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Sonda Heart: il podcast

Sonda non rimane mai ferma.
Mai.
Neanche quando tutto il mondo deve distanziarsi socialmente.
Sonda ha pensato che mancava qualcosa. Mancava il suo podcast.
Ma cos’è un podcast?
I comuni mortali, cioè noi, lo potrebbero definire una trasmissione radio senza avere alle spalle una radio.
Il podcast è la possibilità di lanciare attraverso il web voci che diventano parole. Suoni che diventano canzoni. Esistono decine di migliaia di podcast nel mondo. Da quelli che raccontano come sbucciare una patata a quelli che sono sicuri di conoscere il metodo per vincere alla lotteria.
Noi, invece, non pensiamo di poter cambiare il mondo della musica. Però crediamo nei giovani che fanno musica. Quei giovani (e meno giovani) che riempiono le sale prove, le cantine, che scrivono brani su brani, quelli che imbracciano una chitarra per salvare il pianeta o più semplicemente perché hanno la necessità di scrivere una canzone d’amore per la persona che incrociano ogni mattina in strada.
Ecco quindi che Sonda Heart (trovare un nome non è stato così semplice come si può immaginare) è un racconto di progetti musicali legati al territorio iscritti a Sonda. È quello che i quattro minuti di SondainOnda ci impediscono di scandagliare, è quello che vorrebbero raccontare i musicisti ma manca loro lo spazio per farlo. Noi quello spazio lo abbiamo.
Lo abbiamo e vogliamo usarlo.
Sonda Heart è un sasso lanciato nello stagno della musica che potrebbe anche provocare enormi onde.
Qualche microfono, un registratore, un montaggio ed una sigla (da trasmissione seria), sono gli elementi che portano al risultato finale di Sonda Heart.
Un flusso di idee che sembra non fermarsi mai, perché ogni artista, ogni progetto, ha il diritto di mostrarsi al pubblico. Ha il diritto di farsi conoscere. Ha il diritto di essere ascoltato. Sarà poi il pubblico a decidere chi meriterà di proseguire o abbandonare il ring musicale (questo ring, comunque, non si abbandona mai in realtà).
Sonda Heart si aggiunge alle iniziative collaterali di Sonda: interviste video (SondainOnda), magazine (Musicplus), apertura di concerti, cd compilation e collana di singoli a 45 giri (Sonda Club).
Sonda diventa sempre di più una factory, una enorme factory che brulica di iniziative, tra sogni e realtà.
Perché Sonda non si ferma mai.
Neppure quando si riposa.

I pensieri dei valutatori: Marcello Balestra

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

Che prospettive vedi per la discografia nel futuro?
Premetto che la discografia che ho vissuto, major o indipendente di qualità, quella della ricerca, della produzione, dell’investimento e del sostegno di progetti artistici, non esiste più da qualche anno. Si è trasformata in acquisizione e veicolazione di progetti già in corsa, grazie al pubblico acquisito in rete o nei live. C’è comunque ancora un mondo fatto di persone e etichette appassionate e piene di energia, competenza e altruismo, che in varie forme anche in questi ultimi anni ha dato luce ad artisti nuovi, seguendoli passo dopo passo, per portarli a rompere lo schema del sistema di notorietà derivante dalla rete e cavalcato poi dalle major di oggi. Togliendo la parola “disco” ma anche “grafia”, posso dire che le “cliniche” specializzate per nuove forme d’arte e nuovi artisti di musica e progetti vari, saranno come i ristoranti di oggi, mixati con aree d’acquisto di abbigliamento o bici o telefonia, ossia agenzie che fanno o faranno principalmente altro, ossia propongono altre tipologie di progetti o prodotti da vendere, oltre a musica e ad artisti come contorno. Per cui vedo persone e aziende di altre aree merceologiche o di settori di marketing o di comunicazione, occuparsi della gestione del prodotto “musica” in sinergia con i propri prodotti e altri business da abbinare. Il lockdown è stato solo occasionalmente responsabile di un cambiamento già da tempo in atto, ma ignorato dalla pigrizia del settore ex discografico. Ora a mio parere è solo possibile la commistione e non più la separazione di prodotti, artisti e altri business, cosa già in atto adesso, ma in futuro sarà un binomio o un trinomio naturale.

