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I pensieri dei valutatori: Carlo Bertotti
Nuovi negozi di dischi stanno aprendo un po’ dovunque. Il vinile è tornato ad essere un supporto amato ed acquistato. Ai concerti si registrano sold-out ad un ritmo vertiginoso, mentre i talent e il Festival di Sanremo macinano share da capogiro. Sono segnali di una ripresa o di una imminente apocalisse? Ecco cosa ne pensano i valutatori di Sonda.
Avevo 14 anni e studiavo in collegio. L’anno prima ero stato bocciato e i miei avevano pensato bene di spedirmi a Lodi in un istituto gestito dai Barnabiti: secondo mio padre lì avrei potuto riflettere meglio sulle conseguenze di un anno ”buttato nel cesso”.
In collegio vestivamo tutti di blu, chi aveva i capelli lunghi se li doveva tagliare e se ti comportavi bene durante la settimana, il weekend potevi tornartene a casa.
Una piccola Alcatraz per studenti “problematici” o ragazzi provenienti da famiglie divise.
Per fortuna accanto alla palestra c’era una specie di sala musica con ampli, giradischi e un discreto impianto. Con una decina di altri convittori (ci chiamavano così) passavamo i nostri pomeriggi ascoltando le decine di vinili che di settimana in settimana ci portavamo da casa. Con tre di quei compagni ho formato la prima band in cui ho suonato.
In quel periodo ascoltavo punk inglese: gli Uk Subs, i Damned e gli Undertones i miei gruppi preferiti. Ma fu in mezzo a quelle pile di dischi che scoprii album come Outlandos d’Amour, Remain in Light o Systems of Romance, solo alcuni dei vinili che ho letteralmente consumato in quei mesi.
Quando ritornavo a casa per il weekend passavo il sabato pomeriggio da Buscemi o al New Kary in via Torino. Due negozi di dischi dove ho comprato decine di vinili: ricordo che in quel periodo (primi anni 80) costavano 7000 lire, al netto di Istat e adeguamenti vari stiamo parlando di meno di 4 euro…
Ho ancora la maggior parte di quegli album, e il fatto di vedere oggi negli scaffali della Feltrinelli o della Mondadori sempre più 33 giri non può che strapparmi sorrisi anche se in realtà non so quanto questa tendenza possa significare qualcosa di sostanziale per il mercato discografico.
Però mi piace pensare che in mezzo a un panorama musicale così precario e in affanno, il ritorno del vinile possa rappresentare una piccola svolta, un’indefinita forma di cospirazione, una presa di posizione di chi alla musica ha voluto e continua a voler bene.
È un periodo buio questo, in cui sentirsi rappresentati è impresa complicata. E questa politica e questa società dovrebbero indurre a profonde riflessioni o portare a scelte nette, anche in musica, perché si possono dire tante cose con i suoni e le parole e per chi ci crede, i musicisti sono tutti un po’ come Dan Aykroyd e John Belushi, in missione per conto di Dio.
P.S.
Personalmente ho ripreso a suonare in questo periodo dopo 10 anni di stop volontario e consapevole. L’ho fatto al netto dei casini (professionali, economici, etc) che questa scelta avrebbe e sta comportando.
E insieme a un nuovo basso e a un vocoder di seconda mano, in casa è rientrato anche un giradischi (si lo so, dovrei dire piatto ma mi perdonerete, sono solo un piccolo cospiratore).
I pensieri dei valutatori: Giampiero Bigazzi
Nuovi negozi di dischi stanno aprendo un po’ dovunque. Il vinile è tornato ad essere un supporto amato ed acquistato. Ai concerti si registrano sold-out ad un ritmo vertiginoso, mentre i talent e il Festival di Sanremo macinano share da capogiro. Sono segnali di una ripresa o di una imminente apocalisse? Ecco cosa ne pensano i valutatori di Sonda.
È finita la crisi dell’industria della musica? Non so. E dal mio piccolo angolino indipendente e radicale m’interessa il giusto. Certo la sua produzione e la sua diffusione sono cambiate ormai da diversi anni e non torneranno mai come prima. Come d’altra parte son cambiati i modi di ascoltare la musica e di “consumarla”.
E certo non è “finita”, la musica. Anzi, mai come adesso è difficile trovare l’intervallo (avrebbe detto Gillo Dorfles), quel giusto silenzio che è il senso stesso di ogni forma musicale, dentro il mare di suoni, di ritmi, di voci che circondano la nostra vita.
La musica si adatta. Come è sempre stato: i musicisti (con i suoni che sanno inventare) hanno sempre trovato il modo di esistere e di creare, modellando la loro arte agli strumenti di diffusione che la “tecnologia” dell’epoca offriva e spesso, proprio con la musica, proponendo tracce per trovarne di nuovi.
