel quale avevo già assistito a vari concerti, ma non ci avevo mai suonato. Sapevo chi era Anna Calvi ma l’occasione di aprire un suo concerto mi ha spinto ad ascoltare le sue canzoni in maniera più approfondita, pensando che la sua musica e di conseguenza il suo concerto potevano essere molto in linea con il nostro. Gli organizzatori sono stati fin dal nostro arrivo assai disponibili nei nostri confronti. Con Anna Calvi e i suoi musicisti ci siamo salutati sul palco nella fretta del soundcheck. Il pubblico dell’Estragon ha risposto molto bene alle nostre canzoni, anche perché credo che fosse la platea e il locale giusto per la nostra musica. Questo aspetto di Sonda, la possibilità di aprire ad artisti più affermati, è un’iniziativa molto importante per “spingere” gli artisti emergenti in un locale o evento nel quale non hanno ancora potuto mettere piede, con tutto quello che può comportare in termini di esperienza, nuove conoscenze e visibilità. Non ci sono particolari aneddoti sulla serata. Se non che per un paio di canzoni ho lasciato il dubbio nel pubblico di essere arrivato direttamente con il pullman nero e con i vetri neri di Anna, ringraziando in inglese. Per noi rockers i chilometri percorsi per arrivare al concerto portano sempre qualche applauso in più”.

Le Parole dei Valutatori: Marco Bertoni

marco-bertoniokChe cosa significa fare il produttore artistico?

“Fare il produttore artistico per me significa affiancare l’artista nella fase di realizzazione del suo prodotto. Cioè passare dall’idea originale dell’artista a qualcosa di organizzato, definito e messo a fuoco per meglio comunicare/vendere le intenzioni dell’artista”.

Com’è cambiato il tuo mestiere in questi anni?

“A livello tecnico è cambiato ovviamente con l’utilizzo massiccio del computer. Quindi il passaggio dall’analogico al digitale. Per poi tornare al giorno d’oggi dove si usano insieme oramai ambedue le tecnologie. Nel mio studio cablato con pro tools ho un mixer del 1975. I microfoni sono del ‘72. A causa dei budget sempre più bassi, se una volta il produttore era affiancato da un fonico e da un assistente fonico, adesso molte produzioni le seguo interamente io anche come fonico, dalla sala prove al mastering finale. Con il dissolvimento della vecchia industria discografica, nella filiera della produzione musicale il ruolo del produttore artistico ha resistito. Cioè serve ancora un professionista che sappia fare realizzare all’artista il suo prodotto sia tecnicamente sia artisticamente. Se una volta erano le case discografiche a ingaggiarmi ora sono le collaborazioni con gli artisti che mi permettono di essere pagato per quello che faccio”.

Come trovi gli artisti con cui lavori?

“A dire il vero sono loro che trovano me. Però devo dire che sono molto felice che alcune delle ultime cose che ho realizzato le ho fatte insieme a artisti conosciuti grazie a “Sonda” (e anche noi ne siamo felici N.d.R.). Un giorno mentre registravo il cd di un artista di nome Megahertz, è entrato in studio un suo conoscente, uno strano ragazzo, curioso e volenteroso di conoscermi, sarebbe diventato Bob Rifo aka Bloody Beetroots. I Motel Connection mi telefonarono”.

Cosa ti deve colpire al primo ascolto?

“La volontà di esistere”.

Le nuove tecnologie (social network, MP3, ecc.) aiutano l’artista? Se sì, come credi che debbano essere utilizzate?

“In generale aiutano l’artista tanto quanto aiutano tutti noi. Sono degli strumenti che ci mettono in contatto con il mondo e questo da un punto di vista anche professionale è utile. Dal punto di vista artistico è uno strumento ancora poco utilizzato a livello creativo. Se però si pensa che grazie a internet possano uscire nuove star musicali siamo parecchio lontani”.

Come vedi il futuro della musica (in generale) e di quella registrata (nello specifico)?

“La musica in generale come suono e suono prodotto dall’uomo non ha bisogno di futuro, fa parte di noi e della nostra natura e sempre ci accompagnerà. Se si parla di musica commerciata, stiamo vivendo un momento abbastanza stagnante. Rimane il fatto che registrare musica è una cosa entusiasmante, quasi magica. Ma che la musica possa ancora veicolare energia fresca ho qualche dubbio”.

Che cosa deve spingere una persona a fare musica? Tu perché hai deciso di iniziare?

“Io ho iniziato perché da piccolo ho visto alcuni concerti che mi entusiasmarono e mi fecero sentire che succedeva qualcosa suonando. Come dicevo prima la musica è parte della nostra natura, e ci sta che qualcuno di noi trovi un suo modo creativo ed espressivo suonando”.

Ha senso pubblicare un supporto discografico (anche sottoforma di file) in questo periodo storico?

“Ha senso per i collezionisti di vinili (il vinile) e per i banchetti dei concerti (il cd). In generale è proprio la parola “pubblicare” che ha cambiato significato pratico, no?”.

Che cosa deve trasmettere una canzone?

“Quello che l’ascoltatore ritrova di sé, e da lì portarlo da qualche parte”.

Un tempo l’esigenza di fare musica sembrava legata a un bisogno interiore dell’artista, oggi sembra più legato all’aspetto “figo” del fare musica e all’eventuale successo.