Il lockdown è terminato: come sta andando la ripartenza?
Diciamo che per “lockdown” abbiamo definito il limite massimo alle nostre azioni fisiche e sociali quotidiane, ma non social. Terminato il primo lockdown della nostra storia, utile a farci capire cosa sia un lockdown e come potrebbe essere la vita di ogni giorno in caso di un suo ritorno, la ripartenza, quella del settore musica non c’è stata.
Abbiamo preso coscienza che anche gli artisti di chiara fama, al momento si sono dimostrati tutti decisamente poco influencer, tanto da rimanere chiusi in casa a fare esercizi di presenza social. Parlo di attività social e di pubblicazioni sul tema covid o nel periodo di lockdown, decisamente inferiori per qualità ed efficacia alle loro gesta precedenti, come se da soli e senza il supporto di staff produttivi, promozionali e strategici, non fossero più in grado di produrre un pensiero artistico, probabilmente timorosi di prendere posizioni vere o di sentirsi soli o incompresi nel farlo. La ripartenza quella che si misura solitamente con produzione e vendita è praticamente pari a zero. Il momento è ahinoi drammatico non per i numeri, ma per la mancanza di vere idee di ripartenza del settore o di idee rivoluzionarie in positivo. Abbiamo visto kermesse di artisti in Arena a Verona proporre ancora una volta loro stessi, come esempio di ripartenza, per ripartire da loro, ma in toni dimessi e decisamente dipendenti dalla realtà, quella della mancanza del pubblico ovunque, anche al supermercato mentre fanno la spesa. La fine del primo lockdown e il suo durante, ci hanno restituito la normalità delle persone dello show-business, la loro impotenza nel prendere posizioni o nel proporre soluzioni, tutti legati a doppio filo con un sistema che è crollato, facendo crollare anche la loro posizione, in attesa di un ritorno ad una normalità che è oramai del passato e non certo del futuro. Per cui se una ripartenza visibile la si può considerare nei settori percepiti come fondamentali dalla società civile, nella musica la fine del primo lockdown ha tolto anche quel poco di presenza social, di artisti che li hanno utilizzati in prima persona per “farsi vivi” ad un pubblico, che si sta abituando all’assenza di contatto, ma anche di dipendenza come fan.

Considerando che molte cose sono cambiate – forse temporaneamente, forse no – è concepibile per te trasformare permanentemente parte del tuo lavoro in lavoro a distanza?
Il lavoro in questo settore ha cambiato pelle, cuore e anima. Prima ci si vedeva e basta, ora ci si vede a pillole e quando ciò avviene è per riuscire a completare lavori che a distanza hanno preso il via e che senza vedersi almeno una volta a progetto, risulta impossibile chiuderli al meglio. Vero è che ad esempio i producer di ieri e di oggi hanno l’abitudine di lavorare a distanza, rintanati nei loro bunker creativi, nei quali montano voci di ogni artista su beat o strumenti suonati da remoto, fino a produrre progetti a distanza senza problemi. Io vivo gli incontri come scambio di energia e non solo come momento di lavoro. Per cui ove possibile ci si vede o faccio di tutto per incontrare le persone dal vivo, almeno per dare insieme un forte senso di intensità a ciò che progetto con artisti, autori e produttori. Ma tutto cambia e dopo la palestra del lockdown, ho imparato comunque a muovermi molto meno per lavoro e solo quando necessario, utilizzando al meglio i metodi di riunione a distanza, seguendo le novità da remoto, salvo comunque ambire a riprendere la vita “in giro” verso nuovi progetti, specialmente all’aria aperta.

La discografia è sempre più legata ai live: in assenza di live o con introiti più bassi che giungono dai concerti bisognerà inventarsi, per i prossimi anni, una formula di business diverso?
No dal mio punto di vista la discografia non è legata al live, sono gli artisti che oggi hanno bisogno del live per vivere o per completare il percorso promozionale o di notorietà acquisita con progetti artistici e discografici. La discografia in genere, salvo rari esempi, non vive di live e non si alimenta dal live ma di diritti connessi. Il live è uno strumento di business di agenzie, di management, di ticketing e di gestori di spazi fisici, oltre che degli artisti quotati. Una gran parte dei live era propedeutica alla consacrazione più o meno reale di diversi artisti in uscita con nuovi progetti, ma riferito alla discografia, il live ha giovato solo alla discografia e all’editoria musicale con grandi cataloghi. Intendo dire che live e discografia sono da sempre entità separate per interessi e tipologia di guadagni, con strapotere economico degli attori dei live a dispetto di una discografia che ancora oggi non ha una contrattualistica che gli consenta di ottenere introiti importanti dai propri artisti in concerto. Come dicevo sopra, salvo casi di agenzie collegate a case discografiche in termini di partecipazioni societarie, la discografia si affida al diritto connesso e ad esempio allo streaming che con i soli introiti da Spotify, consentono alle stesse major, di sostenersi senza la vendita di musica. La formula di business che sostituisca il live è sicuramente in corso di ricerca e verifica, come avviene per ricerca e sviluppo dei vaccini anti covid. La rete con le formule adottate attualmente per la musica live a distanza, non è certo la risposta utile a sopperire all’impossibilità di vivere veri e propri concerti da parte di artisti e pubblico, ma in termini di business le agenzie, i management, i gestori di spazi ecc, dovranno sforzarsi per intuire come le persone, noi cittadini, fan ecc, accetteremo di vivere gli artisti in nuove formule, affrontando costi che garantiscano al pubblico vere emozioni ed appartenenza allo show del futuro.

Secondo te l’epidemia ha portato a galla nella filiera musicale il superfluo che può essere eliminato? Se sì cosa?
Il covid ha creato un vuoto totale nella musica e nello spettacolo, portando a termine una rottura del sistema filiera musicale irreversibile. Il superfluo rimane presente e chiede spazio per continuare a darsi un ruolo, cercando di giustificare la necessità di servizi e attività oramai fini a se stessi. Parlo di ruoli promozionali classici, di processi di masterizzazione, di attività social e di uffici stampa tradizionali, di editoria e scouting classici, attività che erano già superate in era pre covid e oggi sono totalmente inutili, se non supportate da nuove strategie di collocazione di ogni singolo progetto nel suo ambiente comunicativo ed empatico. Parlo anche di ogni attore della filiera legato a mondi musicali e sonori privi di qualsiasi attualità, ma generalmente l’evoluzione cancella le ere precedenti anche senza pandemie!

