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Le parole dei valutatori: Giampiero Bigazzi

untitledCosa significa essere un produttore artistico e un discografico?

“Il ruolo del produttore artistico è importante. Salvo che l’artista non abbia la capacità di “sdoppiarsi” fra essere l’interprete (e spesso anche l’autore) e il “supervisore” del proprio lavoro. Il produttore, infatti, ha un ruolo di coordinamento artistico e musicale dell’opera, ma di solito ne è anche il regista, l’arrangiatore e l’ispiratore. Quindi con un importante ruolo creativo, a fianco e in condivisione con i musicisti. È un ruolo utile, perché un orecchio, una sensibilità e anche un occhio esterno spesso sono necessari a chi crea la musica. Solitamente è anche il collegamento con chi registra e stampa il disco. Il discografico è la figura che realizza in modo esecutivo l’opera musicale. La promuove e, se gli riesce sotto questi chiari di luna, cerca di commercializzarla. Secondo noi di Materiali Sonori il discografico non deve essere solo un “ragioniere”, ma anch’esso un artista che ragiona”.

Cosa ti deve colpire al primo ascolto?

“Personalmente sto molto attento all’esecuzione, alla precisione, all’intonazione, agli arrangiamenti e alla struttura dei brani. Forse non è un buon approccio, ma è la prima cosa che ascolto. È una specie di “vizio” dovuto dalla lunga frequentazione della musica contemporanea e classica. Poi ovviamente ci deve essere lo spessore del progetto. L’originalità invece può essere un optional”.

Quale consiglio puoi dare a un giovane che inizia a suonare?

“Studiare, studiare, studiare. Non accontentarsi. Migliorare sempre. Fare gavetta. Suonare dal vivo. Registrarsi sempre, riascoltarsi e riflettere. Correggersi di continuo. Ascoltare più musica possibile. Essere curiosi. Ma poi fare le proprie scelte”.

Le nuove tecnologie (social network, MP3, ecc.) aiutano l’artista? Se sì, come credi che debbano essere utilizzate?

“È una buona opportunità. Oggi fondamentale. Insieme alla musica dal vivo, le due cose spesso s’intrecciano. I social vanno sfruttati pienamente. Tutti. Ma ovviamente non dovrebbero essere la partenza e l’arrivo del progetto. Perché se uno cammina restando sempre nello stesso punto, alla fine si scava una buca. Far vivere un progetto vuol dire anche confrontarsi con il pubblico vero, di persone reali. Inventarsi e mantenere rapporti diretti. E alla fine è la musica che vince. L’idea, la sua realizzazione. Spesso chi non raggiunge il successo trova un sacco di scuse: colpa della distribuzione, della promozione, del booking. Invece, quasi sempre, se non funziona, è colpa del progetto”.

Come vedi il futuro della musica (in generale) e di quella registrata (nello specifico)?

“Il problema è nelle capacità di “vendita”, non di diffusione e tanto meno di creazione. Queste crescono a dismisura, proprio grazie al digitale che invece è la tomba delle possibilità commerciali della musica registrata. Diciamo che la musica dal vivo, i concerti fatti da persone in carne, ossa, nervi, corde vocali e sudore, non si possono scaricare, si possono registrare o filmare e mettere in un file ma non è la stessa cosa”.

Un tempo l’esigenza di fare musica sembrava legata a un bisogno interiore dell’artista, oggi sembra più legata all’aspetto “figo” del fare musica e all’eventuale successo.

“E’ stato sempre così, diciamocelo, già quando ero poco più che adolescente mi era facile trovare fidanzate perché suonavo, è il fascino dell’artista. Oggi potrei dire che c’è un inizio e uno sviluppo (e quasi mai c’è una fine) nel fare musica, nel motivo per cui una persona si mette a scrivere musica e provare a trasmetterla al pubblico. L’inizio può essere, adesso come lo era anche 40 anni fa, perché fa “figo”. Poi c’è chi rimane su questa lunghezza d’onda e chi matura piano piano l’idea che si sta facendo arte. Ci si esprime con essa. E matura l’idea che questo possa essere un lavoro. Perché il mondo – per non morire – ha bisogno di musica, di arte e di bellezza. Ma detto questo non trascurerei l’elemento “divertimento”. Fondamentale come d’altronde il godimento che si prova nel suonare, comporre, cantare”.

Perché in Italia non si è mai creato un bacino numeroso d’ascoltatori rock come in altri Paesi (Germania, Francia, UK)?

“Non saprei, forse perché siamo ancora il Paese del Bel canto? O più materialisticamente non si è fatto nulla, nei decenni, per facilitare la diffusione della musica rock. Dico come facilità di organizzare, progettare, creare reti. Le istituzioni (e ci metto anche la televisione e la Siae) non hanno aiutato. Anzi spesso hanno boicottato. Noi siamo l’unico Paese nel mondo, dico nel mondo, ad avere una cosa come il Festival di Sanremo, quando lo raccontiamo ai nostri amici giapponesi, messicani, americani (ma anche belgi) non riescono neppure a capire di cosa si tratta”.

Oggi sembra ancora reggere l’aspetto legato ai concerti. Da musicista, produttore, discografico com’è cambiato il live?

“I concerti sono fondamentali. Anche se la crisi morde pure questo settore e le occasioni diminuiscono, ma ce ne sono ancora molte e poi uno se le inventa. Il live è cambiato nel senso che tutto è molto più professionale di quanto lo fosse venti anni fa. E questo aiuta la crescita dei giovani talenti, che devono insistere, anche se è sempre più difficile in questa fase: ma la cosiddetta “gavetta” è importantissima”.

Che cosa deve trasmettere una canzone in chi la ascolta?

“Una canzone deve raccontare. Sentimenti, stati d’animo, storie. Deve essere “semplice”, perché è la sua cifra stilistica e deve trasmettere essenzialità. Quando questa capacità di sintesi custodisce la profondità della narrazione e dei colori che si è voluto rappresentare, si catturano l’attenzione e i sentimenti di chi ascolta. In più, per quanto mi riguarda, resto legato molto anche a una cosa che ritengo necessaria, anzi urgente: la melodia”.

Ha senso pubblicare un supporto discografico (anche sottoforma di file) in questo periodo storico?

“Oggi viviamo una generalizzata, enorme, diversificazione degli strumenti di diffusione della musica. Non c’è più un supporto solo, come lo è stato per molti decenni. E c’è comunque una prevalenza di valore nella musica dal vivo. Quindi sembrerebbe quasi superfluo “fare un disco”. Ma non è così, penso al teatro e provo a fare un confronto… il disco è come il copione per il teatro. Fare un disco oggi (operazione fra l’altro molto più onerosa che stampare un libro) vuol dire dare il via a un progetto musicale che poi si sviluppa nelle “recite” (i concerti) dal vivo e cresce nella sua diffusione sui palcoscenici. Il disco è anche una forma di promozione del progetto stesso, un multiplo che spesso vive principalmente nella dimensione digitale on line. Ma resta un’opera d’arte, l’inizio e il cuore pulsante della produzione musicale”.


Giampiero Bigazzi
Produttore, editore, compositore, autore e musicologo, ha cominciato a suonare nel 1968 e ha legato il suo nome a quello dell’etichetta Materiali Sonori. Più “organizzatore di suoni” che musicista, ha collaborato con importanti artisti e band fra i protagonisti della musica indipendente e di ricerca in Italia e nel mondo. Scrive, organizza festival, mette in scena spettacoli di narrazione e di teatro minimo musicale.