“L’aspetto “figo” del fare musica è sottolineato anche dalle musiche di tanti gruppi, molto più attenti a sembrare qualcosa piuttosto che a cercare qualcosa. Il successo per come lo intendi tu a mio parere non esiste più, anche “l’essere famoso” ha cambiato abbastanza valore. Rispetto al “bisogno interiore”, ogni musica ha una funzione: se devo far ballare, faccio musica che è una danza e se la gente balla vuole dire che l’ho fatta bene, ma questo è creare qualcosa con uno scopo pratico, non per soddisfare una necessità interiore”.

Perché il mercato discografico si è così contratto negli anni? La colpa di chi è?

“Napster? 🙂 In generale il mercato è sempre tale, solo che non è più discografico. I soldi li fanno/hanno i produttori di hardware. L’ultimo disco degli U2 “distribuito” e “regalato” da Apple mi sembra un ottimo riassunto”.

Per scrivere una hit esiste una formula magica?

“Non credo. Secondo Casadei ha scritto “Romagna mia” che è la canzone italiana con più introiti SIAE nel mondo. L’aveva chiamata “Casetta mia” ed era una canzone come le altre, per lui”.

marco-bertoniokNato a Bologna nel 1961, inizia a 16 anni a suonare fondando il Confusional Quartet, gruppo storico della “new wave italiana”. Dopo quell’esperienza inizia a lavorare a progetti di musica contemporanea (uno su tutti il lavoro di ricerca sulla voce umana, che coinvolge le voci di Carmelo Bene, Kathy Berberian e Demetrio Stratos) e di musica leggera (con Lucio Dalla, Gianni Morandi, Angela Baraldi, Bracco di Graci, Gianna Nannini). Produce poi Motel Connection, Maccaroni Circus, il primo lavoro di Bob Rifo, collabora con diversi top dj e cura remix per artisti come Morgan, Jovanotti, The Simple Minds, Raiz, Subsonica. Ha collaborato, infine, come arrangiatore per lo Zecchino d’Oro e ha scritto colonne sonore per il cinema, la tv e la radio. Oltre all’attività con il Confusional Quartet, continua oggi il lavoro di produttore musicale nel suo studio.
 

 

I Live di Sonda visti da voi: Divanofobia

DIVANOFOBIA

Calamita, 29/03/2014 – main guest Maria Antonietta

divanofobia2okI bolognesi Divanofobia sono stati catapultati sul palco del Calamita per aprire un concerto della cantautrice pesarese Maria Antonietta. “Conoscevamo di nome il Calamita ma non ci eravamo mai stati, come conoscevamo la musica di Maria Antonietta e considerando la peculiarità della nostra musica, il suo progetto artistico tutto sommato era in linea con il nostro stile, testi in italiano e ambiente cantautorale. Al nostro arrivo i gestori del Calamita ci hanno accolto e mostrato i camerini. Con Maria Antonietta e i suoi musicisti ci siamo confrontati sulle nostre realtà musicali sia durante il soundcheck e la cena sia dopo il concerto. Aprire a un artista più affermato è sempre una circostanza particolare. Le persone vengono soprattutto per l’artista headliner. Questo però non ci ha penalizzato: siamo stati molto applauditi e siamo rimasti soddisfatti. L’iniziativa creata da Sonda è sicuramente lodevole e utile per una band emergente. Il confronto con il pubblico e con gli altri artisti permette di fare alcune riflessioni importanti all’interno della band, per quel che riguarda l’arrivare al pubblico con le proprie canzoni e anche per riflettere sulla propria resa live. In sé l’iniziativa non crediamo sia propriamente migliorabile, è importante che essa sia inserita, come il Centro Musica già fa, all’interno di un progetto più ampio, che veda la band confrontarsi anche con gli aspetti produttivi artistici e di promozione. Un aneddoto memorabile legato alla serata non c’è. Però i momenti in cui abbiamo caricato gli strumenti nel montacarichi del locale e quello del brindisi nel backstage con gli altri musicisti rimangono sicuramente nella nostra memoria”.

Le Parole dei Valutatori: Daniele Rumori

rumori-okParliamo della tua esperienza al Covo Club. Cosa significa oggi, fare il direttore artistico?

“Di base significa provare ad interpretare i gusti del pubblico e cercare di essere sempre aggiornati su quello che succede nel mondo musicale. Credo sia necessario essere molto curiosi e vogliosi di scoprire musica nuova. Nel mio caso, essendo il Covo un locale storico, significa anche rispettare un’importante tradizione e provare a dettare la linea, cercare cioè di arrivare prima degli altri su quelle che saranno le nuove sensazioni del nostro micro mondo”.

Di solito come entri in contatto con gli artisti con cui poi scegli di collaborare?

“Il nostro rapporto è soprattutto con le agenzie. Abbiamo la fortuna di lavorare con tutte le principali, e di poter selezionare tra la parecchie proposte che ci vengono fatte. Spesso, inoltre, siamo noi a chiedere alle agenzie stesse di provare a lavorare con alcuni gruppi che ci piacciono e che crediamo possano funzionare. Infine a volte c’è anche il contatto diretto con le band, soprattutto quando non hanno agenzie di riferimento. Da questo punto di vista i social network sono stati utilissimi”.