Pensi che le richieste di artisti, management, ecc… dovranno per forza di cose essere ridimensionate?
Credo che il valore di alcuni artisti rimanga quello di prima, anche se spostato al futuro. Ovviamente se anche nel 2021 non si riuscisse a riprendere una serie di attività redditizie per queste categorie, per mantenere le richieste dovranno inventarsi nuove forme di spettacolo supportabili con sponsor mirati e coerenti, per compensare la mancanza di una parte di pubblico che oramai ha deciso di stare comunque lontano da situazioni di grande afflusso.

A nostro avviso è emerso un dato: il mondo dell’arte (musica, cinema, teatro, ecc…) durante la pandemia e anche successivamente è concepito come un passatempo e non come qualcosa di economicamente rilevante. Sei d’accordo? Se sì, pensi sia possibile fare qualcosa per cambiare questo stato di cose?
Chi è parte di questi settori inevitabilmente sente la mancanza di rispetto verso il proprio prodotto e il proprio lavoro! E’ sempre stato così, questi settori piacciono a tutti, sembrano i più affascinanti e liberi, capaci di creare grandissima visibilità a chi li sostiene, come sponsor o come network. Il fatto che oggi i social e la rete sfornino personaggi di ogni genere, capaci di comunicare in modo rapido, attuale e preciso ogni loro attività comunicativa, ha reso gli artisti della musica, cinema, teatro ecc. sempre legati a produzioni più ampie dell’home-made, meno capaci di attrarre pubblico solo con la parte artistica, senza interagire con il pubblico, quasi restando ancorati al vecchio mito dell’artista famoso e quindi necessario. Ecco che il rispetto delle istituzioni al gioco della musica è sfumato, per la perdita di magia del prodotto medio e del suo essere comunque necessario ad un pubblico. In fondo la musica più che lo spettacolo, pur avendo un ruolo sociale fondamentale, rimane un mondo considerato solo dal punto di vista culturale e non come area di lavoro del presente e del futuro.
In ogni caso le economie del settore e dell’indotto possono tornare degne di rilevanza se supportate dalla politica, da nuove forme di live e da sponsorizzazioni, per dimostrarsi interessanti anche in termini di pil.

I pensieri dei valutatori: Marco Bertoni

Penso (e spero) che il mio lavoro di produttore dopo la pandemia non cambierà.
Già da anni, soprattutto quando mi viene chiesto solo di mixare o masterizzare dei brani, si fa un intenso lavoro a distanza grazie alla rete, (spedendosi files, lavorando a medesime
produzioni da studi differenti grazie a clouds).
Ma il mio vero lavoro, cioè produrre un progetto sin dalle prime fasi di lavorazione, spesso dalla sala prove, poi in studio, prevede assolutamente il contatto umano, psichico, di discussione, di creazione, con gli artisti con cui collaboro.
Produrre, fare musica, creare fisicamente insieme qualcosa che poi si possa comunicare e possibilmente vendere e suonare dal vivo, fa parte integralmente del mio modo di lavorare e credo che sia la parte magica, dove dall’unione di persone diverse escono a volte in tempo reale momenti irripetibili che il produttore deve essere pronto a registrare.
L’alchimia dell’energia prevede la compresenza fisica.
Mi riesce molto difficile immaginare il mio lavoro unicamente svolto a distanza, o per lo meno se provo ad immaginarlo così, lo vedo molto meno interessante meno emozionante e meno efficace.
Alla mia attività, dopo il lockdown, si è tolto il freno a mano e sono potuti ripartire tutti i progetti che avevo in lavorazione. Rispetto alle cose nuove vediamo cosa succederà, è ancora troppo presto per valutare cosa si fermerà e per quanto tempo, in termini lavorativi ed economici.
A mio parere il ruolo del produttore e dello studio di registrazione come “factory” creativa e non solo tecnica rimane un anello ancora saldo nella filiera musicale. Il punto è il mondo che ci circonda, se ancora è in grado di consumare musica, soprattutto rispetto ai concerti e spettacoli live.
Durante la pandemia il mondo della musica, cinema, teatro, ecc… si è rivelato essere concepito come un passatempo e non come qualcosa di economicamente rilevante.
Siamo un paese piccolo, che muove numeri piccoli.
La ‘industria’ musicale italiana è un comparto di dimensioni economicamente ridotte.
Da un punto di vista macroeconomico il mondo dello spettacolo e della musica non può che essere visto se non come entertainment. La funzione industriale di ciò che facciamo o che tentiamo di fare è quella: intrattenere. Il core si sposta più sui providers che non sulle stars. La quantità a livello planetario scalza l’ipotesi (l’utopia?) di qualità a livello locale.
A mio parere l’aspetto veramente importante sul quale si dovrebbe fare leva dovrebbe essere quello culturale e quello artistico, prima di quello economico.
Qualcosa di virtuoso si potrebbe mettere in moto se ci fosse questa visione e la conseguente volontà politica di dare importanza e supporto. Non un sostegno tout court, ma una tutela delle arti tutte, alte e basse, non più viste come solo intrattenimento.
Se allarghiamo la visione del comparto prendendo in esame anche la valenza culturale e quindi sociale, ecco che le responsabilità politiche vanno ben oltre il conteggio del valore economico, ma diventano un perno su cui si gioca la possibilità di esprimersi e di creare e, quindi anche di lavorare e di produrre (nel senso economico).
Bisogna pur dirlo che in alcune circostanze il mondo della musica non è e mai sarà autosufficiente.
Ad esempio per quanto riguarda i giovani che iniziano a suonare o per quanto riguarda la musica di ricerca e sperimentale.
Sarebbe bello vivere in una società dove sia stabilito politicamente che si devono sostenere ambiti creativi ed artistici a prescindere, che siano comunque al di fuori di ciò che è entertainment.
Durante il lockdown centinaia di ragazzi e ragazze si sono messi con chitarra o piano davanti al telefono e hanno condiviso la loro canzone. Mi pare più interessante l’atto di questa generazione di esordienti che non il materiale scritto e prodotto.
Questo è forse più sociologia che non musica, certamente non mercato musicale.
Ricordando che i soldi li facevano i gestori di telefonia, li facevano i giganti del web, ricordando che in un attimo i sentimenti e gli slogan della pandemia sono stati fagocitati dagli spot pubblicitari, musicalmente ci ricorderemo forse di un giovane chitarrista che suona Morricone su Piazza Navona deserta, non di molto altro.

