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I pensieri dei valutatori: Carlo Bertotti

Se nella tua vita sei diventato un produttore, musicista, direttore artistico, editore, discografico, talent scout, manager qual è stata la tua formazione musicale negli anni dell’adolescenza?
Una semplice domanda che nasconde una profonda risposta. Scopriamo insieme cosa ascoltavano e cosa leggevano i valutatori di Sonda.

A 13 anni ho ereditato il giradischi di mio padre, lui non lo usava praticamente mai e aveva pensato che il solo fatto di poterlo trasferire dal salotto a camera mia avrebbe potuto fare del sottoscritto uno studente potenzialmente più dedito alla causa…
Ricordo di aver allestito in poco tempo una sorta di minidiscoteca in camera aggiungendo un paio di casse e un set di lampadine colorate con dei sensori che le facevano accendere a seconda del beat.
Ascoltavo musica tutti i pomeriggi, ininterrottamente.
Non mi drogavo ma ero sufficientemente carico a molla per disattendere le aspettative famigliari, farmi bocciare e finire in collegio con un biglietto di sola andata: l’intuizione di mio padre non era stata sufficiente…
Nel 1978 ascoltavo prevalentemente punk rock ma cominciavano ad affascinarmi i primi synth: avrei fatto qualsiasi cosa per una Les Paul (anche un’imitazione Gherson sarebbe andata più che bene) ma ho fatto più di un pensiero su un Korg MS 10 usato che vedevo nel negozio di strumenti musicali di fiducia…
Ci sono tre LP che in quei mesi mi hanno letteralmente folgorato: Never Mind the Bollocks, Ha! Ha! Ha! e Outlandos d’Amour.
Ancora oggi mi accorgo di come quel tipo di ascolti abbia contribuito a formarmi in quel periodo. A 14 anni non si è portati alle mediazioni, ci sono solo bianchi o solo neri, i grigi non sono ammessi e quindi tutto il patrimonio sonoro degli anni precedenti, le grandi band rock, i cantautori, etc, sono stati semplicemente cancellati o ignorati dal mio personale database.
Quell’integralismo adolescenziale che mi portava a divorare fanzine e riviste di musica (l’appuntamento settimanale con Ciao 2001 era inderogabile), a trascorrere i weekend consultando cataloghi di strumenti musicali o in sala prova a suonare con la prima band di compagni di scuola mi ha reso più consapevole di quello che avrei voluto fare nella vita. Se non altro avevo un obbiettivo, ed era una cosa importante soprattutto in un periodo come la fine degli anni 70, dove in quanto a derive pericolose potevi avere una discreta scelta.
In quel periodo non c’erano molti concerti a cui poter andare ma nei primi mesi dell’80 ebbi la fortuna di poter inaugurare la mia personale stagione live con una doppietta imperdibile. A distanza di due mesi, sempre al Palalido di Milano, arrivarono Ramones e Police, non avrei potuto chiedere di meglio…
Ad aprire il concerto dei primi suonarono gli UK Subs, band inglese di cui ero fan (i primi due album sono bellissimi) e che dal vivo spaccavano letteralmente.
Dei Ramones detestavo End of the Century ma i primi quattro album erano delle perle.
La loro musica non era quella nichilista dei Sex Pistols: la chitarra di Johnny Ramone filava al doppio di quella di Steve Jones e quella velocità non ti faceva pensare a distorsori o overdrive ma a un punk che faceva di quello stile un po’ rock’n’roll un marchio di fabbrica ancora più riconoscibile dell’attitudine provocatoria di Rotten e Vicious.
E quando due mesi dopo su quello stesso palco salirono i Police il cerchio si chiuse. C’era tanta di quell’energia lì sopra che avresti potuto illuminare tutta Milano. Ed erano in tre, e Copeland sembrava avere quattro braccia, e Summers con quella Telecaster tirava fuori suoni che non avevi mai sentito, e Sting ti faceva pensare che nessuno avrebbe mai potuto essere così sintesi perfetta. Per quell’Ibanez avrei venduto l’anima, con dischi come Reggatta de Blanc capivi che la Musica non sarebbe più stata la stessa.
Ho cominciato a collaborare con una radio privata pochi mesi dopo, non ero ancora maggiorenne e non avrei tecnicamente potuto essere lì ma il proprietario era un amico di un giro di fratelli maggiori che aveva garantito per me e così ero riuscito a ritagliarmi una piccola rubrica di un’ora alla settimana dove mettevo tutti i dischi che avevo comprato nei giorni precedenti.
Mi sentivo un privilegiato ma soprattutto ero contento di poter far ascoltare quelle che reputavo essere canzoni imprescindibili per una adeguata e corretta formazione personale…
Al netto di nostalgie o derive generazionali quello era un mondo dove un album costava 6000 lire, un bootleg anche meno, e le copertine le consumavi a forza di leggerle e rileggerle, e le foto che ci stavano sopra te le ricordi ancora oggi.
Dove una discreta chitarra elettrica, ampli compreso, costava 500.000 lire.
Dove l’unica cosa digitale erano i primi orologi giapponesi a cristalli liquidi e il telefono era quello fisso di casa.
Dove per cambiare canale alla televisione per vedere “Punk e a capo” con Di Cioccio ti dovevi alzare perché i telecomandi erano merce rara.
Dove alle edicole c’erano decine di riviste per ogni genere e palato.
Dove le sale prove erano piene tutti i giorni di gente che suonava veramente.
Dove rockers e mods si guardavano in cagnesco in via Torino e le creste dei punk dominavano al Virus.
Dove i deejay erano quelli che mettevano dischi in radio. Punto.
A chi non c’era, o a chi semplicemente è nato dopo, consiglio di farsi un giro di più in rete, di leggersi le cronache di quei mesi, le recensioni, di “ascoltare” quegli anni ma soprattutto di cercare di immaginarselo quel mondo.
Perché non esiste più, ed è un vero peccato.