Parliamo della tua esperienza al Covo Club. Cosa significa oggi, fare il direttore artistico?
“Di base significa provare ad interpretare i gusti del pubblico e cercare di essere sempre aggiornati su quello che succede nel mondo musicale. Credo sia necessario essere molto curiosi e vogliosi di scoprire musica nuova. Nel mio caso, essendo il Covo un locale storico, significa anche rispettare un’importante tradizione e provare a dettare la linea, cercare cioè di arrivare prima degli altri su quelle che saranno le nuove sensazioni del nostro micro mondo”.
Di solito come entri in contatto con gli artisti con cui poi scegli di collaborare?
“Il nostro rapporto è soprattutto con le agenzie. Abbiamo la fortuna di lavorare con tutte le principali, e di poter selezionare tra la parecchie proposte che ci vengono fatte. Spesso, inoltre, siamo noi a chiedere alle agenzie stesse di provare a lavorare con alcuni gruppi che ci piacciono e che crediamo possano funzionare. Infine a volte c’è anche il contatto diretto con le band, soprattutto quando non hanno agenzie di riferimento. Da questo punto di vista i social network sono stati utilissimi”.
Immagino che nel tuo lavoro entrerai spesso in contatto anche con realtà estere: che differenze noti tra il nostro Paese e l’estero?
“Naturalmente anche il nostro settore, quello della musica live, paga quelli che sono i difetti di questo Paese in generale: una burocrazia mostruosa, e regole poco chiare o di diversa interpretazione a seconda dei casi. Ma la nostra arretratezza è soprattutto culturale. I festival musicali, i locali che organizzano concerti o dove ci si diverte la sera, qui da noi sono ancora visti con sospetto, non si fa nulla per sostenerli, in diversi casi si cerca di eliminarli. Altrove si è capito da tempo che, al di là della sua importanza culturale, la musica è anche fonte di turismo ed indotto. Qui siamo ancora fermi al concetto di fenomeno giovanile o comunque culturale di serie B. Per nostra fortuna Bologna rimane un’isola felice, ma basta girare un po’ in Europa e vedere come funzionano le cose in città delle stesse dimensioni per capire che siamo comunque molto indietro”.
Perché il mercato discografico si è così contratto, e come vedi il futuro della musica?
“Bisogna considerare che il motore del mercato musicale è sempre stato rappresentato dai giovani. Chi oggi ha 20 anni da bambino già scaricava musica gratis, ed ora la ascolta dal computer o dall’iPhone, probabilmente in streaming. Quindi quello che una volta era il target principale di questo mercato ora è probabilmente l’acquirente meno probabile di supporti fonografici. E non credo che in futuro le cose cambieranno molto, nel senso che si continuerà a creare supporti principalmente per gli appassionati. Per il resto il modello Spotify mi sembra quello vincente, anche se sono molto curioso di vedere cosa farà in questo campo la Apple ora che ha comprato Beats”.
Molti artisti al giorno d’oggi decidono di regalare la propria musica gratuitamente, e puntare principalmente sul live: è un modello sostenibile, secondo te?
“Sicuramente la crisi del mercato discografico, di cui parlavamo prima, ha fatto aumentare di molto i cachet degli artisti, anche quelli più piccoli. Di conseguenza si è drasticamente ridotto il margine di chi organizza concerti, che in questo modo fa sempre più fatica a starci dentro e a poter rischiare puntando su gruppi emergenti. Il sistema è sempre meno sostenibile, e qualcosa dovrà cambiare per forza. Il rischio economico non può più rimanere solo del promoter, ma deve iniziare ad essere condiviso con gli artisti. In altri paesi è già così: negli Stati Uniti sono anni che, in locali della dimensione del Covo, i gruppi anziché un cachet prendono solo una percentuale dei soldi che il locale incassa. È brutto da dire ma la dura legge del mercato è che se vali e quindi porti gente, guadagni. Altrimenti no”.
Dunque c’è sempre meno spazio, nel circuito live italiano, per gli emergenti.
“Come dicevo, lo spazio si è ridotto ed è sempre più difficile proporre gruppi emergenti. Chi gestisce un locale alla fine deve far quadrare i conti, cosa impossibile se si fanno suonare artisti sconosciuti e che quindi non hanno ancora un seguito. Bisogna chiedersi però di chi sia la colpa di questa situazione. Mi sembra che il pubblico, soprattutto quello più giovane, non abbia più nessuna curiosità, o che almeno sia davvero poco incline ad andare a vedere cose che non conosce già attraverso altri canali. Ed è una cosa che vale anche per i concerti gratuiti, non solo per quelli a pagamento. Oltre a questo c’è anche un grosso problema di tipo culturale, un problema che riguarda gli stessi gruppi: quanti artisti emergenti vanno a vedere i loro colleghi suonare o frequentano i locali della propria città? Da quello che vedo io, pochi”.
Da promoter, quale consiglio ti sentiresti di dare ad un emergente che vuole organizzarsi un tour, o arrivare a suonare in un locale del livello del Covo?
“L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di non avere fretta. Con le nuove tecnologie si è persa la cara vecchia abitudine di conquistarsi le cose piano piano: mettere i soldi da parte per anni prima di riuscire ad entrare in uno studio di registrazione, risparmiare per settimane per riuscire a comprare un disco. Oggi con un click hai tutto e subito. Per meritarsi di suonare in locali importanti bisogna ancora fare molta gavetta, mangiare tanti bocconi amari e superare mille difficoltà. Bisogna farsi conoscere, iniziando a suonare in posti minuscoli e crearsi un pubblico che parli di te e ti aiuti a farti conoscere. Non è facile, lo so. Ma chi vale, alla fine, di solito ce la fa”.