I pensieri dei valutatori: Carlo Bertotti

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

Venti-venti.
Come una guerra, probabilmente più di una guerra.
E non ho mai creduto a chi diceva che tutto questo ci avrebbe reso migliori. Perché quella solidarietà e quel senso di smarrimento che tutti abbiamo provato nelle settimane del primo lockdown si è via via trasformato nella stagione successiva in sorda rabbia, cecità ed egoismo.
Non può esistere un dualismo salute-economia semplicemente perché senza la prima la seconda non ha motivo di esistere. E se alcune categorie lavorative si sono viste travolgere dalla caduta di richieste, dalla mancanza di ordini, dalla chiusura di aziende e uffici, chi lavorava nell’industria musicale aveva da tempo già raggiunto una zona di disagio assoluto che la pandemia ha solo contribuito a mettere definitivamente in luce.
Gli artisti non hanno smesso di scrivere canzoni, certi produttori sanno ancora come dar forma ad un album, alcuni talent scout avrebbero ancora le capacità di individuare chi ha stoffa. Il problema è che però non esiste definitivamente più nulla di assimilabile ad un’industria discografica che possa gestire quello che per anni è stato anche un mercato fiorente che creava carriere e generava profitti.
Il CEO di Spotify Daniel Ek si è rivolto recentemente ai musicisti chiedendo di “produrre di più e più in fretta perché le esigenze del mercato pretendono quello”.
Potremmo chiuderla qui, perché questa frase dice tutto.

Per il Covid un giorno si troverà un vaccino, si perfezioneranno cure. Per la musica non può esistere un futuro se non si ammette a noi stessi per primi che il passato è definitivamente alle spalle, marcio, inerte, defunto senza possibilità di resurrezione alcuna.
La novità è che chi faceva parte del sistema associato alla discografia e che in qualche modo continuava a vivacchiare con musica, spettacoli e affini oggi dovrà fare i conti con un’economia di scala evidentemente non più sostenibile.
Chi scrive, suona e produce musica semplicemente non ha più margini (in questi ultimi anni i bassi costi di produzione con le realizzazioni homemade di trapper e simili o i produttori che fanno dischi in serie con suoni tutti uguali manco fossimo alla catena di montaggio, hanno semplicemente mascherato questo coma del sistema).
Adesso però anche basta: la decenza ha fatto il paio con il resto, la curva è piatta, il genio è altrove, il talento è annegato nella mediocrità.
A voler indicare i colpevoli non si farebbe un grammo di danno nell’indicare in ordine sparso lo streaming, il download selvaggio, i talent, i network radiofonici, le logiche colonialiste delle grandi case discografiche ma poi come si fa a dimenticare l’imbarbarimento sociale sempre più generalizzato? Una decadenza sempre più marcata nei costumi? Una coscienza civile sempre più latitante?
Veramente non ci rendiamo conto di quello che viene scritto, prodotto e messo in circolazione? Davvero non ci accorgiamo di quanto si sia oltrepassata la soglia del buongusto? Vogliamo parlare della qualità delle canzoni che imperversavano in radio quest’estate, quando ancora le cicatrici della prima ondata erano fresche ma si potevano ascoltare refrain imbarazzanti figli di menti sciatte e assolutamente privi di classe, misura e talento?
Ma sono discorsi che abbiamo già fatto in questi anni, logiche che ormai conosciamo alla perfezione. Con una piccola, semplice novità che il Covid ha portato in emersione: i soldi sono definitivamente finiti. Per tutti.
E’ vero, la sensazione per cui la musica sia stata vissuta in quest’ultimo periodo come qualcosa di non essenziale, di non rilevante sia economicamente che culturalmente è purtroppo un dato di fatto. E allora davvero qualcuno dotato di senno si aspetta ancora che si tornino a vendere album o a fare tour come prima?
Oppure c’è qualcuno lì fuori che pensa che mettersi in fila per farsi giudicare da “giudici” improbabili possa essere una soluzione?
O che ci possa essere la reale possibilità di credere ad un “sistema-musica” che ormai da anni ha smesso di svolgere la sua funzione?
Sarà banale, sarà sconcertante e paradossale ma l’unica soluzione che possa intuire per chi vorrà continuare a fare musica è quella di armarsi di tenace pazienza e coltivare il proprio talento facendo anche altro in modo da rendersi economicamente indipendente, continuando a pubblicare autonomamente i propri brani online, o a promuovere le proprie canzoni suonando ovunque sia possibile. Senza aspettarsi nulla se non la gratificazione e il compiacimento di essere coerentemente attaccati ad una parte vitale della propria esistenza.
Il disincanto, il pragmatismo, un po’ di sano cinico realismo ci salveranno.
Perché forse qualcuno tra la gente un giorno comincerà a rendersi conto che di nuove canzoni ci sarà reale necessità, perché il ricordo di quelle passate non sarà sufficiente a chi dovrà costruire un proprio personale bagaglio di esperienze ed emozioni legate anche alle note o alle parole di un ritornello o di una strofa. E allora si formerà spontaneamente un nuovo pubblico, qualcuno che esigerà un patrimonio inedito di canzoni che andranno a comporne i gusti e l’attitudine e in quel preciso momento nascerà spontaneamente un nuovo mercato e si riavvierà quel meccanismo virtuoso che renderà economicamente sostenibile una ripartenza.
Chi vorrà continuare a fare musica dovrà farlo come l’ultimo dei cavalieri jedi, superstite di un mondo che non esiste più ma testimone di una passione che non si riesce ad estinguere.
In ostinata, consapevole attesa.

