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I pensieri dei valutatori: Luca Fantacone

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

Ch-ch-ch-ch-changes
Turn and face the strange
(D.Bowie)

Quando ho ricevuto come di consueto la mail dove mi si chiedeva di scrivere un articolo per Musicplus su come il mondo della musica e della discografia fosse cambiato o potesse ancora cambiare a causa della pandemia, il lockdown era terminato, mentre nel momento in cui scrivo il mio “pezzo” ci risiamo: siamo tornati indietro anche se in realtà indietro non si tornerà più, realmente.
La musica e la sua naturale capacità di comunicare, coinvolgere e aggregare non cesseranno di esistere anche se in questo momento il concetto di “aggregazione” sembra molto lontano da noi. Certo è indispensabile pensare a nuovi modelli, nuovi scenari, nuove modalità di coinvolgimento del pubblico, di produzione, promozione, consumo della musica.
“Nulla sarà come prima”: questa frase mal cela la pretesa tutta umana che le cose, in generale, siano sempre più o meno uguali a se stesse, o meglio a ciò che conosciamo, che vogliamo che persista, a cui siamo abituati. Persino in un’epoca come quella attuale dove i cambiamenti (nel mondo della musica ma in realtà in tutti i “mondi”) mai sono stati tanto numerosi quanto sempre ed irrimediabilmente più rapidi. Se 5 o 6 anni fa ci si preparava per gestire dei cicli di cambiamento di 2/3 anni, ora anche solo 6 mesi possono essere abbastanza per vedere nascere e consolidarsi piattaforme, media, trend, fenomeni, comportamenti, modelli, che poi possono lasciare il posto ad altri in un continuo e inarrestabile domino.
Quindi “nulla sarà come prima”, ma la domanda è: “ma perché le cose non dovrebbero cambiare?”. Tutto cambia, mai come ora, semmai il punto è che l’emergenza Covid non ha fatto altro che accelerare drasticamente cambiamenti già in atto e imporne di nuovi.
Ora, da marzo ad oggi è stato letto, scritto, detto tutto e il contrario di tutto, in particolar modo sulla musica e i suoi protagonisti, legittimi o involontari.
Non voglio cadere nella trappola di scrivere sermoni o prediche su cosa di dovrebbe o meno, ma semplicemente provare a circoscrivere alcuni punti che possono corrispondere ad altrettanti spunti di conversazione e riflessioni fra noi e chiunque si interessi a questi temi. Ci provo:

La musica da sola non basta: era già chiaro ma ora è lampante. La maggior parte del pubblico non sceglie la musica in quanto tale, per il suo valore intrinseco, ma perché è connessa a qualcosa altro: qualcosa che si fa mentre si ascolta (cucinare, fare ginnastica ad esempio), uno strumento o tool che “porta” con sé la musica (un videogame, un contenuto video…), un momento “morto” che si riempie con un po’ di musica (andare in ufficio o a scuola), una spinta indotta dall’esterno (un mio amico sui social posta qualcosa che io riposto e condivido perché “voglio fare parte del club”…).
Bisogna capire come restituire alla musica un valore primario, che non vuol dire fare “accademia” e fuggire dalla musica per il grande pubblico, ma esattamente il contrario.

La maggior parte del consumo della musica avviene attraverso lo streaming, non meno dell’80% fino a oltre il 95% a seconda del paese in questione. Il Covid ha accelerato una transizione da fisico a digitale già in atto, e l’ha estremizzato portando il rapporto fisico(/digitale a 0/100 in tempi di lockdown, ma in ogni caso spostando ulteriormente il baricentro verso il fronte digitale.

Il vinile si è ripreso “quello che era suo”.
Rimane sempre una nicchia, cioè non cambia le sorti del business, ma indubbiamente si è consolidato sempre di più e chi acquista ancora in fisico è sempre più propenso ad andare sul vinile piuttosto che sul cd. Chi l’avrebbe mai detto qualche anno fa vero? A dimostrazione del fatto che tutto può succedere, molto può essere previsto, e in ogni caso bisogna sempre essere pronti a reagire a qualunque cambiamento.

Il business dei live è stato ovviamente colpito al cuore, ma l’esperienza live non morirà, cambierà anch’essa e va cambiata, totalmente ripensata, immaginata in contesti multipli e differenti. E questo ad opera non solo dei live promoter ma degli artisti stessi e delle persone che con loro collaborano ad costruire un mondo di immagini, visioni e sensazioni. Stiamo assistendo a diversi tentativi di riproporre “concerti” in streaming che però concerti non sono e non devono essere. Piuttosto chiamiamole “esperienze” basate sulla musica suonata dal vivo, a cui corrispondono creatività, modalità di fruizione e business differenti, alternativi (per il momento) alla classica esperienza live. E’ stimolante e interessantissimo partecipare proprio per vedere in tempo reale dove il mondo dell’entertainment sta andando e come.

Il mondo del lavoro sulla musica ancora non viene riconosciuto con il valore e la legittimità che ha e che non dovrebbe nemmeno “meritarsi”. Perché l’ha sempre avuta, sempre. Questo accade in Italia (e ahimè non è una novità) ma anche in paesi il cui pubblico, mercato, industria musicali da sempre sono più maturi e avanzati. Tutto cambia, dicevamo, e anche i professionisti della musica devono farlo, ma diciamo che se io cambio e nessuno nemmeno si accorge dei cambiamenti e non solo non li recepisce ma non li “vede” nemmeno…beh allora siamo proprio sula linea di partenza…non è facile ma vediamo il lato positivo: tutto questo casino può essere il punto di non ritorno, l’occasione estrema perché una serie di categorie che lavorano serissimamente e con dedizione estrema sulla musica vengano riconosciute come tali da parte di tutti, all’esterno del mondo della musica ma anche all’interno…

In estrema sintesi, ecco le due parole chiave che mi vengono immediatamente in mente se penso a quanto successo in questo 2020 dannatamente complicato e implacabile:
• la prima è CAMBIAMENTO, non solo più una scelta, ma una necessità e un imperativo, morale e professionale, per tutte le ragioni sopra esposte.
• la seconda è ATTESA: in un momento storico basato sull’ “impossibilità di attendere”, sull’ansia “da scelta immediata”, sul modello dell’ “on demand”, è diventato obbligatorio recuperare il concetto di attesa, di pausa (che peraltro in musica è più importante della nota, perché scandisce la metrica, quindi il ritmo….). Abbiamo dovuto e ancora dobbiamo aspettare prima di muoverci e uscire di casa, e dobbiamo ancora farlo interpretare i nuovi bisogni della gente, e quindi “incontrare” il pubblico e riconquistarlo.
Attendere non vuol dire essere lenti, perché la velocità di reazione è fondamentale. E’ un’occasione per saper usare meglio il tempo ma soprattutto per capire come tornare a dare il giusto valore alla musica anche in un’epoca in cui il suo stesso consumo è legato a dinamiche di “quantità nel minor tempo possibile”. Ma questo è un altro film il cui finale è ancora tutto da capire…