Immagino che nel tuo lavoro entrerai spesso in contatto anche con realtà estere: che differenze noti tra il nostro Paese e l’estero?

“Naturalmente anche il nostro settore, quello della musica live, paga quelli che sono i difetti di questo Paese in generale: una burocrazia mostruosa, e regole poco chiare o di diversa interpretazione a seconda dei casi. Ma la nostra arretratezza è soprattutto culturale. I festival musicali, i locali che organizzano concerti o dove ci si diverte la sera, qui da noi sono ancora visti con sospetto, non si fa nulla per sostenerli, in diversi casi si cerca di eliminarli. Altrove si è capito da tempo che, al di là della sua importanza culturale, la musica è anche fonte di turismo ed indotto. Qui siamo ancora fermi al concetto di fenomeno giovanile o comunque culturale di serie B. Per nostra fortuna Bologna rimane un’isola felice, ma basta girare un po’ in Europa e vedere come funzionano le cose in città delle stesse dimensioni per capire che siamo comunque molto indietro”.

Perché il mercato discografico si è così contratto, e come vedi il futuro della musica?

“Bisogna considerare che il motore del mercato musicale è sempre stato rappresentato dai giovani. Chi oggi ha 20 anni da bambino già scaricava musica gratis, ed ora la ascolta dal computer o dall’iPhone, probabilmente in streaming. Quindi quello che una volta era il target principale di questo mercato ora è probabilmente l’acquirente meno probabile di supporti fonografici. E non credo che in futuro le cose cambieranno molto, nel senso che si continuerà a creare supporti principalmente per gli appassionati. Per il resto il modello Spotify mi sembra quello vincente, anche se sono molto curioso di vedere cosa farà in questo campo la Apple ora che ha comprato Beats”.

Molti artisti al giorno d’oggi decidono di regalare la propria musica gratuitamente, e puntare principalmente sul live: è un modello sostenibile, secondo te?

“Sicuramente la crisi del mercato discografico, di cui parlavamo prima, ha fatto aumentare di molto i cachet degli artisti, anche quelli più piccoli. Di conseguenza si è drasticamente ridotto il margine di chi organizza concerti, che in questo modo fa sempre più fatica a starci dentro e a poter rischiare puntando su gruppi emergenti. Il sistema è sempre meno sostenibile, e qualcosa dovrà cambiare per forza. Il rischio economico non può più rimanere solo del promoter, ma deve iniziare ad essere condiviso con gli artisti. In altri paesi è già così: negli Stati Uniti sono anni che, in locali della dimensione del Covo, i gruppi anziché un cachet prendono solo una percentuale dei soldi che il locale incassa. È brutto da dire ma la dura legge del mercato è che se vali e quindi porti gente, guadagni. Altrimenti no”.

Dunque c’è sempre meno spazio, nel circuito live italiano, per gli emergenti.

“Come dicevo, lo spazio si è ridotto ed è sempre più difficile proporre gruppi emergenti. Chi gestisce un locale alla fine deve far quadrare i conti, cosa impossibile se si fanno suonare artisti sconosciuti e che quindi non hanno ancora un seguito. Bisogna chiedersi però di chi sia la colpa di questa situazione. Mi sembra che il pubblico, soprattutto quello più giovane, non abbia più nessuna curiosità, o che almeno sia davvero poco incline ad andare a vedere cose che non conosce già attraverso altri canali. Ed è una cosa che vale anche per i concerti gratuiti, non solo per quelli a pagamento. Oltre a questo c’è anche un grosso problema di tipo culturale, un problema che riguarda gli stessi gruppi: quanti artisti emergenti vanno a vedere i loro colleghi suonare o frequentano i locali della propria città? Da quello che vedo io, pochi”.

Da promoter, quale consiglio ti sentiresti di dare ad un emergente che vuole organizzarsi un tour, o arrivare a suonare in un locale del livello del Covo?

“L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di non avere fretta. Con le nuove tecnologie si è persa la cara vecchia abitudine di conquistarsi le cose piano piano: mettere i soldi da parte per anni prima di riuscire ad entrare in uno studio di registrazione, risparmiare per settimane per riuscire a comprare un disco. Oggi con un click hai tutto e subito. Per meritarsi di suonare in locali importanti bisogna ancora fare molta gavetta, mangiare tanti bocconi amari e superare mille difficoltà. Bisogna farsi conoscere, iniziando a suonare in posti minuscoli e crearsi un pubblico che parli di te e ti aiuti a farti conoscere. Non è facile, lo so. Ma chi vale, alla fine, di solito ce la fa”.

rumori-okNato ad Ancona il 25 ottobre 1977, Daniele Rumori si occupa di musica indipendente da circa 15 anni. Vive a Bologna dal 1995, città dove ha fondato Homesleep Music (proclamata dalla stampa italiana migliore etichetta discografica indipendente del nostro Paese), di cui è stato direttore artistico fino al 2009 e per la quale hanno inciso gruppi come Giardini Di Mirò, Yuppie Flu, Julie’s Haircut, Fuck, Cut e Midwest. Da circa 10 anni è uno dei gestori, nonché responsabile della programmazione, del Covo Club di Bologna.

Le Parole dei Valutatori: Marcello Balestra

Marcello-BalestraokIniziamo parlando della tua storia personale: come hai iniziato a lavorare nella discografia?