I pensieri dei valutatori: Giampiero Bigazzi

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

Ok. Pensieri in libertà… riflessioni d’inizio dicembre. Anno orribile 2020.
Cosa posso afferrare dai molti pensieri che in tutti questi mesi hanno affollato la mia mente? E che si condensano in questi fiacchi giorni invernali?
Mi sono stancato di fare e vedere le cose in streaming, on line, digitali, fondamentalmente finte. Meno male che per la second wave nessuno ha avuto il coraggio di affacciarsi da un balcone con la chitarra. Come invece ci siamo scatenati nei primi mesi del Covid. A parte i cori dalle terrazze (obbligatoriamente ripresti con i telefonini e subito affidati ai social), è stato tutto un prolificare di dirette (o quasi) digitali, zoom, skype…
La successiva seconda esplosione della pandemia ha istituzionalizzato questi sistemi di comunicazione (ora abbiamo anche webinar!), dopo un’estate di tiepida ripresa dello spettacolo dal vivo. In molti, mancando alternative lavorative, si sono dedicati a proporsi come improbabili maestri della diretta in streaming. Ormai siamo abituati, per non sparire del tutto, ad apparire per forza su un computer o simili. La cosa positiva è che, mentre nella prima fase si chiedeva l’intervento casalingo degli artisti, adesso ci sono situazioni, sempre più diffuse, che hanno accettato l’idea che è giusto pagare il lavoratore dello spettacolo e della cultura anche per la sua creazione digitale. E la qualità giustamente – anche se non sempre – se ne è avvantaggiata. Da questo punto di vista l’uso del web e dei social per esprimerci in modo compiuto e “vivo”, resterà un congegno espressivo e di diffusione che continueremo a usare. E, senza esagerare, sarà un bene.
Si diceva il lavoratore dello spettacolo… Nelle divisioni cromatiche delle norme anti virus, un colore rosso totale ha coperto spettacoli e cultura. Spesso non se ne è capito la necessità, visto la serietà con cui tutti noi in estate abbiamo gestito i nostri spazi rivolti al pubblico. Ancora oggi, mentre scrivo, riaprono il mercato settimanale sotto casa mia (migliaia di persone con minimi controlli), ma non il teatro. È una ferita che colpisce tutti i livelli dell’arte.
C’è stato e c’è ancora un alto livello di disperazione per la mancanza di lavoro per centinaia di migliaia di persone e soprattutto di frustrazione per non essere pienamente considerati una risorsa per il Paese. Questa sensazione e la conseguente frustrazione rimangono, ma – a parte un inizio catastrofico in cui la “cultura” sembrava, nel pensiero dominante, solo turismo e musei – di fronte a continue proteste, le istituzioni hanno cominciato a considerare anche questo settore di lavoro. Nonostante questo, permane la delusione per cui il nostro mondo arriva sempre in fondo ai pensieri e alle azioni di chi ci governa, non considerando i numeri che fanno della cultura e dello spettacolo non solo divertimento e “cibo per l’anima” (che non è poco), ma anche occupazione e “produzione” economicamente rilevante.
Ma, piano piano, qualcosa si è mosso. Forse una lieve scintilla si è accesa anche nelle stanze ministeriali. Si è aperto finalmente un tavolo tecnico permanente fra operatori e Ministero delle attività culturali.
Si è diffusa questa nuova parola: ristoro, vetusta terminologia burocratica a cui, alla fine, ci siamo affezionati. Abbiamo accolto, contenti, i vari ristori che soprattutto il Mibact ha messo, pur confusamente, in campo.
L’impressione però è che un complesso di creazione culturale, oltre l’emergenza, non può essere basato sull’assistenzialismo. Si è abbandonato il “niente sarà come prima” perché era soprattutto un’affermazione incerta, ma nel nostro caso bisognerebbe veramente che le cose non ritornassero a essere come sono adesso.
Necessitiamo di regole certe e consapevoli, di leggi apposite (soprattutto per quanto riguarda la musica), di spazi giusti, di coinvolgimento della scuola (perché la matematica e non la musica? perché la letteratura e non il teatro come drammaturgia, e il cinema? cioè il linguaggio che è sintesi di tutto…). E ancora: rivedere l’accesso al Fus (Fondo unico dello spettacolo), riformare il codice dello spettacolo dal vivo, semplificare, uniformare, rivedere i meccanismi previdenziali, abbassare l’iva per la musica e lo spettacolo. Mentre si prova a superare le criticità di questo terribile momento, si dovrebbe individuare un progetto complessivo di ampio respiro: il nostro non è un “passatempo” per gioiosi saltimbanchi. L’ossimoro è dietro l’angolo: non vogliamo uscirne più forti ma con le ossa completamente rotte…

