FRANZ DI CIOCCIO (Pfm)
La P.F.M. è il gruppo rock italiano più famoso al mondo. Franz Di Cioccio è il batterista e la voce della P.F.M. Lui c’era agli inizi, lui c’è adesso nel momento in cui la band ha pubblicato un nuovo fiammante album, “Emotional tattoos”. Intervistare Franz significa essere travolti da un fiume in piena di ricordi e passione.
Cosa ti ha spinto a fare musica?
Mio papà era un oboista e suonava in una orchestra, poi è diventato un componente di una band jazz, aveva una vasta collezione di musica classica e tutti i giorni si ascoltava musica. Poi purtroppo, per colpa di una pleurite, ha dovuto abbondare la musica e diventare un sarto, che era il mestiere di famiglia. Anch’io insieme ai miei tre fratelli davo una mano in sartoria. La musica però era la mia passione, ho iniziato suonando il sassofono, poi il mio trasporto per il ritmo mi ha portato alla batteria, uno strumento basilare, è il nodo centrale di una band. Era un periodo nel quale ero folgorato dal rock.
Ci racconti il periodo con I Quelli, la band precedente alla P.F.M.
I Quelli sono stati fondati da me, mio padre voleva che studiassi, invece ho lasciato la scuola all’ultimo anno quando abbiamo inciso il primo disco. Siamo entrati subito in contatto con la scena musicale milanese, era un momento di grande apertura, c’erano i cantautori, gli autori, la discografia cominciava a produrre tanti nuovi artisti e subito siamo diventati dei sessionman. Il mio stile ha avuto un grande riscontro, perché suonavo liberamente ed ho trovato molti musicisti che amavano questo mio modo di suonare senza seguire un arrangiamento già preparato, mi riferisco ad artisti come Lucio Battisti, Adriano Celentano, Mina, Al Bano. In quel periodo ho imparato a gestire i suoni in studio. L’artista al quale sono rimasto più affezionato è sicuramente Battisti, un grande compositore con una voce assai particolare, eravamo molto in sintonia. Aveva una grande esperienza, avendo fatto tutta la trafila nelle sale da ballo, riusciva a capire come interagire con un brano ed avevamo dei gusti abbastanza simili. Le sessioni con lui erano decisamente belle, magari si suonava una mezz’oretta e poi se il pezzo girava si registrava. Erano situazioni affascinanti, molto diverse da entrare in sala suonare la tua parte ed andartene. Per me è stata una buona palestra.
Quanto è importante la scelta di un nome per una band?
È importante se non segui la moda del momento. Premiata Forneria Marconi nasce perché i nomi degli animali erano già stati tutti usati. Il nome de I Quelli era un azzardo, essendo la traduzione del nome dei The Who, però in inglese ha un significato profondo ed ironico che in italiano si perde. Un bel nome in italiano per un gruppo è molto difficile da trovare. Era un periodo nel quale si facevano le cover e a I Quelli capitavano sempre quelle di terza mano e non funzionavano. Nel nostro primo LP c’erano solo cover, dalle facili a quelle più complesse che guardavano avanti, come “Pensieri”, cover di “The Thoughts Of Emerlist Davjack” dei The Nice, “Hush” dei Deep Purple, o “Tornare Bambino”, cover di “Hole In My Shoe” dei Traffic. Abbiamo frequentato tutti questi gruppi che poi sarebbero diventati grandissimi negli anni ‘70 in maniera inconsapevole, perché affascinati dalla loro musicalità, che permetteva anche agli strumentisti di giocare un ruolo determinante, ruolo che solitamente era solo del cantante. Quando abbiamo capito che in giro c’era aria nuova abbiamo deciso di cambiare nome. Però doveva essere di rottura, quindi ci inventammo il nome più lungo della storia, perché più è difficile da memorizzare, più rimarrà impresso. Con un nome così particolare siamo diventati il caso di quel periodo. All’estero, però, lo pronunciavano a fatica, ma Pete Sinfield, il nostro produttore nonché paroliere e fondatore, insieme a Robert Fripp, dei King Crimson, ci propose di usare l’acronimo, molto più facile da pronunciare in inglese.
All’inizio di carriera avete suonato di spalla ad artisti importanti come i Deep Purple. Sono state importanti queste opportunità?
