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I pensieri dei valutatori: Giampiero Bigazzi

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

Come succede di solito ho cominciato a suonare da giovane (ma non da bambino, come sarebbe stato opportuno). Ho frequentato un paio di scuole e qualche corso di approfondimento, ma senza esagerare. Ho continuato a studiare per conto mio, a sprazzi. Ho molto suonato, il basso elettrico, negli anni delle balere (“dancing” si chiamavano dalle mie parti). Venerdì sera, sabato pomeriggio e sera, domenica pomeriggio e a volte sera: non male come palestra! E infatti quella è stata la mia scuola di base. Ho assorbito tutta la musica degli anni Sessanta e quella dei primi Settanta, quando la gente miracolosamente riusciva a ballare su brani di Jimi Hendrix o di Deep Purple (per non parlar di Lucio Battisti).

Un giorno trovai, non ricordo come, un piccolo organo elettrico. Due ottave e mezza, forse marca Davoli. Me lo portai a casa e cominciai a trovarci accordi semplici e a cantarci sopra. Con quella tastierina capii che bisognava essere intonati! Lo so che può sembrare strano, ma come bassista fino a quel momento mi ero concentrato sul ritmo, batteria e chitarra, e non mi ero posto il problema. Feci molti esercizi e corressi, pur moderatamente, la mia stonatura iniziale. Questo per dire che il talento è qualcosa di sublime, ma gli stonati non esistono. Basta studiare e applicarsi. Educare la voce.

Ho quindi suonato il basso fino a metà anni Settanta, per far ballare la gente. La cosa che ancora oggi mi sembra impossibile, è che avevamo in repertorio più di 150 brani, tutti buttati su a memoria. Oggi non riesco a ricordarmi nemmeno “Bella ciao”… oddio, quella forse sì.

Perché cominciai a suonare? Non c’era una tradizione o una spinta familiare, anche se la nostra mamma, oggi, mi ripete che la sua era una famiglia di contadini, minatori e musicisti… bravi ma non facevano apprendere la musica alle donne di casa, circostanza che l’ha sempre contrariata. La musica mi ha affascinato (come il cinema e il teatro) fin da piccolo. A questo bisogna aggiungere una leggera predisposizione naturale allo spettacolo (la seduzione della ribalta e dello stare al centro dell’attenzione è sempre una magnifica spinta a provarci) e la possibilità di farsi delle fidanzate che il suonare offriva. Non c’era una “vocazione” particolare. “Bene, almeno sappiamo come passare i pomeriggi d’inverno”, mi disse il mio amico Mario quando gli feci vedere i primi strumenti raccolti e gli comunicai l’idea che avevo di metter su una band. Ma lui poi non si aggregò: le fidanzate le trovava lo stesso e da grande è diventato un esperto di allevamento di cavalli da corsa.

Cosa ascoltavo? Sicuramente le canzoni che dovevo risuonare per far ballare. 45 giri e spartiti (quelli con un brano solo “per mandolino”) comprati allo storico negozio di musica del paese. Le canzoni, quando lo spartito non c’era, si “tiravan giù dai dischi”, o meglio: lo faceva il tastierista che – come spesso accade – era quello tecnicamente più predisposto. Io mi concentravo sulla linea del basso (e qualche volta le note più ardimentose me le trovava il suddetto virtuoso tastierista). Non c’era, all’epoca e in quelle condizioni, l’idea della “cover”. Le “hit da ballo”, quelle musicalmente raggiungibili dalla nostra abilità, si rifacevano, possibilmente fedeli all’originale, e basta.

[Sto rileggendo quello che ho scritto finora e mi sembra il soggetto di un film di Pupi Avati…]

I miei ascolti però non erano solo funzionali al “lavoro di orchestrale”. Ascoltavo molta musica che non avremmo potuto “tirar giù” per le balere. Abbiamo raccontato altre volte che abitavamo in un palazzone che aveva uno dei primi magazzini della Coop al primo piano (poi ci fecero una banca e ora ci sono i cinesi… la Coop comunque c’è ancora, ma da un’altra parte). In questo magazzino (miracolo!) c’era un reparto dischi. Fornitissimo. E lì ho conosciuto i vinili di Hendrix (ancora oggi quando ascolto “Electric Ladyland” mi commuovo), Bob Dylan (la mia copia di “Blonde on blonde” ha tutti i solchi consumati!), Rolling Stones (visti a Roma, con Mick Taylor alla chitarra, tornando in autostop da Amsterdam nel 1970), Woodstock (“tirato giù” in abbondanza), un po’ di jazz storico, Mozart e Bach. C’era una collana dell’Atlantic (con l’adesivo “The genuine underground music”) di cui ho molti LP: Blues Image, Iron Butterfly, Young Racals. Andavo pazzo per Vanilla Fudge. E ovviamente molti Beatles, ma possedevo pochi dischi… mi sono rifatto da adulto. In quegli anni c’era un amico che non perdeva un loro LP o un singolo e ne facevo indigestione a casa sua. Un disco avevo e consumavo: “Abbey Road”. In questi mesi sono cinquant’anni che è uscito. E’ il loro ultimo sussulto creativo, ma c’è dentro tutto quello che ancora oggi può far comodo a chi fa musica.

Ascoltavo poco gli italiani, in quegli anni iniziali, ma ho sempre amato e professionalmente rispettato la cosiddetta “musica leggera”, apprezzamento che mi è servito anche nel lavoro di agitatore musicale, alle prese con gli spigoli dell’avanguardia e della world music. La ricerca della comunicatività, la capacità di “arrivare” a potenziali ascoltatori, sono necessarie attitudini per qualsiasi forma d’arte. Almeno questo è ciò che penso.

Il pensiero che mi viene ricordando gli anni della formazione è la lentezza del consumo. Non c’era bisogno di farsi prendere da bulimia di possesso e superficialità di ascolto: si entrava “dentro” un disco, si scopriva, ascoltandolo decine di volte e, come musicisti, si cercava di imparare.

E quindi raccolgo un altro pensiero: è una frase fatta, lo so, ma è sempre valida. Non si smette mai di apprendere e non si deve mai smettere di studiare. Con tutti i miei limiti ho cercato e cerco di farlo, passando dalla scoperta delle tradizioni popolari alla musica più sperimentale, dalla canzone d’autore alla musica cosiddetta colta. E’ soddisfazione privata, ma anche strumento per evitare banalità. Non so se ci sono riuscito, ma ho la coscienza a posto: ci ho provato.