“Conobbi Lucio Dalla nell’80 alle Isole Tremiti e successivamente incominciai ad andare in studio di registrazione a Bologna per curiosare durante la registrazione di album di artisti dell’area bolognese: Dalla, Stadio, Carboni ed altri. Nel frattempo facevo parte di una piccola band nella quale suonavo, cantavo e scrivevo canzoni. Dall’87 iniziai a lavorare in tour come road manager e così via fino all’89, e concluso il tour Dalla-Morandi ho iniziato ad occuparmi della discografia di Dalla e della Pressing. Ho vissuto in prima persona le trasformazioni del settore musicale, avendo passato gli ultimi 14 anni a Milano, in Warner, con incarichi di direzione artistica e produttiva. Ho visto venir meno il ruolo primario e storico del supporto come tale e il ruolo della musica come potentato di chi la produceva, passato quasi gratuitamente e ingenuamente prima a radio e tv e poi alla rete, quindi ho sempre lavorato su progetti che potessero sopravvivere al decadimento del settore e del supporto, cercando di privilegiare la qualità e l’importanza di canzoni e artisti, il lancio di personaggi con canzoni e talento, anche producendo o pubblicando artisti apparentemente fuori dal mercato istituzionale”.

Quale ruolo hanno, o dovrebbero avere, secondo te le major discografiche nel panorama italiano e internazionale?

“Se una volta aiutavano gli artisti a crescere, ora sembra più una cassa di risonanza per chi ha già successo, o per prodotti che arrivano da altri contesti. Le major raccolgono sempre più il successo di fenomeni artistici più o meno già visibili, provenienti dai talent o da altre vetrine, ma non potrebbe fare diversamente: hanno lentamente abbandonato la ricerca e la produzione interna, cancellando di fatto il ruolo di direzione artistica, di persone in grado di riconoscere il talento prima che si esprimesse da solo attraverso altri canali. Rinunciando alle persone che in realtà ‘facevano’ l’azienda con il proprio istinto e carisma produttivo, hanno dovuto ripiegare sull’attività di acquisizione di progetti già in parte portati avanti da produzioni televisive. Il ruolo delle major dovrebbe invece essere quello di creare spazi, canali reali e propri di promozione della nuova musica locale e internazionale, o almeno dovrebbero coltivare alcuni ‘ceppi creativi’, come ce ne sono in Italia e all’Estero: ad esempio XL Recordings è uno di questi, che con artisti come Adele ha dimostrato quanto sia fondamentale per le major ancora oggi individuarne di simili, per avere almeno un rapporto con la creatività vincente da finanziare”.

C’è stato un momento in cui i Talent Show sembravano l’unico appiglio di salvezza per le major discografiche. E’ ancora così, o la situazione è ulteriormente cambiata?

“I talent sono il serbatoio e il palco dei personaggi di ricambio. La discografia inizialmente li ha supportati, approfittando del possibile vantaggio economico dato dalla vendita immediata di prodotti di questi nuovi artisti. Poi è divenuta vittima dei contenitori e dei talent stessi. Tutti questi nomi nuovi infatti hanno creato un pubblico che li segue, partecipa attivamente sui social e li vota, ma che, salvo eccezioni, non compra e lascia che l’artista rimanga sospeso, senza un ruolo che non sia quello di partecipante ad un talent. Questo perché i talent sono solo apparentemente musicali, ma nascono e vivono per essere programmi televisivi: portano avanti il consenso di fan che rimangono legati al programma e ai giudici, ma non agli artisti, non c’è interesse per i giovani appena messi in evidenza, non c’è una struttura che li segua in futuro. Ecco perché chi esce da un talent è costretto a mostrare ancora più talento dei giovani che escono da altri canali, altrimenti è destinato a sparire. Con il risultato che la musica è sempre più appannaggio di chi esiste da prima, o di chi fa capire con talento al pubblico quanto sia vitale il proprio bisogno di comunicare attraverso la musica”.

Quindi, si può sperare almeno nel web come canale per far emergere nuovi artisti?

“A mio parere la Rete ha sempre fatto finta di creare dei fenomeni di successo, ha piuttosto dato spazio per esprimersi ad alcuni personaggi dalla personalità non comune. La musica comunque non può nascere da Internet, o almeno non ancora, perché la Rete con la sua democraticità non ha la capacità e il potere di creare coesione, ma al contrario genera assoluta ed enorme distrazione. Il ruolo di comunicatore di successi è ancora delle radio ufficiali e più seguite sul territorio: la rete crea milioni di web-radio, di playlist, ma non un sistema autoritario o autorevole per far si che nascano successi da essa, perché questa libertà di scelta crea più che altro frammentazione e non uniformità di attenzione su una nuova proposta, salvo che già se ne parli altrove”.

Quale consiglio ti sentiresti quindi di dare ad un musicista emergente che vuole arrivare a pubblicare un album, con un’etichetta indipendente o con una major discografica?

“La major o l’indipendente non deve essere l’obiettivo fondamentale di chi scrive musica, ma di chi ha qualcosa da dire. Servono album di canzoni che racchiudano una ragione anomala, comprensibile e gustosa, perché possano essere lavorate anche da una major. Per essere anomali, gustosi e comprensibili serve un repertorio di che abbia tale stoffa e un comunicatore coerente, altrimenti difficilmente una major o il mercato si dimostreranno interessati”.

