Case discografiche multinazionali ed etichette indipendenti. Due facce della stessa medaglia. Due facce che hanno comunque un obiettivo comune, produrre musica, quindi dischi (non importa quale sia il supporto) e venderne il più possibile. Abbiamo cercato di capire con due esponenti della discografia cosa significhi oggi major e indipendente.
Giampiero Bigazzi (Materiali Sonori) e Gabriele Minelli (Universal Music Italia) si sono prestati a questo gioco al “massacro”. “C’è spesso, ed è la cosa di maggiore rilievo, una differenza economica. Consideriamo major quelle aziende discografiche che sono delle multinazionali, legate a gruppi che operano in tutto il mondo su più livelli nell’industria dell’intrattenimento. Più o meno è lo stesso meccanismo che esiste nel cinema (e in molti casi i marchi sono gli stessi)” ci racconta Bigazzi che continua “Oggi le major sono ormai solo tre, per ordine di grandezza: Universal (USA), Sony BMG (Giappone/Germania), Warner (USA). L’industria discografica quindi vede circa il 75% del mercato in mano a queste compagnie, poco più del 23% è realizzato dalle etichette indipendenti. Che non è poco. Ma questa fetta di mercato fuori dalle multinazionali non è formata solo da piccole realtà, spesso sono aziende nazionali di grande rilievo. Per indipendenti, dal periodo di fine anni Settanta, s’intende una modalità di comportamenti, che le distinguono dalle grandi compagnie. Fra le indipendenti, il rapporto con l’artista e con il prodotto musicale, è molto diretto. Spesso chi gestisce un’etichetta indipendente è anche il produttore, lavora in studio, concepisce il progetto insieme a chi suona. Capita anche che siano gli stessi musicisti a gestire l’etichetta. Le indipendenti, in fondo, rispondono solo a loro stesse, mentre le filiali delle major hanno capi multinazionali ai quali rispondere più sui numeri che sulla musica. Le indipendenti, inoltre, puntano sul concerto, elemento di base di ogni operazione musicale di oggi, e quindi spingono i musicisti a curare l’aspetto live. Spesso sono le stesse agenzie di booking che producono i dischi degli artisti da loro rappresentati. Le indipendenti faticano a mandare i loro cantanti al festival di Sanremo e quelle più serie non ci pensano nemmeno. Le indipendenti sono fuori dal gioco dei talent televisivi, che invece sono stati organizzati con la benedizione delle major, proprio come bacino di raccolta dei nuovi nomi da lanciare. Le indipendenti hanno, per forza di cose, meno soldi a disposizione”. Minelli, dal canto suo ci spiega come sia suddivisa una multinazionale: “La major è strutturata, nella sua parte ‘frontline’, che si occupa di progetti nuovi non di catalogo, come ogni altra label. Un’area A&R che segue lo scouting e lo ‘start up’ di ogni progetto; il marketing che struttura la comunicazione e la promozione che lo presenta ai propri referenti media (radio, tv, stampa, web). Il tutto è integrato con la parte commerciale, che si occupa della distribuzione fisica e digitale e del rapporto con i clienti e con quella legale e amministrativa che regola contrattualistica, rendiconti e pagamenti”. In questi anni di cambiamenti, di mutazioni e mutilazioni il mondo delle case discografiche è cambiato o no? “Innanzitutto il mondo delle major si è ridotto e ristretto, numericamente e come sfera d’influenza. Il digitale ha attivato un cambiamento, non solo nelle major chiaramente, ma anche nella fruizione e nella vita dell’opera registrata, che è ancora in atto e sotto gli occhi di