I meccanismi di circolazione, e di vendita, oggi sono diversificati. Si sa: non c’è più un supporto dominante. Si possono fare le classifiche che vogliamo, ma il panorama è vasto e variabile: oggi si rilanciano gli antichi vinili, ci sono lo streaming e il downloading, il CD, le USB, gli smartphone di ogni tipo, le molte radio, e i diversi canali TV, c’è Youtube (che a mio avviso resta il mezzo predominante e più comodo di ascolto e di conoscenza), volendo anche i vecchi registratori a nastro di vario tipo, e ci sono ancora perfino le musicassette (in uno snobbistico revival che batte, per piglio massimalista, la stessa rinascita del LP).
Proprio nel 2018, fra i tanti anniversari, si è celebrato anche quello dell’ellepì così come si conosce ancora oggi. Nel giugno del 1948 la Columbia lanciò il formato che avrebbe rivoluzionato (ma fu solo la prima di tante rivoluzioni) la storia della musica. Per inciso (termine quanto mai adatto): il primo LP messo in commercio fu il “Concerto per violino in mi minore” di Mendelssohn. Quel padellone nero in cloruro di polivinile, con la copertina colorata e invitante che ha da sempre identificato, in base all’immagine scelta, il titolare dell’opera discografica, adesso è tornato. Il suo dissolversi fu veloce e riempì di malinconia gli appassionati. Il gelido CD ci sembrò eterno e indistruttibile. Le collezioni di vinili e il loro ascolto (e compravendita fra collezionisti) è restato per alcuni decenni appannaggio di pochi estremisti, catalogabili decisamente un po’ fuori del tempo. Poi sono tornate le fabbriche (pur poche e lentissime), i giradischi, le produzioni. Una sorta di controtendenza, un sussulto che ha il sapore quasi perverso della rivincita. Bene. Ben tornato vinile! Ma a me piacevano più i CD, belli compatti, mini supporti dal relativo ingombro, quindi trasportabili con facilità, vicini all’idea di libro, ascoltabili facilmente ovunque, senza scricchiolii, dove entrava tanta musica.
La (rin)corsa al vinile ha ormai preso tutti gli operatori. Tanto che le edicole (visto che vendono ormai poca carta stampata) sono ritornate sulla breccia come luogo di commercio musicale. E speriamo che anche il vinile non faccia la fine, grazie in parte alle edicole, che fece il CD quando diverse case editrici (le solite sigle che oggi si sono buttate sul giornalesco ellepì) inondarono i chioschi di ristampe (spesso bruttine), di compilation e novità a prezzi bassissimi e non pagando l’iva come i rivenditori specializzati.
In questo contesto, è interessante riflettere su come sta cambiando l’ideazione e la produzione di un lavoro musicale multiplo. Lo chiamo così perché il termine “disco”, al quale sono comunque affezionato, mi fa oggi un po’ impressione e mi sembra ormai limitante. Si parte dalla soglia di attenzione degli ascoltatori ormai ai minimi storici e ci siamo allontanati dall’idea di quanta musica invece può raccogliere un CD (fino a ottanta minuti circa). Anche facendo i conti con il digitale ci si riadatta alla cultura del vinile, che era ed è soprattutto “costrizione tecnica”. La brevità, e quindi l’essenzialità, possono essere una virtuosa soluzione all’affollamento di suoni. Quindi si è tornati a produzioni lunghe poco più di venti minuti con 6 o 7 brani. Una scelta che facilita anche l’odierna soglia di attenzione dell’ascoltatore. Oggi, come abbiamo visto, le possibilità di imbattersi in un brano musicale sono infinite, ma, avendo ormai superato l’idea del disco come formato, ci si sta comodamente adattando a una nuova essenziale brevità creativa. Scelta che conferma la perdita di centralità dell’opera musicale registrata e che, dal punto di vista della fantasia, può essere una virtù, una risposta – se viene salvaguardata la qualità – agli ingorghi sonori dei nostri tempi.
Gli “album”, pur brevi, rimangono il biglietto da visita degli artisti e lo start per la musica dal vivo che resta oggi, in questo sconfinato oceano di suoni, l’elemento vincente. Le difficoltà sono tante (basta pensare alla cosiddetta “sicurezza”) e arranca la curiosità per il nuovo e il non “famoso” (non solo da parte del pubblico ingessato, ma soprattutto da parte di promoter e organizzatori che non vogliono mai “rischiare”), ma la musica suonata “per davvero” e ”davanti alle persone” resta vitale. Sporca o raffinatissima, è sempre difficile clonarla.