I pensieri dei valutatori: Luca Fantacone

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

Ch-ch-ch-ch-changes
Turn and face the strange
(D.Bowie)

Quando ho ricevuto come di consueto la mail dove mi si chiedeva di scrivere un articolo per Musicplus su come il mondo della musica e della discografia fosse cambiato o potesse ancora cambiare a causa della pandemia, il lockdown era terminato, mentre nel momento in cui scrivo il mio “pezzo” ci risiamo: siamo tornati indietro anche se in realtà indietro non si tornerà più, realmente.
La musica e la sua naturale capacità di comunicare, coinvolgere e aggregare non cesseranno di esistere anche se in questo momento il concetto di “aggregazione” sembra molto lontano da noi. Certo è indispensabile pensare a nuovi modelli, nuovi scenari, nuove modalità di coinvolgimento del pubblico, di produzione, promozione, consumo della musica.
“Nulla sarà come prima”: questa frase mal cela la pretesa tutta umana che le cose, in generale, siano sempre più o meno uguali a se stesse, o meglio a ciò che conosciamo, che vogliamo che persista, a cui siamo abituati. Persino in un’epoca come quella attuale dove i cambiamenti (nel mondo della musica ma in realtà in tutti i “mondi”) mai sono stati tanto numerosi quanto sempre ed irrimediabilmente più rapidi. Se 5 o 6 anni fa ci si preparava per gestire dei cicli di cambiamento di 2/3 anni, ora anche solo 6 mesi possono essere abbastanza per vedere nascere e consolidarsi piattaforme, media, trend, fenomeni, comportamenti, modelli, che poi possono lasciare il posto ad altri in un continuo e inarrestabile domino.
Quindi “nulla sarà come prima”, ma la domanda è: “ma perché le cose non dovrebbero cambiare?”. Tutto cambia, mai come ora, semmai il punto è che l’emergenza Covid non ha fatto altro che accelerare drasticamente cambiamenti già in atto e imporne di nuovi.
Ora, da marzo ad oggi è stato letto, scritto, detto tutto e il contrario di tutto, in particolar modo sulla musica e i suoi protagonisti, legittimi o involontari.
Non voglio cadere nella trappola di scrivere sermoni o prediche su cosa di dovrebbe o meno, ma semplicemente provare a circoscrivere alcuni punti che possono corrispondere ad altrettanti spunti di conversazione e riflessioni fra noi e chiunque si interessi a questi temi. Ci provo:

La musica da sola non basta: era già chiaro ma ora è lampante. La maggior parte del pubblico non sceglie la musica in quanto tale, per il suo valore intrinseco, ma perché è connessa a qualcosa altro: qualcosa che si fa mentre si ascolta (cucinare, fare ginnastica ad esempio), uno strumento o tool che “porta” con sé la musica (un videogame, un contenuto video…), un momento “morto” che si riempie con un po’ di musica (andare in ufficio o a scuola), una spinta indotta dall’esterno (un mio amico sui social posta qualcosa che io riposto e condivido perché “voglio fare parte del club”…).
Bisogna capire come restituire alla musica un valore primario, che non vuol dire fare “accademia” e fuggire dalla musica per il grande pubblico, ma esattamente il contrario.

La maggior parte del consumo della musica avviene attraverso lo streaming, non meno dell’80% fino a oltre il 95% a seconda del paese in questione. Il Covid ha accelerato una transizione da fisico a digitale già in atto, e l’ha estremizzato portando il rapporto fisico(/digitale a 0/100 in tempi di lockdown, ma in ogni caso spostando ulteriormente il baricentro verso il fronte digitale.

