Nato ad Ancona il 25 ottobre 1977, Daniele Rumori si occupa di musica indipendente da circa 15 anni. Vive a Bologna dal 1995, città dove ha fondato Homesleep Music (proclamata dalla stampa italiana migliore etichetta discografica indipendente del nostro Paese), di cui è stato direttore artistico fino al 2009 e per la quale hanno inciso gruppi come Giardini Di Mirò, Yuppie Flu, Julie’s Haircut, Fuck, Cut e Midwest. Da circa 10 anni è uno dei gestori, nonché responsabile della programmazione, del Covo Club di Bologna.
Raccontaci un po’ la tua storia: perché hai deciso di lavorare nella musica?
“Tutto è iniziato per caso. Quando avevo 17 anni alcuni miei amici avevano una band, gli Yuppie Flu, e andavo in giro con loro ai concerti dalle parti di Ancona, la nostra città. Quando sono arrivate le prime offerte discografiche abbiamo pensato di fondare un’etichetta per non lasciare la loro carriera in mani ‘sconosciute’. Ora mi sembra quasi impossibile essere ancora in questo mondo 15 anni dopo, anche se non più in ambito discografico”.
Gran parte di questa tua carriera l’hai passata però a Bologna, città in cui lavori tuttora: come hai visto modificarsi la scena negli anni?
“La scena musicale bolognese è sempre stata molto viva, ci sono tanti gruppi fantastici: penso agli A Classic Education, ai miei amati Cut ma anche a Forty Winks, The Tunas, Laser Geyser o The Valentines. Il problema è che si tratta di gruppi composti quasi esclusivamente da gente che ormai ha trenta o più anni… Ecco, mi sembra che stiamo vivendo un periodo di stasi. Dei nuovi, a parte Altre di B e Legless non ci sono molte altre band giovani che stia facendo parlare di sé, e Bologna ha davvero bisogno di qualche ventenne di talento che riesca a fare un po’ da traino”.
L’etichetta di cui parlavi all’inizio era Homesleep Music, che da qualche anno ha chiuso. Come mai?
“Quando abbiamo dato vita ad Homesleep in Italia, predicavamo nel deserto, siamo stati la prima etichetta indipendente con un accordo di distribuzione che prevedesse il pagamento dei dischi. Grazie a un computer e alle mail che mandavo siamo riusciti a diventare internazionali, distribuiti in 17 paesi. Poi nel dicembre 2009 abbiamo deciso di chiudere perché a causa del filesharing il mercato discografico tradizionale stava entrando in crisi, e per sopravvivere bisognava cambiare l’idea di fondo dell’etichetta. E noi non avevamo abbastanza stimoli per farlo. Siamo comunque la dimostrazione che la tecnologia offre delle possibilità enormi a chi ha le idee giuste e la capacità di muoversi attraverso i nuovi media, e che si va verso un mondo in cui molto probabilmente le major sono destinate a scomparire, mentre le indies prolifereranno grazie alla capacità di adattarsi”.
Da direttore artistico, dai un consiglio a un musicista che vuole approcciare una label.
“Gli direi di provare a mettersi nei panni del direttore artistico, a affinare al massimo il proprio materiale prima di proporlo. Il fatto è che le band non dovrebbero darsi come primo obiettivo quello di fare un disco e avere un’etichetta. Spesso infatti la cosa che mi colpisce di più, in negativo, quando ascolto del materiale, è la fretta con cui è stato registrato: una volta, visto che entrare in studio costava come comprare un’auto, prima di registrare i primi brani una band li affinava per almeno un paio di anni. Oggi dopo 3 giorni di prove registra e dopo nemmeno una settimana inizia a divulgare il materiale. E’ raro ascoltare un demo in cui si sente che il gruppo è affiatato e che ha lavorato a lungo per trasformare delle semplici idee in qualcosa di più sostanzioso”.
E di errori di valutazione ne hai mai fatti, rifiutando qualcuno che poi hai avuto successo?
“Come discografico c’è stato qualcuno che ho rifiutato e che ha invece avuto fortuna, ma sono cose che continuano comunque a non piacermi. Da promoter qualche errore l’ho fatto, tipo la volta che non me la sono sentita di fare i Kooks al loro esordio e poi fecero sold out all’Estragon, oppure quando un paio di anni fa ho preferito non fare la sconosciuta Anna Calvi per un cachet davvero molto basso. Capita. Però se penso che ho fatto suonare al Covo gruppi come Franz Ferdinand, Mumford & Sons, Gossip, Animal Collective, The XX, Broken Social Scene o The Decemberists allora credo che, facendo un bilancio, siano di più le volte che ci ho preso”.
Sono anni che collabori con il progetto Sonda. Come cambia il tuo approccio lavorativo rispetto a quello con artisti che ti contattano utilizzando altri canali?
“In generale sono una persona molto istintiva, quindi quando mi capita di ascoltare artisti nuovi di solito la mia reazione è sempre molto netta: mi piace/non mi piace. Con Sonda devo sempre fare il passo successivo, ovvero cercare di capire perché il materiale che sto ascoltando mi sembra buono oppure pessimo. È un processo davvero molto stimolante”.
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