I pensieri dei valutatori: Luca Fantacone
Nuovi negozi di dischi stanno aprendo un po’ dovunque. Il vinile è tornato ad essere un supporto amato ed acquistato. Ai concerti si registrano sold-out ad un ritmo vertiginoso, mentre i talent e il Festival di Sanremo macinano share da capogiro. Sono segnali di una ripresa o di una imminente apocalisse? Ecco cosa ne pensano i valutatori di Sonda.
CAMBIARE A TEMPO DI MUSICA
Ho cominciato questo lavoro nel 1991, quando l’industria discografica produceva e vendeva essenzialmente formati fisici: CD, cassette, vinili. In Italia in particolar modo cassette, più ancora dei cd, come evidente conseguenza della “febbre” per i car stereo e i mega impianti “tamarri” per la macchina. Era tutto molto semplice: un solo formato (fisico), tre sole configurazioni, pochi media (stampa, TV, radio), un solo luogo di acquisizione della musica registrata (il negozio, specializzato o generalista che dir si voglia), un contesto principale di aggregazione intorno alla musica (il live, il tour) che si articolava in tour non frequenti come ora ma in un numero di music live club/pub molto maggiore di ora.
Anche vendere era molto semplice e rapido: il marketing era più basico, il pubblico molto più propenso ad acquistare musica e a dare valore alla musica sia come contenuto che oggetto da possedere, gli artisti mediamente molto più disponibili efficaci nella promozione, i media più aperti e pronti a “scommettere” sulla musica soprattutto quella nuova. Maggiore curiosità, entusiasmo, propensione al rischio, guasconeria, visionarietà, sia nella comunità artistica che nella discografia.
Già allora però stavano prendendo forma i presupposti di quella che sarebbe stata la celeberrima “rivoluzione digitale” di fine anni 90/inizio 2000 (tenete conto che l’Italia, come altri paesi, risente sempre di un certo ritardo fisiologico nell’accogliere e sviluppare correnti di cambiamento che in altri paesi nascono e quindi giungono a maturazione prima): i mega consumi di anni 80 e 90 cominciano a diminuire, i prezzi salgono, il vinile vacilla, il cd è sempre di più percepito come “un pezzo di plastica”…quindi compare il supporto digitale. L’mp3 e con lui Napster scardinano tutto il modello fino ad allora imperante.
Da quel momento in poi tutto il mondo della creazione, della produzione e della fruizione musicale subisce un’accelerazione verso una serie di cambiamenti sempre più frequenti, rapidi e profondi: iTunes, myspace, youtube, i cellulari, le suonerie, gli smartphone, i social e le loro stesse trasformazioni/acquisizioni/fusioni, i forum, le communities, i talent show, gli influencers, gli youtubers, etc.etc…fino al cambio più recente e, forse fino ad ora, più profondo: lo streaming come modalità principale di consumo della musica e il non possesso come alternativa definitiva al possesso prima fisico e poi digitale. Dal cd sulle mensole di casa, al file nell’hard disc all’accesso illimitato attraverso un micro concentrato di tecnologia portatile. Di conseguenza, la musica diventa più mobile, più diffusa, più replicabile, ma anche più piatta, più simile a se stessa e meno unica, mentre l’esperienza live, di riflesso, diventa quella realmente unica ed irripetibile.
Come in realtà è sempre stata, ma ora sempre di più.
Tutti questi cambiamenti ovviamente riflettono un profondo cambiamento della società, della cultura, nelle abitudini quotidiane, direttamente operato dall’enorme e indubitabile impatto della tecnologia nella nostra vita quotidiana: rispetto a 15/20 anni fa TUTTO è cambiato per tutti noi, e dato che la musica è una forma di espressione del vivere anch’essa è diversa ancor di più lo sarà.
E per tornare all’argomento di questo mio intervento, anche il lavoro sulla musica è cambiato, profondamente e inevitabilmente. Sono cambiati i modi, i tempi, i ruoli, le strutture, il mercato, il modo di interpretare gli effetti della musica, le modalità di produzione e comunicazione della musica, il suo consumo.
Chi come me lavora nella musica da tanto tempo ha cercato di capire queste continue rivoluzioni. E chi (come me) ha deciso che lavorare su, con e per la musica è un imperativo categorico, ha affrontato tutto ciò con la voglia e l’entusiasmo di cambiare continuamente, di mettersi in discussione sempre e comunque, e in ultima analisi di divertire e divertirsi.
Quindi: certamente il mio lavoro è cambiato, mille volte. E continuerà a farlo, senza sosta.