All’estero queste opportunità erano il pane quotidiano. In Italia questo sistema non veniva mai usato perché non c’era la possibilità, non si poteva affiancare ad un gruppo straniero un cantante italiano perché sarebbe stato fuori contesto, però quando sono arrivati le band con ottimi musicisti la P.F.M. era il gruppo perfetto per aprire i loro concerti. Eravamo preparati, mi ricordo di aver fatto sei mesi di prove costanti per affinare le nostre qualità d’improvvisazione, perché avevamo scelto una serie di cover per far capire le nostre capacità di esecuzione. Quando il nostro manager inviò un nastro a Greg Lake, che aveva appena aperto la Manticore Records, Greg rimase colpito dalla nostra esecuzione del brano dei King Crimson, che lui conosceva molto bene e ci chiamò per una audizione. Non credeva che potessimo suonare in modo così impeccabile quel brano e ci voleva vedere. Dopo l’audizione firmammo un contratto discografico con la Manticore.
Cosa ricordi dei concerti con i Deep Purple?
Al palasport di Bologna si vergognarono a presentarci. Non eravamo ancora conosciuti ed inoltre la piazza del capoluogo emiliano, come tutta la regione, è una piazza difficile perché mastica musica dal vivo in varie forme, i locali dell’epoca erano tutti in Emilia-Romagna e non potevi fare il figo spacciandoti per un musicista d’alto livello senza esserlo. Insomma, nessuno ci presenta, tutti aspettavano di vedere i Deep Purple dopo diversi anni di attesa e non era pensabile di dare mezz’ora ad un gruppo sconosciuto. Così andammo sul palco a freddo, la platea vide questi cappelloni che potevano essere una band inglese ed attaccammo con un brano molto complesso ed affascinante, “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson, con una parte centrale piena di stop, c’eravamo allenati molto per suonarlo, tanto che guardavamo per terra quando c’erano gli stop e vederci dalla platea faceva molta impressione. Dopo cinque brani, tra cui una cover dei Chicago, che facevamo pur non avendo i fiati, proprio per misurarci con l’arrangiamento, il pubblico era già dalla nostra parte. Sembravamo una band più inglese di quanto all’epoca potessimo essere italiani. Sul palco non parlavamo, non dicevamo neanche una parola ed in molti hanno pensato che i Deep Purple si fossero portati con loro un gruppo anglosassone.
Se per la Gran Bretagna eravate con la Manticore in Italia avete firmato con la Numero Uno, perché?
Era una etichetta nata da poco ed era propensa alla sperimentazione. Era una casa discografica creata da persone che volevano dare vita ad un nuovo team con idee innovative, tra loro c’era Alessandro Colombini, produttore fantastico e direttore artistico della Ricordi, che ci conosceva molto bene, ci aveva chiamato quando eravamo I Quelli per suonare in diversi dischi. Ha visto in noi delle potenzialità diverse, strumentisti che non avevano un cantante di ruolo.
Nella stesura di un brano ci si accorge di aver scritto una potenziale hit?
La certezza che diventerà un successo non la puoi avere, però puoi intuire o percepire qualcosa. Noi per principio abbiamo sempre deciso di scrivere un album diverso dal precedente in modo da evolverci. Se si ripete all’infinito un successo non c’è nessuna evoluzione. Se decidi di suonare progressive non puoi pensare che diventi regressive.
Cosa significava suonare progressive negli anni 70?
Significava poter usare la parte strumentale alla pari della parte vocale. Non erano canzoni con la classica forma strofa/ritornello ma brani dove c’era libertà di sperimentare ed improvvisare. Per esempio, l’arrivo di Patrick (Djivas) ha portato nella P.F.M. la sua cultura ed un tocco mediterraneo. Il pubblico in quegli anni capiva che la musica strumentale aveva pari dignità rispetto a quella cantata.
A proposito di Patrick, è stato difficile per lui abbandonare gli Area ed entrare Nella P.F.M.?
Nelle band è normale che ci siano dei contrasti ed è normale che quando vedi che questi contrasti minacciano il tuo futuro decidi di entrare in un’altra band, dove pensi di poter continuare a fare il musicista di professione.
Cosa ha significato andare in tour negli Stati Uniti?
Significava andare all’università, lì è tutta un’altra dimensione. Abbiamo imparato tante cose in America, per esempio a stare sul palco, ogni sera suonavamo con artisti diversi, prima di Santana, o in Texas prima degli ZZ Top. In America non gli interessa di quale nazionalità tu sia, la cosa che conta è funzionare sul palco. Noi non volevamo sembrare americani e alla fine siamo l’unico gruppo italiano entrato nella classifica di Billboard. Nella musica della P.F.M. c’erano le nostre radici ma anche un linguaggio internazionale. Piacevamo perché suonavamo come i jazzisti però facendo rock. Di noi dicevano che non facevamo mai lo stesso concerto anche se i pezzi erano gli stessi.
