Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.
L’inizio della mia formazione musicale ha un unico protagonista assoluto: mio fratello maggiore, che non solo ascoltava la classifica di Lelio Luttazzi in radio (Rai) e cominciò a segnalarmi le canzoni che gli piacevano quando io avevo più o meno 5 anni (lui ne ha 7 più di me, quindi ai tempi era nel meraviglioso bel mezzo dell’adolescenza), ma chiese per primo ai nostri genitori una tastiera giocattolo in regalo per Natale. E fu quindi subito copiato da meϑ. Un paio di anni dopo, avendo cominciato a comprare regolarmente dischi, inaugurò un’abitudine che si rivelò per noi fondamentale: tutti i giorni (tutti!), dopo pranzo, mi invitava a seguirlo in salotto dove mio padre teneva l’unico stereo di casa (l’immancabile Stereorama 2000 della “Selezione del Reader’s Digest”) per ascoltare insieme un disco. Che poi diventavano due o tre, per un paio d’ore di ascolto. Insieme, davanti alla copertina di un vinile di Genesis, Yes, Le Orme, King Crimson, Deep Purple…in quel modo la nostra formazione musicale si cementava giorno dopo giorno, insieme al nostro indissolubile rapporto. Quello che avevamo in comune era sempre e immancabilmente la musica, le musiche che ascoltavamo, quindi le note, gli strumenti, i testi, le copertine, le luci, i palchi..tutto quello che aveva a che fare con la musica suonata, esibita, registrata, venduta, comprata, vissuta da noi due giorno dopo giorno. Nessuna differenza fra di noi, nonostante 7 anni di differenza che quando uno ne ha 14 e l’altro 7 diventano un’eternità.
E per me tutto ciò era un’inesauribile fonte di apprendimento e conoscenza musicale: prima il prog (di cui sopra) poi alcuni cantautori italiani (pochissimi Dalla, Pino Daniele e Bennato fondamentalmente), poi Bowie, i Roxy Music e Brian Eno, poi l’hard rock (Deep Purple ancor prima dei Led Zeppelin, AC/DC), poi il metal anni ’80, Van Halen, Iron, Judas, Scorpions…poi i Police e un salto secco verso la new wave e la musica elettronica, saltando il punk che avrei ripreso poi un po’ più tardi: Simple Minds, Ultravox, Eurythmics, Talk Talk, John Foxx, Japan, Tears For Fears, e moltissimi altri. Poi la sensualità dark di The Cure, This Mortal Coil, Dead Can Dance, Siouxsie, sublimata ed elevata a malinconia romantica con David Sylvian e i suoi “confratelli”… mentre sulle loro personali corsie preferenziali sono sempre stati e sempre rimarranno Peter Gabriel (praticamente l’artista che ha traghettato il pubblico tradizionalmente prog verso la new wave prima e la sperimentazione al servizio delle canzoni pop poi) e gli U2, la band della mia tarda adolescenza e poi di tutti i momenti più importanti dei miei primi 30 anni.
Mio fratello scoprì ovviamente per primo la radio attraverso la nascita delle “radio libere”, quelle private che alla fine degli anni ’70 proliferarono in ogni città, cittadina e paese d’Italia. E le scoprì sia come ascoltatore che come improvvisato deejay di Radio Saronno International (International…??? ϑ ), che ovviamente io andavo a veder trasmettere la sera, scortandolo con sottobraccio i dischi che avrebbe trasmesso. La radio, a parte questo periodo, non è però mai stata importante nella mia formazione musicale fino a quando non ho cominciato a lavorare in discografia: l’ho così scoperta come fonte di musica, di intrattenimento, e come media capace di guidare con forza e rapidità i gusti del pubblico. Ho imparato ad apprezzarla e poi ad amarla, così come ho conosciuto generi, artisti, canzoni che non solo non conoscevo ma anche snobbavo stupidamente.
E poi i concerti: non appena ho avuto l’età che i miei ritenevano “ok” per poterci andare (15 anni…) non ne ho potuto più fare a meno. Ho sempre considerato l’andare ad un concerto come il privilegio di poter vedere qualcosa di irripetibile accadere ed espandersi di persona in persona fino a raggiungere l’ultimo spettatore nel club, o palazzetto o prato o stadio, e rimbalzare verso tutte le persone a cui poterlo raccontare (tempo fa a voce e il giorno dopo, ora prima possibile grazie ai social…). Ne ho sempre visti più possibile e letteralmente di ogni genere (i miei primi due furono, nell’ordine: Roberto Ciotti e i King Crimson…), anche prima di andarci anche per lavoro, e avendo anche cominciato a suonare molto presto non ne ho potuto più fare a meno anche per poter capire di più di un palco, di uno strumento, di un impianto, e dell’essere artista quando si riesce a raggiungere un pubblico che si spera aumenti sempre di più e che vuole stare di fronte a te sotto il palco per un’unica ragione: stare bene, anzi benissimo, con la musica che sta ascoltando in quel preciso momento.
Dall’inizio degli anni ’90 in poi, la mia formazione musicale (la cui storia ho tentato qui di riassumere scrivendo di getto, così come mi è tornata alla mente: un flusso ininterrotto di input, emozioni, assimilazione e crescita continua) è stata invece fortemente influenzata dal mio lavoro, ossia dalla possibilità (cercata con estrema ostinazione fino a quel momento) di fare della musica non solo una costante quotidiana (già lo era) ma addirittura la propria occupazione, quello che fai tutto il giorno e tutti i giorni. Il mio lavoro ha inevitabilmente ampliato enormemente la mia conoscenza musicale e ha reso insaziabile la mia curiosità verso tutte le musiche che non conoscevo, in parte o per nulla. Ho conosciuto bene il rap ad esempio, ho soprattutto imparato a capirlo. Ho sviluppato il mio amore per le “pop songs” senza avere paura della stupida fobia del “commerciale” che esiste solo ed esclusivamente in un paese cialtrone come l’Italia (che si ricorda dei nostri giganteschi autori e cantautori solo quando “bisogna” commemorarli” su Fbook, e non perché hanno amato la forma canzone fino ad idealizzarla…). Fare bene il mio lavoro vuol dire non avere confini mentali, essere pronti ad abbracciare ogni tipo di musica per capirla e per poter capire il pubblico che ha o che potrebbe avere. Per fare questo bisogna lasciarsi andare, non rimanere ancorati ai propri presidi, pur ovviamente rispettando la propria natura, i propri gusti, la propria identità.
In sintesi: la formazione musicale e quella personale per me sono state un tutt’uno. Lo so, sono stato molto fortunato, ma anche molto caparbio: per mia fortuna mio fratello ha cominciato a “seminare” musica dentro di me, ma io l’ho fatta crescere e non l’ho più trascurata nemmeno per un secondo. Disco dopo disco, concerto dopo concerto, rivista dopo rivista (Rockstar, Rockerilla, le fanzine anni ’80…). Poi, ho capito tardi che non dovevo confinare la musica al tempo libero, ma quando l’ho capito ho fatto di tutto per farne il mio lavoro e da quel momento non ho fatto altro. E anche ora, in un’era in cui le occasioni, le fonti, i canali sono centinaia, cerco di non trascurare nulla, di non sminuire nessun artista o genere, al contrario cerco di imparare ancora, e ancora. Perché la musica va onorata, rispettata, alimentata, diffusa, difesa.
Al servizio della musica, dal 1965
(o quasi..).