In particolare, lo streaming business model ha imposto regole e dinamiche che hanno fatto diventare il mio lavoro “un altro sport”, un’altra “disciplina”: strumenti di comunicazione e di analisi dei risultati che prima non esistevano, una produzione musicale eccezionalmente più affollata che in passato, cicli di vita di un progetto molto più rapidi, carriere molto più brevi, “progetti” che sempre più spesso sono singole tracce.
In questo momento storico si assiste ad un mercato ormai decisamente in crescita grazie all’esplosione dello streaming business, ad un mercato fisico in calo (come sempre nell’ultimo decennio) mitigato però da un consolidamento progressivo del mercato dei vinili (che però rimangono una nicchia) e da un calo molto più marcato e rapido del download, destinato probabilmente a morire. Il CD è spesso diventato un “feticcio”, il supporto da comprare perché poi “me lo faccio firmare dal mio artista preferito”.
Si è anche accentuata progressivamente la “normalità” della musica: sia per una omologazione produttiva a volte difficile da sopportare, ma anche perché la musica contemporanea scorre in un flusso infinito senza spesso realmente incidere nella vita della gente. Innanzitutto acquisire la musica non implica più una scelta e un gesto precisi (scelgo questo disco, esco di casa e vado a comprarmelo) mentre le uniche due esperienze realmente irripetibili sono appunto il concerto e il meet n greet (l’incontro con l’artista) in tutte le sue forme (dai meet n greet pagati a caro prezzo insieme al biglietto del concerto ai cosiddetti “firmacopie”).
Come conseguenza di questa “normalità”, la produzione e l’acquisto di “edizioni speciali” è ormai più che consolidato: il pubblico cerca qualcosa di unico anche nel supporto, laddove soprattutto l’adesione ad un artista è totale.
Come potete capire, questo è un contesto a volte disorientante, molto differente da quanto affrontavo 27 anni fa quando iniziai a lavorare, ma al tempo stesso estremamente eccitante a mio parere, perché ti sfida, ti costringe a non smettere mai di imparare e anche a ridefinire o a contraddire quello che avevi imparato anche pochi mesi prima. Faticoso certo, ma volete mettere quanto noioso sarebbe stato lavorare per quasi 30 anni allo stesso modo?
E poi: gli scenari cambiano certo, ma alcuni elementi di base rimangono gli stessi: quando la musica parla un linguaggio chiaro e forte (soprattutto se unico e diverso da tutto il resto) trova sempre un pubblico pronto a scommetterci. E in un contesto come quello attuale dove il pubblico ha tutta la musica che vuole a disposizione, è più probabile che il pubblico stesso si impossessi della musica che in quel momento lo conquista, senza dover aspettare che i media tradizionali o altri intermediari gliela propongano.
Perché la musica è come l’acqua, trova sempre la sua via.
I pensieri dei valutatori: Gabriele Minelli
Nuovi negozi di dischi stanno aprendo un po’ dovunque. Il vinile è tornato ad essere un supporto amato ed acquistato. Ai concerti si registrano sold-out ad un ritmo vertiginoso, mentre i talent e il Festival di Sanremo macinano share da capogiro. Sono segnali di una ripresa o di una imminente apocalisse? Ecco cosa ne pensano i valutatori di Sonda.
SHAKE IT LIKE A POLAROID PICTURE: UNO SGUARDO AL MUSIC BIZ
È davvero difficile sintetizzare in poche parole il momento di grande cambiamento che sta attraversando il business della musica, in Italia e nel mondo.
Gli ultimi due anni hanno sicuramente stravolto molte delle convinzioni, radicate da almeno un decennio, che costituivano l’ossatura del lavoro nel nostro settore: digitale e fisico che convivevano in parallelo, la ‘supremazia’ dell’album come formato rispetto al singolo, il fatto che gli artisti davvero da classifica fossero in realtà pochi e raramente frutto dell’exploit di un momento, e che i generi musicali più vicini al pubblico giovane fossero quasi intrinsecamente da ritenersi inadatti ai grandi numeri e al pubblico mainstream.
Oggi più che mai il ribaltamento è in atto: stiamo vivendo un’epoca di grande entropia, che sicuramente offre tante opportunità, sia agli artisti che agli operatori del settore. Al tempo stesso, però, bisognerà attendere il consolidamento di alcuni fattori, come per esempio la penetrazione dei player del digitale nei singoli mercati, per arrivare a una definizione migliore della situazione.
O semplicemente bisognerà abituarsi a uno stato di continuo movimento del mercato e dei suoi fattori, e valori: una condizione di perenne velocità nella quale i ruoli cruciali verranno ricoperti, presumibilmente, dai dispositivi sui quali si ascolterà la musica, e dal pubblico, dalle scelte del consumatore.