Marcello-Balestraok

Autore e compositore, laureato in legge con una tesi sul Diritto d’autore. L’inizio della sua carriera nell’industria musicale è legato a Lucio Dalla: Balestra è stato tour manager del cantautore bolognese nel periodo ‘86-’88 poi nel tour mondiale Dalla-Morandi ‘88-’89. Nello stesso anno diventa responsabile editoriale, artistico e legale dell’etichetta Pressing, sempre con Dalla, e delle Edizioni Assist. Fino al 2000 è docente universitario in Diritto d’autore e Discografia ESE, poi inizia a collaborare con la casa discografica CGD. Dal 2004 al 2013 è in Warner Music Italia.

 

Le Parole dei Valutatori: Luca Fantacone

Luca-FantaconeokFino a qualche tempo fa, in Sony Music, ti occupavi di digital marketing, ora di repertorio internazionale. Come mai hai scelto questo percorso professionale?

“Il digital marketing è stata una fase di sviluppo personale e professionale alla quale sono andato incontro perché le modalità di consumo della musica stavano cambiando così profondamente che non prepararsi ad essi avrebbe significato rinunciare a fare questo lavoro, o peggio chiudere gli occhi e non godere di una rivoluzione più unica che rara. Ed ha cambiato radicalmente il mio modo di lavorare: gli ho dedicato a tempo pieno 4 anni, dopo di che sono tornato ad occuparmi di ambito internazionale con una mentalità di lavoro nuova e con competenze che prima non avevo. A dire il vero, già quando lavoravo nella indie NuN sperimentavamo strumenti digitali che servivano a testare la produzione e la comunicazione di contenuti digitali a supporto del lancio dei CD tradizionali. Poi con l’avvento dei social tutto è cambiato nuovamente, ma ero già abbastanza pronto, e soprattutto curioso. La curiosità è la chiave di tutto secondo me”.

Una provocazione: al giorno d’oggi, per un musicista, vale di più concentrarsi sullo studio di uno strumento musicale oppure farsi un bel corso di Social Media Marketing?

“Buona questa! Beh, io mi concentrerei innanzitutto sullo strumento, ma senza ammazzarsi di tecnica fine a se stessa: la tecnica deve servire ad esprimere bene quello che hai dentro, conta più l’espressione che si è in grado di dare ad una nota che la velocità d’esecuzione. Poi studierei anche i Social, anche in modo artigianale, più che altro per capire come si muove il mondo contemporaneo della comunicazione, nel bene e nel male. Tanto è innegabile che molta parte delle nostre attività di tutti i giorni passino per l’uso dei social, indipendentemente da quello che si fa di professione o da che persone si è. Prenderne coscienza e impararne un po’ serve sia per sapere come usarli (e sfruttarli), sia per prenderne le distanze. Ma rapportarsi ad essi è quasi obbligatorio”.

Visto che hai citato NuN, ti chiedo: perché al giorno d’oggi il mondo “indie” e quello “major” sembrano due compartimenti stagni, che non comunicano tra di loro?

“In realtà secondo me non è mai cessato l’asse indie-major, l’unica differenza forse è che le dinamiche sono un po’ più “brusche”: essendo i cicli di vita e di lavoro molto più compressi che in passato, se prima major e indie dialogavano con più pazienza nello sviluppare anche insieme gli artisti, ora tutto è più rapido e improvviso, a volte un po’ più “cinico” da entrambe le parti. Ma poi, come sempre, sono le persone che fanno la differenza”.

Domanda da un milione di dollari: cosa significa oggi fare il discografico in una major?

“Per me il significato primario è “fare il discografico”, indipendentemente dal fatto di farlo in una indie o in una major. Certamente il contesto e le dinamiche lavorative sono molto differenti sotto alcuni aspetti, ma le “regole” di base del mestiere sono le stesse: cercare un talento e lavorare insieme agli artisti, ai media, al pubblico per riuscire a comunicare questo potenziale ed attuarlo più possibile. Di sicuro comunque lavorare in una major nel 2014 è molto differente rispetto al 1991, quando iniziai: meno persone, più lavoro, più pressione, meno risultati tradizionalmente apprezzabili. Ma anche molte più sfide, nuovi ruoli, nuovi obiettivi, nuovi modi per lavorare su progetti musicali, nuove cose da inventare o visioni da avere. I cambiamenti degli ultimi 15 anni circa non sono ovviamente una prerogativa delle major, ma in esse si sono manifestati con molta più urgenza, ed hanno necessariamente innescato profondi cambiamenti strutturali che in altri contesti più piccoli sono stati più rapidi ed accolti con minore resistenza. Ma questo è un aspetto legato ovviamente anche alla grandezza e alla lentezza di tutte le strutture complesse”.

Parlando di cambiamenti, che cosa è successo al mercato discografico in questi 15 anni?