Il vinile si è ripreso “quello che era suo”.
Rimane sempre una nicchia, cioè non cambia le sorti del business, ma indubbiamente si è consolidato sempre di più e chi acquista ancora in fisico è sempre più propenso ad andare sul vinile piuttosto che sul cd. Chi l’avrebbe mai detto qualche anno fa vero? A dimostrazione del fatto che tutto può succedere, molto può essere previsto, e in ogni caso bisogna sempre essere pronti a reagire a qualunque cambiamento.

Il business dei live è stato ovviamente colpito al cuore, ma l’esperienza live non morirà, cambierà anch’essa e va cambiata, totalmente ripensata, immaginata in contesti multipli e differenti. E questo ad opera non solo dei live promoter ma degli artisti stessi e delle persone che con loro collaborano ad costruire un mondo di immagini, visioni e sensazioni. Stiamo assistendo a diversi tentativi di riproporre “concerti” in streaming che però concerti non sono e non devono essere. Piuttosto chiamiamole “esperienze” basate sulla musica suonata dal vivo, a cui corrispondono creatività, modalità di fruizione e business differenti, alternativi (per il momento) alla classica esperienza live. E’ stimolante e interessantissimo partecipare proprio per vedere in tempo reale dove il mondo dell’entertainment sta andando e come.

Il mondo del lavoro sulla musica ancora non viene riconosciuto con il valore e la legittimità che ha e che non dovrebbe nemmeno “meritarsi”. Perché l’ha sempre avuta, sempre. Questo accade in Italia (e ahimè non è una novità) ma anche in paesi il cui pubblico, mercato, industria musicali da sempre sono più maturi e avanzati. Tutto cambia, dicevamo, e anche i professionisti della musica devono farlo, ma diciamo che se io cambio e nessuno nemmeno si accorge dei cambiamenti e non solo non li recepisce ma non li “vede” nemmeno…beh allora siamo proprio sula linea di partenza…non è facile ma vediamo il lato positivo: tutto questo casino può essere il punto di non ritorno, l’occasione estrema perché una serie di categorie che lavorano serissimamente e con dedizione estrema sulla musica vengano riconosciute come tali da parte di tutti, all’esterno del mondo della musica ma anche all’interno…

In estrema sintesi, ecco le due parole chiave che mi vengono immediatamente in mente se penso a quanto successo in questo 2020 dannatamente complicato e implacabile:
• la prima è CAMBIAMENTO, non solo più una scelta, ma una necessità e un imperativo, morale e professionale, per tutte le ragioni sopra esposte.
• la seconda è ATTESA: in un momento storico basato sull’ “impossibilità di attendere”, sull’ansia “da scelta immediata”, sul modello dell’ “on demand”, è diventato obbligatorio recuperare il concetto di attesa, di pausa (che peraltro in musica è più importante della nota, perché scandisce la metrica, quindi il ritmo….). Abbiamo dovuto e ancora dobbiamo aspettare prima di muoverci e uscire di casa, e dobbiamo ancora farlo interpretare i nuovi bisogni della gente, e quindi “incontrare” il pubblico e riconquistarlo.
Attendere non vuol dire essere lenti, perché la velocità di reazione è fondamentale. E’ un’occasione per saper usare meglio il tempo ma soprattutto per capire come tornare a dare il giusto valore alla musica anche in un’epoca in cui il suo stesso consumo è legato a dinamiche di “quantità nel minor tempo possibile”. Ma questo è un altro film il cui finale è ancora tutto da capire…

I pensieri dei valutatori: Nicola Manzan

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

Pensi che il tuo lavoro di produttore/musicista cambierà?
Se inizialmente pensavo che il mio lavoro sarebbe cambiato (anche se ho sempre sperato che così non fosse), ora ne sono praticamente certo.
Il mio lavoro di musicista si svolge prevalentemente sui palchi di locali, festival e simili. Partendo dal fatto che è saltato tutto il tour del mio gruppo principale (Bologna Violenta, tour organizzato tra dicembre e gennaio che si doveva svolgere da marzo a maggio, ovvero in pieno lockdown), con le norme in vigore per il contenimento del Covid mi ritrovo a fare pochissimi concerti e l’incertezza per il futuro è tanta, con un clima di attendismo che coinvolge organizzatori, club e band. Stiamo cercando di capire come riorganizzare un tour vero e proprio, ma stiamo tutti in attesa di vedere come si evolverà la situazione in autunno, visto che ancora non si sa quanti locali riusciranno a riaprire e a fare concerti.
Per quel che riguarda il mio lavoro in studio, devo dire che c’è stato un discreto rallentamento delle produzioni, per quanto parecchi artisti stiano continuando a registrare, produrre e scrivere musica, in attesa di tempi migliori. Ma anche in questo caso, l’incertezza economica non sta aiutando nessuno e moltissimi musicisti stanno aspettando che qualcosa si sblocchi prima di investire somme di denaro per la registrazione di dischi che non si sa quando e come usciranno.
La mia impressione è che al momento le priorità siano altre, come, ad esempio, cercare di arrivare a fine mese, almeno per chi non ha un lavoro fisso.

Il lockdown è terminato: come è stata la ripartenza?
La ripartenza è stata lenta e lo è ancora. Sono riuscito a fare alcuni concerti con i Ronin, Bologna Violenta e Torso Virile Colossale, ovvero i miei tre gruppi principali, ma le difficoltà sono tante, sia dal punto di vista organizzativo, che economico.
La mia impressione è che una ripartenza vera e propria non ci sia ancora stata, in pratica.