tutti. La vita delle opere, unita ad altri fattori come, per esempio, l’importanza dei singoli all’interno del consumo della musica (soprattutto per alcune fasce demografiche) e la rilevanza dei prodotti con provenienza e/o visibilità televisiva, ha reso più difficile l’investimento da zero su progetti completamente nuovi e avulsi da tutto ciò. Difficile ma non impossibile né proibito. Infine, molti grandi cambiamenti sono avvenuti sul fronte retail o commerciale: anche questi non riguardano solamente le major e non sono del tutto dissimili ai cambiamenti accaduti in altri settori merceologici” ci spiega Gabriele. Il punto di vista di Bigazzi è invece questo: “È cambiato il mercato della musica. A parte il live, che resta centrale per i musicisti indipendenti, oggi non c’è più un prodotto, un supporto musicale, dominante. Di musica ne circola tantissima, più che in altre epoche, ma viaggia su mille canali differenti e nessuno primeggia in modo consistente sugli altri. Quindi le etichette indipendenti, quelle che sono rimaste di una certa consistenza, hanno dovuto tenere conto di questo nuovo scenario. E quelle che stanno resistendo alla crisi economica globale si sono adattate, sfruttando ogni possibile occasione di diffusione della propria musica. Oggi si assiste anche al fenomeno della gestione diretta delle band e dei musicisti, che creano una società, s’inventano un marchio e producono i propri dischi (e spesso non hanno un vero e proprio catalogo, ma un titolo o due). E il concetto resta lo stesso, autogestione in un contesto editoriale ed economico organizzato: in fondo la scommessa delle indipendenti è tutta qui”. A questo punto una domanda per Giampiero è quasi d’obbligo. Perché sono state importanti le case discografiche indipendenti? “Oltre le major (che negli anni sono state diverse e si sono anche accorpate), l’idea di autogestirsi è stata sempre presente nella storia della musica e del disco. Perfino Elvis si stampò autonomamente il suo primo singolo e lo andò a distribuire fra le radio americane. In Italia mi piace ricordare l’esperienza di Cantacronache negli anni Cinquanta a Torino. Ma poi, tanto per rammentarne solo alcune, c’è il Clan di Celentano e anche la Numero Uno di Mogol e Battisti o la PDU di Mina. Perfino Claudio Lippi negli anni Sessanta creò un suo marchio, Disco Azzurro. Esperienze collegate nella distribuzione (e probabilmente in qualche modo anche nella produzione) alle major o a grandi compagnie nazionali italiane, ma che affermavano l’autonomia creativa e la gestione della propria musica. La svolta c’è stata poi con la rivoluzione punk, che a fine anni Settanta in UK e anche in molti paesi europei ha portato la nascita di tante etichette indipendenti che hanno definito con il loro lavoro, e direi soprattutto con la loro ricerca di talenti nuovi, l’idea di etichetta indipendente che è in vigore ancora oggi. Ovunque si è affermata la voglia di sperimentare, di ricercare, di osare. Per questo, storicamente e anche nella musica, è importante l’indipendenza e il controllo dei ‘mezzi di produzione’. Sposta l’orizzonte”. L’ultima battuta tocca a Gabriele per capire come si svolge il lavoro su una pubblicazione da parte di una major. “Non c’è alcuna differenza sostanziale nella maniera in cui si svolge il lavoro su un disco presso una major o un’indipendente. Il lavoro, piuttosto, cambia a seconda del tipo di progetto su cui si sta puntando e del mercato cui si riferisce. L’ossatura resta quella già descritta: il dipartimento A&R cerca nuovi artisti e/o coordina il lavoro su nuovi dischi di artisti già firmati, sia per il recording sia per la parte di ‘confezione’ del progetto, preparando strumenti quali le foto, i video, la grafica ecc. Strumenti che sono poi utilizzati dal marketing e declinati alla promozione, in maniera tale che del progetto ‘se ne parli’, e alla forza vendite, che si attiva affinché i propri clienti s’interessino e acquistino il prodotto”. Insomma Major e Indipendenti sono le facce di una medaglia che è stata lanciata in aria da tempo, ma deve ancora toccare il suolo per decretare il vincitore.