Come A&R siamo, in qualche maniera, il principio della filiera musicale. Non siamo certamente gli unici o i principali protagonisti, noi delle major. Ma il nostro lavoro resta quello di intercettare le tendenze e i talenti, con il massimo anticipo e la migliore visione, o previsione, possibile.
In questo senso il nostro approccio al mercato non è cambiato: il mutamento riguarda forse due elementi e cioè la verticalità dei generi e la predominanza, o meglio, l’importanza, dei singoli.
Se il secondo punto è sicuramente più evidente, con il primo mi riferisco al fatto che, nel momento in cui un artista comincia a generare numeri importanti, la tendenza è divenuta quella di “risalire la corrente” e andare a contattare tutti gli altri interpreti dello stesso genere musicale.
Una pratica, questa, in voga da sempre nel music biz: ma che, grazie appunto al digitale e al dominio dello streaming, ha assunto oggi forme e metodi piuttosto esacerbati.
È inevitabile che ci venga chiesto anche questo: firmare chi propone la musica più richiesta dal mercato, anche a costo di fallire.
A volte ci muoviamo direttamente, più spesso invece ci interfacciamo con chi sul territorio (e nelle cantine, nei locali, nelle camerette…) è più presente: piccole label, realtà locali, manager.
Lentamente le grandi etichette multinazionali operano meno come incubatori in grado di sviluppare un progetto da zero, e funzionano sempre di più come amplificatori di qualcosa che già sta accadendo: un improvviso successo, l’inizio di una carriera, l’esplosione di un genere.
In realtà il momento, a mio avviso, ci sta offrendo forse l’opportunità migliore degli ultimi anni, perlomeno in Italia.
La dinamicità del mercato ha infatti indebolito altri pattern promozionali più tradizionali, quali la necessità di conquistare le radio commerciali, o l’importanza di partire dall’album (fisico) per costruirsi un pubblico o una fanbase.
Per questo motivo tornano finalmente ad essere fondamentali due elementi, che hanno sempre rappresentato il mio personale mantra lavorativo quotidiano.
Le canzoni, e l’unicità dell’artista.
E, sinceramente, io ora mi sento davvero libero: in Virgin Records (una delle tre label di Universal Italia) stiamo sperimentando, osando e rischiando per costruire un roster di artisti diversi l’uno dall’altro.
Un caleidoscopio che sia lo specchio dei tempi e che incarni il DNA di un’etichetta da sempre eclettica, internazionale e visionaria.
Ovviamente cerchiamo sia i numeri, che di creare una scuderia completa dai nomi più importanti fino a quelli davvero emergenti. Ma le linee guida sono sempre di più quelle di costruire una diversità da cui possa scaturire la forza della nostra proposta, sia nel ventaglio degli stili che dal punto di vista della ricerca musicale ed estetica.
Credo perciò che questo sia l’insegnamento migliore e più importante che ho ricevuto da questo grande momento di cambiamento.
Come ho imparato dalle parole di un grande manager, è nella differenza che risiede la possibilità di essere vincenti.
Da ogni grande crisi nascono, si dice, grandi opportunità: e ciò che ora dobbiamo fare è saper cogliere questa possibilità e gettare i semi di quelle che, speriamo, possono essere le future luminose, e lunghe, carriere, dei prossimi grandi artisti della musica italiana.
I pensieri dei valutatori: Daniele Rumori
Nuovi negozi di dischi stanno aprendo un po’ dovunque. Il vinile è tornato ad essere un supporto amato ed acquistato. Ai concerti si registrano sold-out ad un ritmo vertiginoso, mentre i talent e il Festival di Sanremo macinano share da capogiro. Sono segnali di una ripresa o di una imminente apocalisse? Ecco cosa ne pensano i valutatori di Sonda.
Anche se la mia esperienza da discografico si è chiusa nel 2010, continuo a seguire con passione quello che succede nel mondo della discografia. Per questa ragione, quando leggo commenti entusiastici sulla “rinascita del vinile”, ho sempre parecchi dubbi sulla reale bontà della notizia, soprattutto quando questa viene messa in relazione con un presunto miglioramento dello stato di salute della musica indipendente.
Prima di tutto, infatti, bisogna chiarire una cosa: quella del vinile è una nicchia. La vendita di questi supporti rappresenta solo il 10% del totale dei supporti fisici, meno del 5% se si considera l’intero settore discografico in tutte le sue varianti, compresi servizi di download e streaming.