Come è nato il disco dal vivo registrato negli States?
È nato casualmente, era stato affittato uno studio mobile per registrare un live degli Emerson, Lake & Palmer, però il concerto saltò, quindi decisero di mandare lo studio al Central Park di New York dove ci saremmo esibiti. Arrivavamo nella Grande Mela da una quindicina di date ed altre venti che ci aspettavano, a furia di fare delle improvvisazioni quel giorno siamo riusciti a suonare come avremmo sempre desiderato. Nel disco c’è una jam session di 20 minuti che ha fatto scuola. Negli anni abbiamo incontrato, in svariati festival, diversi musicisti che ci hanno detto che erano presenti al Central Park ed erano affezionati al nostro album dal vivo.
Quanto è importante la copertina per un disco?
Le copertine dei dischi sono importanti se tu riesci ad avere una idea che racchiude il progetto, azzeccatissime sono la banana di Andy Warhol, o la zip dei The Rolling Stones.
Anche le vostre copertine sono tra le più azzeccate. Per esempio quella di “Passpartù”. Come avete coinvolto Andrea Pazienza?
La copertina di “Passpartù” nasce dal mio amore per i fumetti. Pensavo che per quel disco serviva una immagine che racchiudesse l’idea di una musica che apriva tante porte. Parlando con Gianni Sassi, il fondatore della Cramps, della mia idea di copertina mi disse di un giovane talento che conosceva e che l’indomani avrei potuto incontrare. Con Andrea ho subito avuto un bel feeling. Gli ho spiegato il progetto e gli è piaciuta lui l’idea, non aveva mai realizzato una copertina di un album prima di quel momento. Ci ha disegnati come una squadra di malandrini che stanno scassinando una porta. La metafora era la porta della musica, che noi stiamo forzando per arrivare a diverse musicalità. Il disco, infatti, aveva una musicalità rock ma improntata anche sull’acustico, non c’era l’aggressività dei lavori precedenti, era un lavoro più denso di musica. Ritornando alla copertina, direi che è eccezionale, tutti noi siamo stati disegnati in maniera perfetta. Nella busta interna Andrea ha fatto alcuni fumetti per descrivere i brani cogliendo lo spirito di ciascun pezzo. Nel tempo è diventata un simbolo e noi ne eravamo molto orgogliosi. Un’altra copertina molto riuscita è quella di “Jet lag”. Noi non abbiamo la mucca dei Pink Floyd ma un aereo di carta che attraversa il cielo, a significare un jet lag culturale oltre che temporale.
A proposito di “Jet lag”, uscito nel 1977, cosa ci puoi raccontare?
All’epoca era una parola che non conosceva nessuno e molti ci chiedevano cosa volesse dire la “Gamba del jet”, leggendo in maniera errata la parola in inglese. Avevamo girato il mondo e in questo girovagare abbiamo anche affrontato il jet lag culturale, semplicemente perché vedendo l’America non riuscivi più a comprendere alcune cose che vivevi in Italia.
Invece “Passpartù” ha segnato una sorta di svolta nella vostra carriera?
È stato un disco di rottura. Dal vivo funzionava perfettamente, mentre le vendite non sono state eccezionali. È un album che è stato capito successivamente. Ha fatto da promotore al progetto successivo.
Immagino ti riferisci al vostro incontro con Fabrizio De Andrè.
Con lui ci siamo occupati di dare una nuova veste ai suoi meravigliosi testi, perché nessuno aveva ancora capito che potevano essere ascoltati in un’altra chiave. Abbiamo usato molte atmosfere che erano state sperimentate in “Passpartù”.
Gli anni Ottanta si sono aperti con due album commercialmente molto fortunati: “Suonare suonare” e “Come ti va in riva alla città”. Cosa è successo alla P.F.M.?
Abbiamo capito che la canzone poteva avere un’altra chiave di lettura. Quindi imparammo a raccontare le nostre storie e registrammo “Suonare suonare”. Da quel momento abbiamo sempre affrontato le canzoni dando spazio alla musica ma anche ai testi.
Però verso la fine degli anni ’80 vi siete fermati.