“Questo è un tema troppo ampio per pretendere di risolverlo in una battuta. Potrei semplicemente dire che è cambiato il tessuto socio/culturale da cui la musica attinge e a cui si rivolge, è cambiato il modo di rapportarsi alla musica, è cambiato il modo di consumarla, ma non è diminuita la sua presenza nella vita della gente, anzi è aumentata. Il mercato è completamente diverso rispetto a 20 anni fa, e lo deve essere anche l’industria. Lo è la gente, lo è drasticamente la tecnologia. In futuro il consumo di musica sarà sempre più ampio e sempre più differenziato, a tratti imprevedibile. Quello che si richiede ad artisti e industria è di essere pronti, lungimiranti, spavaldi, rapidi, visionari”.

Quindi in questo scenario di musica “liquida” ha ancora senso pubblicare un disco? Oppure in futuro ci troveremo in un mondo di sole canzoni?

“Ha senso nella misura in cui lo si considera come solo uno dei centri di interesse della gente, e non come l’unico. Pretendere che tutti si concentrino ancora sul disco come elemento in cui l’interesse del pubblico si autoalimenta, non ha senso. Accettare che ci siano porzioni di pubblico attratte solo da una canzone, che magari si ascolta solamente e non si possiede è indispensabile”.

Per concludere, un consiglio ad un musicista che vuole arrivare a pubblicare una major?

“Scrivere tanto, quello che si sente di scrivere. E tenere sempre presente il contesto in cui si trova – l’Italia ha caratteristiche decisamente particolari e anche difficili per la musica – ma non troppo, altrimenti si rischia di perdere di vista il proprio obiettivo. Infine: non fare il discografico, non pensare a qual è il singolo, alla strategia, ma alla musica e a quello che si vuole dire. Per il resto poi c’è tempo”.

Luca-Fantaconeok49 anni, laureato in Scienze Politiche, dopo un primo impiego come marketing assistant in Unilever, e un breve soggiorno a Londra, nel 1991 entra in Warner Music come product manager e poi come promotion manager. Dopo 4 anni passa in PolyGram, dove gestisce l’etichetta Black Out in qualità di direttore artistico. Segue una rapida esperienza in Sony Music e un’esperienza indie con la NuN Entertainment, al cui termine lavora due anni come free lance. Nel 2006 rientra in Sony Music, prima come digital marketing manager poi come direttore marketing del repertorio internazionale.

I partner, i locali: DIAGONAL LOFT CLUB

diagonal1Al Diagonal Loft Club hanno suonato tra gli altri: Matt Elliott, The Dub Sync, Little Dragon, Subsonica, Marco Parente, Gala Drop, Paolo Benvegnù, Like a Stuntman, Oh No Ono, Manuel Agnelli, Le Luci della Centrale Elettrica. Ha una capienza di 200 posti e si trova in viale Salinatore 101 a Forlì. Per informazioni: info@diagonaloftclub.it – tel. 338.3269866.

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Paolo Spaccamonti live

“Il Diagonal Loft Club nasce nel dicembre del ‘95 da un pezzetto degli ‘attivisti’ che organizzavano le serate Ex-Machina a Forlì. Era una specie di collettivo informale in cerca di un luogo proprio. Così alcuni di questi ragazzi ristrutturarono e misero a norma gli spazi che ancora oggi sono quelli del Diagonal Loft Club. In origine la forma societaria era la cooperativa e il locale fu affiliato all’ARCI. Nonostante i parecchi cambiamenti di personale e di gestione avvenuti in quasi 17 anni di attività, il Diagonal Loft Club è sostanzialmente rimasto fedele alla visione (e missione) di allora”, ci dice con entusiasmo Davide Fabbri, che prosegue: “Dal punto di vista – diciamo così – oggettivo ci sono alcune caratteristiche del locale che limitano l’organico delle band a 4/5 persone e che scoraggiano dall’ospitare gruppi con eccessivo volume dal palco. Se a questo aggiungiamo la particolare predilezione dello staff per le sonorità elettroniche, viene fuori una programmazione orientata su piccole band con un’importante (ma non esclusiva) componente tecnologica/elettronica. Cerchiamo di portare sul nostro palco gruppi stranieri in tour in Italia, che molto spesso hanno le caratteristiche appena menzionate. Poi, ovvio, capita che ci innamoriamo anche di progetti folk particolari e altre situazioni più comuni”. Davide, dal canto suo, ha ovviamente una visione di cosa significhi ‘direzione artistica’: “è una questione delicata, direi che la vivo come un totale arbitrio dalla forte ricaduta politica. Posso affermare che reputo riuscita una scelta artistica quando tutti (band, pubblico, tecnici, baristi, ecc.) sono felici di quello che sta accadendo e nel modo in cui accade. Credo che la direzione artistica di un posto come il nostro abbia tanto a che fare con la diplomazia e la capacità di mediazione quanto con la visione e l’azzardo”. Una sua disamina sul mondo dei live è saldamente ancorata alla realtà: “Pensando in generale mi viene da dire che la proliferazione di band, booking, etichette e promoter abbia sfilacciato e livellato verso il basso tutta la questione, perlomeno per quanto riguarda spazi come il nostro. è molto bello avere a che fare con la musica in qualche modo, questo lo capisco bene, ma non è perché hai un indirizzario che sei un promoter, o perché ti prestano una stanza in un circolo che diventi un locale. Questo solo per dire che di situazioni a costo zero rette esclusivamente sulla buona volontà ne abbiamo viste nascere e morire parecchie. Quello chiamato il business dei live è una cosa complessa che va dalla dotazione tecnica ai permessi per gli spettacoli, passando naturalmente dal compenso degli artisti al biglietto d’ingresso (il Diagonal Loft Club è a ingresso gratuito da sempre), fino alla richiesta di finanziamenti. La questione strettamente economica invece è alquanto semplice, ci sono pochi soldi. E questo lo sanno tutti. Ma mettere gli artisti nelle condizioni di fare un bel live, avendo cura di loro può, in qualche modo, compensare quello che economicamente è venuto a mancare nel tempo”. Infine ci cita due locali degni di nota: “Starei in zona e dico Area Sismica e Clandestino”.