Inoltre, recenti studi dimostrano come la maggior parte dei vinili (più del 70%) siano acquistati da una categoria ben precisa di utenti, quelli chiamati “superfans”. Si tratta di pochi soggetti che ogni anno spendono una cifra molto più alta della media (circa 500 euro) per comprare un numero abbastanza elevato di vinili (almeno 20 a testa). Sono, nella maggior parte dei casi, dei veri e propri feticisti che cercano soprattutto ristampe, possibilmente in edizioni limitate, e versioni deluxe. Le vendite da questo punto di vista parlano chiaro: l’album più venduto negli Usa nel 2017 è stato Sgt. Peppers dei Beatles. I Fab Four sono anche al secondo posto con Abbey Road in una classifica che vede protagonisti artisti come Prince, Pink Floyd, Michael Jackson, David Bowie, Bob Marley ed Amy Winehouse. Tutti i primi 25 dischi più venduti, inoltre, sono prodotti da major.
I numeri di vendite di vinili delle etichette indipendenti, invece, non sono affatto migliorati, anzi, molte label lamentano un calo proprio dovuto alla presenza sempre più massiccia nei negozi di ristampe di dischi “classici”. Non solo, a causa degli ingenti ordini da parte delle multinazionali, le poche stamperie di vinili rimaste al mondo hanno allungato notevolmente i tempi delle consegne alle etichette più piccole, provocando in molti casi slittamenti di uscite, con conseguenze negative anche sui tour delle band.
Il vinile, dunque, deve la sua piccola esplosione non ad una rinascita del mercato indipendente, ma alla capacità che hanno avuto le grandi etichette, soprattutto major, di trasformare i dischi in veri e propri oggetti da collezione, intercettando sia le esigenze dei fan “completisti”, sia un pubblico nuovo che non considera più il 33 giri come un media musicale, ma quasi un oggetto di arredamento da esporre in casa propria.
Facendo parte della categoria dei feticisti/collezionisti, sicuramente non posso che gioire per questa situazione: nuovi negozi e sempre più dischi disponibili, una vera goduria per quelli come me. Allo stesso, tempo, però, mi rendo conto che non è attraverso l’analisi del fenomeno vinile che possiamo capire dove sta andando il mercato della musica, i dati vanno esaminati nel loro complesso.
Nel primo semestre del 2018, secondo un report della Recording Industry Association of America, per quello che riguarda supporti fisici abbiamo un aumento di vendite del vinile del 12%, di fronte ad un vero e proprio crollo del Cd (-40%). Allo stesso tempo diminuisce in maniera corposa il download a pagamento (-26%), mentre sono definitivamente esplose le sottoscrizioni alle piattaforme di streaming che crescono a ritmi elevati e costanti (quasi +50% in 6 mesi) raggiungendo solo negli Stati Uniti circa 45 milioni di utenti.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione, la musica sta diventando liquida. L’industria discografica sta mutando il suo core business: il proprio catalogo non viene più venduto sotto forma di album e singoli, ma viene messo a completa disposizione degli utenti. Si sta superando definitivamente il concetto di possesso per quello che riguarda i dischi, le nuove generazioni sono abituate ad avere a disposizione milioni di canzoni gratuitamente. Siamo di fronte ad un processo irreversibile, che condanna il supporto fisico ad avere un ruolo sempre più marginale.
Inevitabilmente, anche il mondo dei concerti sta mutando di pari passo con quello discografico. La fascia di età che maggiormente partecipa ai concerti coincide con quella che più usufruisce dello streaming. Questo significa che, per chi come me organizza live, stanno cambiando in maniera radicale i parametri per individuare gli artisti che hanno potenziale e che si vuole far esibire nel proprio locale.
Stiamo perdendo tutti i nostri punti di riferimento classici. Non conta più chi distribuisce il disco o chi fa la promozione. Anche una buona o cattiva recensione ormai non ha più nessun peso. Alcuni artisti raggiungono un successo incredibile e riempiono locali senza che nessuna radio o nessun giornale tradizionale si sia ancora accorto di loro. Altri registrano un sold out dietro l’altro senza aver mai fatto un disco e con un repertorio di pochissimi pezzi.
Diventa sempre più difficile orientarsi sui gruppi nuovi. Tutto va ad una velocità pazzesca, e bisogna saper cogliere ogni minimo segnale al momento giusto. Ora bisogna controllare quanti ascolti una band fa su Spotify o se è finita nella playlist di qualche “influencer”. Sono meccanismi molto difficili da cogliere, soprattutto per chi come il sottoscritto ha più di 40 anni.
Sto invecchiando, e quando sono di fronte alla mia collezione di lp ogni tanto penso che forse si stava meglio quando per ascoltare un disco dovevi comprarlo. Quando potevi rischiare di comprare anche un disco brutto, ma poi alla fine non avevi molta scelta e dovevi ascoltarlo per forza, tanto da fartelo piacere. Quando si era sicuri che un concerto andava bene perché era uscita una bella recensione del gruppo su Rumore. Quando i gruppi facevano sold out perché suonavano bene e suonavano bene perché avevano fatto tanta gavetta. Ma nonostante questo non sono nostalgico. Ben venga il progresso, vediamo dove ci porta. Sempre nella consapevolezza che, come diceva George Orwell: “Il progresso non è un’illusione; accade, ma è lento e invariabilmente deludente”.