Sì, ci siamo fermati senza scioglierci perché erano anni abbastanza caotici, poi dieci anni dopo, come può succedere, siamo usciti con un disco intitolato “Ulisse”, che ha vinto il disco d’oro. I tempi erano maturi per poterci reinserire, c’era la possibilità di esprimere diverse musicalità.
Da quel momento non c’è stato più nessuno stop.
Sì, è arrivato un disco estremamente importante come “Stati di immaginazione” del 2006, dove affrontiamo tematiche molto belle con brani strumentali perché volevamo riportare l’attenzione sulla musica suonata. Otto storie tra immagini e musica. Poi abbiamo reso omaggio a Fabrizio con le capacità maturate negli anni. Il penultimo capitolo è stato “PFM in classic”, un album dove abbiamo sperimentato, immaginando Mozart che in un viaggio temporale conosce la batteria, la chitarra e vuole suonare insieme a questi strumenti. Abbiamo fatto quello che da sempre ci contraddistingue con i nostri brani lavorando però su “Il flauto magico”, o “Romeo e Giulietta” che non sono proprio facili.
Infine è arrivato “Emotional tatoos”.
Sì, un disco non allineato come i nostri precedenti album. Un LP con diverse possibilità di lettura, perché non è un disco di genere. Adesso non possiamo essere definiti progressive perché siamo tutto quello che siamo in un colpo solo. Musicisti liberi da ogni condizionamento.
Qual è un suggerimento da dare ai giovani musicisti?
Bisogna essere sé stessi, senza camuffarsi. Non bisogna convincere gli altri mostrandosi per quello che non si è. Tirate fuori quello che siete.
JOHN DEL LEO
Definire John De Leo un cantante, sarebbe riduttivo: artista trasversale, organizzatore del festival di musica e altre forme espressive Lugocontemporanea a Lugo di Romagna, nel 2016 ha ricevuto il riconoscimento come Ambasciatore UNESCO per la cultura. Oltre ad aver pubblicato due album da solista, aver collaborato a una decina di spettacoli teatrali a fianco di nomi come Danilo Rea, Paolo Fresu, Stefano Benni, oltre ad essere stato co-fondatore dei Quintorigo (dal 1992 al 2004), ha prestato la sua voce-strumento a una miriade di progetti musicali, passando con disinvoltura dal jazz al rock, dalla musica classica fino al pop. Più di recente ha pubblicato un album, “Sento Doppio”, uscito lo scorso ottobre per Carosello Records e realizzato assieme al pianista Fabrizio Puglisi.
Come ti sei avvicinato alla musica, e quando hai capito che sarebbe diventata la tua vita?
“Va detto che sin da adolescente, in maniera assolutamente sconsiderata, ho sempre pensato che questo sarebbe stato il mio mestiere. All’epoca non pensavo mi sarei mai dedicato a nessun’altra cosa in vita mia, e credo di aver avuto veramente tanta fortuna a essere riuscito a concretizzare questo sogno. Ho avuto soprattutto la fortuna di aver potuto lavorare con musicisti molto bravi, magari con un linguaggio anche diverso dal mio, con cui confrontarmi e crescere musicalmente. Però, ecco, va sottolineato come il mio fosse un atteggiamento assolutamente sconsiderato, un deflusso della stupidità giovanile. Altrimenti si rafforza un concetto che è deleterio e diseducativo, quello secondo cui volere è potere: va ricordato che oltre alla bravura, il talento e l’impegno, ci vuole tanta fortuna. Perché nella vita purtroppo le cose non sempre vanno come uno vorrebbe”.
Guardando il tuo curriculum passato e recente, e riferendosi anche al tuo ultimo disco “Sento Doppio”, spiccano appunto le collaborazioni con tantissimi artisti anche in ambiti diversi, da jazz sperimentale di Petrella fino al rap crossover di Caparezza.
“Solitamente sono incontri non dipendono da me, ho avuto la fortuna di essere chiamato a collaborare. Anzi, le poche volte che ho provato io a contattare qualcuno non sono mai riuscito a concretizzare. E per quanto purtroppo sia perseguitato anche da un alone snobbistico, quando qualcuno mi chiama a collaborare raramente o rarissimamente mi sono sottratto. Cerco sempre di approcciarmi nella maniera più professionale possibile, mettendomi a disposizione dell’idea del regista del momento, portando un contributo che sia mio senza al contempo snaturare il mio necessario. Rifuggo più che altro chi fa parte del music business in modo spudorato. In gioventù per esempio mi è successo di rifiutare dei progetti senza voler sapere a quanti soldi stavo rinunciando”.