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Davide Fabbri

Un grande concerto è stato sicuramente quello dei portoghesi Gala Drop qualche mese fa, band incredibile, con tanto di sigarette accese sul palco (in Portogallo è ancora ammesso) e rimozione del furgone per divieto di sosta. Fu pessimo, invece, quando due artisti italiani più che navigati (non farò nomi) si lamentarono del chiacchiericcio del nostro pubblico, così poco “rispettoso” della loro maestria.

 

 

I partner, i locali: COVO CLUB

covo1Il Covo Club è in viale Zagabria 1 a Bologna. Ha una capienza di 270 spettatori e si può contattare alla pagina www.covoclub.it www.facebook.com/ilcovoclub. Tra gli artisti più importanti che hanno calcato il suo palco: The XX, Mumford & Sons, The Libertines, Gossip, Refused, Decemberists, Franz Ferdinand, Animal Collective, Mogwai, Black Lips, The Drums, Godspeed You Black Emperor, Trail Of Dead, Mars Volta, Afterhours, Subsonica, Broken Social Scene, Beach House, Teenage Fan Club, Superfurry Animals, Jay Reatard. I sold out più clamorosi, quelli in cui la gente ha iniziato ad arrivare dal pomeriggio, sono stati quelli di The XX, Blood Brothers, The Brian Jonestown Massacre, Baustelle, Le Luci della Centrale Elettrica, Shout Out Louds, Clap Your Hands Say Yeah, Franz Ferdinand, The Go Team, The Organ, Long Blondes, Xiu Xiu, Calla e recentemente la serata dedicata a Manchester con Peter Hook dei Joy Division/New Order e Mike Joyce dei The Smiths.

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Franz Ferdinand live

“Il Covo nasce nel 1980 come un ritrovo di ragazzi di un quartiere difficile, come era San Donato a Bologna. Si usciva dagli anni 70 e mentre si scopriva il punk rock, nella periferia si diffondeva anche l’eroina. Il Casalone diventò da subito un rifugio per un gruppo di ragazzi che pensava che c’era un modo migliore di ‘evadere’ dalla difficoltà della vita di periferia rispetto alla droga. Piano piano il ritrovo di quartiere ha cominciato a diventare una meta per tutti i creativi della città, poi una istituzione culturale di Bologna ed infine un club conosciuto in tutta Europa. Noi amiamo dire che il Covo esiste da più di trenta anni ed ha una gestione continuativa. Ancora oggi i due fondatori del Club, Yanez e Dedu, oltre ad essere dj residents, rimangono un punto di riferimento importante per noi che gestiamo il locale ora”, ci racconta il Comitato Direttivo del club, aggiungendo: “C’e un lavoro di ricerca continua, compriamo una marea di dischi e di riviste musicali di tutto il mondo e non ci stanchiamo mai di scoprire gruppi nuovi. Questo perché da sempre il Covo cerca di proporre il meglio della scena rock indipendente/alternativa e non possiamo non essere sempre super aggiornati. Solo in questo modo siamo riusciti a regalare al nostro pubblico alcune chicche, gruppi che hanno suonato da noi poco prima di esplodere in tutto il mondo come Mumford & Sons, The Libertines, Franz Ferdinand, Beach House, Gossip o Animal Collective. Tutto questo senza dimenticarsi che il nostro è un locale di dimensioni molto ridotte e tanti dei nostri concerti sono così diventati storici”. Sull’aspetto della direzione artistica ecco il loro pensiero: “Sappiamo che possiamo sembrare presuntuosi, ma più di trenta anni di storia pesano molto sulle nostre spalle. Per questo pensiamo che la direzione artistica di un locale come il Covo sia una responsabilità enorme”. Il Comitato è anche ben sicuro sul consiglio da dare ad un giovane artista che voglia suonare al Covo: “Esibirsi da noi è sicuramente un trampolino di lancio, ma anche un piccolo punto di arrivo. Quindi, quando si ha l’opportunità di suonare qui, ci vuole una proposta musicale valida, una grande motivazione e soprattutto una forte identità”. Sulle carenze del locale il Direttivo è unanime: “Al Covo manca almeno un metro di larghezza in più nella sala concerti… Ci fosse quello sfioreremmo la perfezione” e mentre sorridono ci consigliano anche altri club: “Una doverosa citazione per l’Estragon, con cui collaboriamo da anni, dove lavorano persone con un livello di professionalità davvero straordinario. Invece in Italia sono da citare lo Spazio 211 a Torino e il Circolo degli Artisti a Roma, dove spesso passano gruppi che fanno tappa anche da noi”. Infine scatta un paragone: “Sicuramente un locale come il Covo funzionerebbe meglio in città come Londra, Berlino, Parigi, New York o San Francisco. Potrebbe essere aperto sette giorni a settimana e permettersi una programmazione davvero unica. Ma onestamente siamo felici di essere a Bologna, che da un punto di vista musicale è sempre stata all’avanguardia e che non ha nulla da invidiare a città di pari dimensione nel resto del mondo”.