I pensieri dei valutatori: Roberti Trinci
Nuovi negozi di dischi stanno aprendo un po’ dovunque. Il vinile è tornato ad essere un supporto amato ed acquistato. Ai concerti si registrano sold-out ad un ritmo vertiginoso, mentre i talent e il Festival di Sanremo macinano share da capogiro. Sono segnali di una ripresa o di una imminente apocalisse? Ecco cosa ne pensano i valutatori di Sonda.
Dal mercato ci arrivano dati contrastanti (il continuo calo del cd e del download, la crescita di streaming e vinile) che comunque certificano se non altro che il fondo ormai era stato toccato. Oltre a chiarire che pagare per avere ESATTAMENTE quello che si può avere gratis (il download) non è mai stata una grande idea.
La musica continua dunque ad essere un consumo importante nel mercato culturale, soprattutto quello giovanile ma non solo (dato che le generazioni nate dagli anni cinquanta in poi non smettono di consumare musica una volta diventati adulti, come facevano invece le generazioni precedenti) e semplicemente è l’acquisto di musica che se non è giustificato dalla bellezza dell’oggetto (il disco di vinile, i packaging particolari) non è più una abitudine.
La musica la si ascolta (radio, youtube, spotify), non la si compra.
La resistenza (anzi la crescita) del live è la prova che il bisogno di musica non solo non è calato ma anzi è addirittura cresciuto.
Va poi detto che, in particolare in Italia, i nuovi consumi musicali e il successo di nuovi macrogeneri identificati (in modo scorretto ma chiaro) come musica indie e musica trap (senza scordare l’annuale ricambio di prodotti post-talent) ha molto rafforzato il target più giovanile che fino a qualche anno fa sembrava praticamente sparito dai radar delle case discografiche.
Sono gli adolescenti e i pre-adolescenti ormai il nocciolo duro del consumo in streaming . Basta guardare le classifiche di vendita streaming-oriented per rendersene conto con la TOP10 continuamente occupata militarmente da nomi che non dicono assolutamente niente agli over-30.
Altra caratteristica peculiare del mercato italiano è la nettissima preferenza per gli artisti nazionali, preferenza che a questi livelli non si riscontra in nessun altro paese europeo con spesso 8 o 9 titoli nazionali ad occupare i primi 10 posti.
Come ha reagito l’industria musicale (non parlerei più semplicemente di industria discografica dato che i numeri di settori come quello del live, quello editoriale o quello del merchandising sono ormai altrettanto importanti) a questa sorta di “rimbalzo” che ha fermato una crisi che sembrava irreversibile? D’altra parte quando il prodotto che tu vendi improvvisamente può essere ottenuto gratuitamente era difficile mantenere l’ottimismo.
La reazione è stata quella di puntare da una parte sul bell’oggetto (per un pubblico più maturo). La musica si può avere gratis ma non un oggetto da collezione capace di testimoniare il tuo gusto e la tua storia e di “arredare” la casa.
Dall’altra parte la reazione è stata molto più prosaicamente di “arrendersi” al pubblico giovane inseguendo le passioni momentanee dei talent o le nuove risposte generazionali alla musica dei genitori (che nel frattempo è diventata rock e new wave) fatte di trap e indie. L’ addetto ai lavori (di nuovo, la parola “discografico” ormai è limitativa) ormai non prova più ad imporre i suoi gusti (se mai l’ha fatto) ma insegue in modo quasi disperato tutte le nuove correnti che arrivano dal basso.
Si potrebbe dire che l’ha sempre fatto ma c’è una novità importante. Fino ad un decennio fa erano i ventenni o al massimo i 15/16enni a dettare il mercato e il discografico o l’editore medio (immaturo per costituzione) non aveva problemi ad interpretarne i desideri. Adesso i trendsetter sono bambini di 9/10 anni (non sto scherzando, andate ad un qualsiasi firmacopie dei nuovi idoli) e capirete che per l’addetto ai lavori trentenne o quarantenne (ben che vada) il gioco si fa un bel po’ più difficile e direi scivoloso.
Il potere quindi passa totalmente al pubblico e ai musicisti che ne sanno interpretare i gusti con un lavoro spesso solo “notarile” dell’addetto ai lavori che, certificato l’impatto di un artista sul pubblico, cerca di appropriarsene spesso strapagandolo e senza una reale comprensione né della specificità né della durata del fenomeno in questione.