E per quanto riguarda invece i tuoi progetti personali, come i tuoi album da solista o la Grande Abarasse Orchestra, come scegli i musicisti con cui lavorare?
“Diciamo che nel tempo preferisco attorniarmi di persone con cui è possibile uno scambio anche umano, qualcosa che vada oltre al mero discorso musicale, altrimenti è faticoso lavorare e stare insieme. Questo credo che sia determinante anche per la musica stessa: io in particolare mi trovo spesso a lavorare da solo, ma non amo lavorare da solo, preferisco condividere e quindi amplificare magari l’entusiasmo rispetto al progetto al quale ci si sta dedicando”.
Parliamo di “Sento Doppio”: mi parli di come è nato questo disco?
“Ho incontrato Fabrizio Puglisi perché chiamato a collaborare con lui in occasione di un vernissage, la presentazione di una mostra pittorica di Giuseppe Zigaina, un collaboratore storico di Pasolini, che è morto di recente, ma al tempo era ancora vivo. Ci hanno chiamato per musicare in tempo reale, in maniera estemporanea, alcune sue opere pittoriche: quindi in pratica ci siamo incontrati direttamente sul palco, abbiamo iniziato a conoscerci anche dal punto di vista musicale, in qualche modo ci siamo stati simpatici e ci siamo ripromessi di sperimentare insieme. Così, senza un obiettivo preciso. Tempo dopo abbiamo iniziato a fare delle prove, che sono durate un anno e mezzo, fino a quando qualcuno ha scoperto che esisteva questo progetto e ci ha chiamato a fare alcuni concerti, e abbiamo pensato di fermare su disco questo esperimento in duo. Nel frattempo, però, dal momento in cui abbiamo deciso di registrarlo e la sua uscita sono passati altri tre anni”.
Tre anni sono un bel po’ di tempo: come mai avete impiegato così tanto?
“Generalmente devo dire che io tra una pubblicazione e l’altra impiego purtroppo troppo tempo. Dico purtroppo per me, perché in questo tempo così veloce si fa presto ad uscire dall’immaginario: tra il mio terzultimo lavoro e quello successivo sono passati sette anni, e al giorno d’oggi non ce lo si può permettere. E’ che io ho un concetto del tempo molto più rallentato rispetto alla scansione inarrestabile e frenetica di questi tempi, che stride con quello che sono io, e che non credo porti quasi mai a delle scelte ponderate. E’ una modalità che distrugge il concetto di memoria, perché ogni cosa viene sopraffatta da quella successiva in maniera repentina e velocissima, e questa cosa mi dispiace perché tante cose vanno nel dimenticatoio. Intendo cose non solo musicali, ma che riguardano tutti, che fanno parte della nostra storia, degli errori che facciamo come esseri umani”.
Aprendo il tuo sito la prima cosa che si legge è una frase che dice: “Il rispetto per il pubblico non sta nell’accontentarlo”. Potrebbe essere una sintesi della tua visione del fare musica?
“Io sento un forte rispetto per il pubblico e per la sua intelligenza, anche perché anche io mi sento parte del pubblico: vado a vedere concerti, leggo libri e guardo le cose che ci circondano. E sento purtroppo sempre meno di essere rispettato. È difficile da spiegare, diciamo così: se cantassi quello che il pubblico si aspetta già e che già conosce, non credo lo rispetterei. Infatti secondo me la gente alla quale ‘piace quello che piace’ solitamente in realtà applaude se stessa, perché riconosce quello che conosce. E non lo mette nemmeno in discussione, perché è molto più facile, è consolatorio”.
Per concludere: che consiglio daresti a un musicista che vuole fare carriera, vivere di musica, in questo momento?
“Gli sconsiglierei per esempio di avere come obiettivo, o almeno non come obiettivo unico, quello di diventare famoso. Non che ci trovi nulla di male, io stesso avevo le mie passioni e pensavo magari di imitare la carriera di altro. Però come dicevo all’inizio terrei presente che le cose spesso non vanno esattamente come vogliamo, quindi come musicista gli consiglierei di cercare di diventare bravo, di mantenere una passione per quello che si fa al di là del plauso della gente, e di divertirsi cercando però al tempo stesso di essere critici. Perché comunque suonare, così come giocare, è una cosa serissima, anche nel divertimento”.