Richieste insolite ce ne sono state tante, ma onestamente niente di veramente incredibile… Forse perché con gli anni ci siamo abituati anche ai rider più inconsueti. Un episodio curioso è successo quando hanno suonato da noi i The Fall di Mark E. Smith. A quanto pare il giorno prima Mark litigò con il suo tour manager, che per scusarsi con il suo artista ci telefonò chiedendo di far trovare un mazzo di rose in camerino. Sul versante dei bei ricordi è bello rammentare due concerti storici come quelli di Teenage Fanclub e Spoon, gruppi che davvero, anche nel momento in cui hanno suonato qui, non era facile vedere in un locale così piccolo. Due concerti indimenticabili, con la sensazione di avere avuto davvero delle vere rockstar sul palco. Con dispiacere ne ricordiamo due che non ci sono mai stati, quelli di We Were Promised Jetpacks e di Leisure Society. Dovevano suonare al Covo nel weekend in cui abbiamo ricevuto la terrificante notizia della scomparsa del nostro socio Max, per anni anima di questo club.

I partner, i locali: CALAMITA

calamita1Il Calamita è ubicato in Via Tornara a Cavriago (RE), ha una capienza di circa 200 spettatori e per raggiungerlo, una volta arrivati in paese è sufficiente seguire le indicazioni per “La Cremeria”, che è il centro di formazione proprio di fianco al locale. Tra gli artisti che sono saliti sul suo palco è doveroso ricordare: Morgan dei Bluvertigo, Baustelle, Cristina Donà, Bugo, Offlaga Disco Pax, Marta Sui Tubi, Lydia Lunch, Faust, Howe Gelb, Teatro Degli Orrori, Dente, Diaframma e Malfunk. Tutti questi nomi hanno fatto il sold out, in particolare gli Offlaga nel 2010 e Cristina Donà nel 2003: in entrambi i casi non si riusciva a metter piede al Calamita dal fitto di gente che c’era.

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Paolo Benvegnù live

“Il Calamita nasce alla fine del 1997 su un’iniziativa di alcuni ragazzi con la passione per la musica, alcuni musicisti e altri semplicemente appassionati, che decidono di formare un circolo, questo grazie anche al comune di Cavriago che mise a disposizione lo spazio del centro giovani e all’appoggio della Pro Music di Vezzano s/c che portò le attrezzature per creare un circolo esclusivamente per musica dal vivo. Grazie alla passione mai diminuita, il Calamita è diventato, negli anni, un punto di riferimento per la musica dal vivo non solo per la provincia di Reggio, ma anche per la regione e non solo”, ci racconta con trasporto Davide Fontanili, che prosegue: “Gli artisti che sono in cartellone al Calamita sono scelti da un’apposita direzione artistica, in collaborazione con la webzine Kalporz.com. Da ormai 9 anni la programmazione si concentra su musica originale, quindi evitiamo le cover band e quelle che omaggiano un artista, concentrandoci sul panorama indie-rock italiano e straniero”. Davide alla domanda di cosa significhi direzione artistica è molto sintetico, a ragion veduta: “La direzione artistica del Calamita, una volta decisa la linea con il direttivo del circolo, seleziona le varie proposte che giungono copiose al locale”. Davide è anche disposto a dare un consiglio agli artisti che volessero proporsi come attrazione per una serata nel locale di Cavriago: “Innanzitutto devono fare musica originale, o al massimo cover molto personalizzate, oppure iscriversi al concorso ‘Premio A.Daolio’ che si tiene al Calamita da 18 anni grazie Comune di Cavriago e all’Arci provinciale” e poi con passione ci racconta che “Per noi non è mai stato un business, ma una vera e propria passione nei confronti della musica che ci ha spronato ad andare avanti anche quando il periodo, come negli ultimi anni, non è certamente dei migliori. Pensando a una mancanza del locale mi viene in mente subito la sua capienza, ma forse anche no. Ovvero il fatto di essere piccolo e intimo è uno dei suoi punti di forza, ma se ci fosse più capienza si potrebbero fare anche artisti che attualmente non possiamo permetterci per questioni di budget”. Davide ci tiene a consigliarci anche un paio di locali: “Un club come il Fuori Orario non si può non menzionare e consigliare e poi trovo molto interessante la programmazione di un circolo ARCI in provincia di Treviso, il New Age, che ha un calendario molto simile al nostro ma con alcuni artisti famosi in più”.

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Davide Fontanili

Lo storico gruppo tedesco di kraut-rock “Faust” è stato al Calamita nel 2007 e cosa buffa, ma anche preoccupante, durante il concerto ha acceso un flessibile tagliando della lamiera con una cascata di scintille che scendeva sul pubblico e sugli arredi del locale. Potete immaginare l’ansia che ci assalì tutti quanti ma fortunatamente non successe niente di tragico o drammatico. Tra i tantissimi concerti che sono passati per il Calamita, ne ricordo molti con piacere ed altri che non mi sono piaciuti per niente, ma evito di fare nomi.