Diciamo, per sintetizzare, che per gli artisti e per il pubblico la situazione sta migliorando. Per l’addetto ai lavori resta sempre (molto) complicata.
Le produzioni di Sonda
Sonda Club arriva alla terza accoppiata di singoli. Dopo Paolo Belli feat. Trio Medusa con i New Colour, i Giardini di Mirò remixati da Teho Teardo con i Kisses From Mars, gli Skiantos feat. Claudio Lolli con Nicholas Merzi e i Confusional Quartet con i feat. Esserelà, ora tocca ad altri importanti artisti sostenere un paio di giovani iscritti al progetto Sonda. La disponibilità per i singoli 2018 è stata cercata e trovata in Mara Redeghieri (ex voce degli Ustmamò) e Murubutu. Due pezzi da novanta nei rispettivi territori di movimento, se Mara è stata la voce degli Ust, per poi trovarsi artista solista con canzoni tra le mani così dense che sembrano sampietrini lanciati contro la sonnolenta società civile, dall’altra parte c’è Murubutu tra i nomi che contano del rap italiano, con testi così pregnanti da farti piegare le ginocchia. A loro si sono affiancati una giovane band: La Metralli (con Mara) e il rapper Messia (con Murubutu). Per La Metralli si tratta di una conoscenza di vecchia data, il gruppo e Mara si erano già incrociati e le loro strade, se pur nella differente cifra artistica, sono in qualche modo accomunabili, mentre per Messia essere sul lato B di un singolo con Murubutu crediamo sia un grande onore, nonché uno stimolo per proseguire una carriera iniziata da poco. Mara Redeghieri ci ha “regalato” un brano, “Augh”, tratto dal suo album solista, che è stato accoppiato a “Ellittica” de La Metralli. Murubutu, invece, ci ha “omaggiato” del suo “Mara e il maestrale” (una coincidenza nel titolo con la Mara dell’altro singolo del tutto fortuita) contenuto nell’album “L’Uomo Che Viaggiava Nel Vento E Altri Racconti Di Brezze E Correnti”, a cui è stato affiancato “Matondo” di Messia. Anche in questa tornata di pubblicazioni i singoli saranno colorati, per scoprire i colori dei vinili guardate la foto in pagina o passate dal Centro Musica a ritirare la vostra copia gratuita. Ovviamente affrettatevi, la tiratura è limitata a 300 copie per titolo. Sarete tra i fortunati 300?
Mara Redeghieri “Augh”
La Metralli “Ellittica”
Murubutu “Mara e il maestrale”
Messia “Matondo”
I live di Sonda visti da voi: Davide Bosi
Davide Bosi.
Covo Club, 18/11/2017. Main guest The Amazons
“Suonare live mi piace da matti”: con queste parole si presenta Davide Bosi, cantautore e musicista cesenate, che infatti con il suo album “Don’t Try” del 2017 ha avuto modo di suonare in importanti locali, sia in Italia che all’estero, accompagnato solo da chitarra e loop station, compresa la data al Covo Club prima del concerto dei britannici The Amazons. “Francamente non mi aspettavo così tanta gente all’apertura, sono rimasto piacevolmente colpito. Dopo il live molti si sono fermati a farmi i complimenti, e questo mi ha riempito di gioia. Non conoscevo i The Amazons, ma ne avevo sentito parlare… hanno il tipico sound pop-rock britannico che può sembrare banale, ma dal vivo sono decisamente formidabili, poche volte mi è capitato di sentire una chimica così forte tra i componenti di una band”. Era la prima volta per Davide in apertura a un artista affermato, ma possiamo dire che abbia capitalizzato l’occasione offerta da Sonda, dato che di recente ha aperto anche il concerto di Alessandro Fiori in occasione di Ingranaggi Festival a Santarcangelo di Romagna. “Penso che sia un tipo di esperienza fondamentale per un artista emergente, anche perché si ha l’opportunità di parlare con figure ben introdotte nel settore musicale, e non capita spesso di riuscire a ottenere questo tipo di contatti. C’è spesso un certo disinteresse da parte di chi di dovere verso la musica emergente che viene loro inviata, e in questo senso Sonda riempie un buco, perché senza comunicazione non c’è futuro per la musica emergente. E, di conseguenza, non c’è futuro per la musica”. E proprio la musica è stata al centro della serata di Davide Bosi al Covo Club, anche fuori dal palco, con i The Amazons che prima del concerto suonavano nei camerini per puro svago, non per prepararsi al concerto. “Visto che erano in pieno tour ho trovato assolutamente incredibile che nel tempo libero suonassero per rilassarsi. Dimostra ancora una volta quanto vivano la loro musica non solo come una professione, ma anche come una grande passione”.