Considerando che molte cose sono cambiate – forse temporaneamente, forse no – è concepibile per te trasformare permanentemente parte del tuo lavoro in lavoro a distanza?
Devo dire che, da questo punto di vista, sono molto fortunato perché quasi tutti i miei lavori di arrangiatore sono fatti a distanza. Da anni, ormai, ho un metodo di lavoro da casa che è molto funzionale e collaudato e che mi dà modo di lavorare con i miei tempi e i miei modi, ma soprattutto che si rivela comodo per tutti, sia per me che per gli artisti.
Di sicuro tutto ciò che riguarda la mia attività dal vivo non è neanche da prendere in considerazione da questo punto di vista, ma confido sempre che sia una fase temporanea.

A nostro avviso è emerso un dato: il mondo dell’arte (musica, cinema, teatro, ecc…) durante la pandemia e anche successivamente è concepito come un passatempo e non come qualcosa di economicamente rilevante.
Sei d’accordo? Se sì, pensi sia possibile fare qualcosa per cambiare questo stato di cose?
Sono assolutamente d’accordo. Ma non serviva di certo questa pandemia per farmene rendere conto. A meno che un artista non sia affermato a livelli di massa, o che almeno non lavori costantemente a livelli molto alti, il lavoro del musicista difficilmente viene visto come un lavoro vero. La gente “normale” fatica a comprendere che per essere un musicista professionista serve una dedizione costante e un lavoro intenso di preparazione e studio, ma mi sembra tutto sommato “normale” in un Paese come il nostro dove la cultura di un certo tipo viene vista come semplice diversivo alla quotidianità.
Penso si possa far qualcosa, anche se ritengo che questo “qualcosa” avremmo dovuto iniziare a farlo molto prima. Purtroppo molti musicisti sono i primi ad avere un approccio “hobbistico” alla materia musicale, a prendere quello che arriva, a lavorare in nero per tirare a campare, senza pensare che, nei momenti di difficoltà, tutti i nodi verranno al pettine. Si fa ora un gran parlare del fatto che dobbiamo essere riconosciuti dalla sfera politica come “lavoratori veri”, ma mi rendo conto che solo negli ultimi anni ci sono stati dei cambiamenti in questa direzione, eliminando il lavoro in nero, normando molte attività collaterali alla musica (penso ai tecnici dello spettacolo) e via dicendo.
Ovviamente, arrivando in ritardo rispetto ad altri settori lavorativi, paghiamo in prima persona il non esserci messi in moto prima. Spero che questa sia la volta buona per far capire che esistiamo come lavoratori e non solo come hobbisti, anche se non ho molta fiducia in un cambiamento repentino, vista la situazione critica in tutti i settori. Essendo arrivati per ultimi, saremo forse gli ultimi ad essere presi in considerazione.

I pensieri dei valutatori: Gabriele Minelli

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

Metafore e similitudini si sprecherebbero, nel tentativo di definire i mesi folli che abbiamo attraversato, e che ancora stiamo vivendo.
Praticamente un anno intero, ormai, e nuovamente una vigilia di “lockdown”, senza che per il mondo della cultura, della musica, del teatro sia cambiato poi molto dal febbraio 2020.
Un anno vissuto in un’apnea lavorativa che sta lasciando tutti sfiniti, ma fortunatamente per noi discografici, ancora con uno stipendio, a differenza di tanti nostri colleghi che lavorano invece sui live, a fianco degli artisti, dietro le quinte, negli studi, davanti ai banchi, sopra ai palchi.
L’incapacità o la non-volontà del settore di “fare sistema” è emersa in tutta la sua contraddittoria evidenza: solo dal basso, e tuttavia sporadiche, sono nate iniziative capaci di spiegare al pubblico quanto l’industria culturale sia certamente intrattenimento, ma generi anche e soprattutto lavoro e risorse.
Sembra davvero che la definizione della parola “bisogno” sia diventata plastica e adattabile tramite esercizi di individualismo quotidiani: ma è sconcertante che, per l’ennesima volta, la componente culturale sia finita in fondo alla lista: dei provvedimenti, delle attenzioni, delle notizie, dei bisogni.
In questo panorama, alcune analisi risultano più semplici o immediate di altre: quelle sul digitale, sui demographics del consumo di musica, sulla predominanza di alcuni generi su altri, sulla palese incompletezza della filiera senza il mondo reale dei live.
Mi piace ripensare alla frase che mi disse un manager col quale lavoro, a proposito del pubblico di ragazzi giovani che ascoltano rap e trap e del comportamento che aveva osservato in loro durante il primo lockdown, con i club chiusi e una marea di nuovi singoli che venivano pubblicati ogni settimana in streaming: mi disse che, senza una vera occasione di confronto e di “ascolto sociale”, i ragazzini sembravano quasi persi, confusi e avevano difficoltà a capire quali dei brani o dei nuovi artisti fossero quelli “davvero fighi”, quelli da ascoltare e da rivendicare come propri, dei quali diventare fan.
Una componente sociale della musica, che è sicuramente possibile declinare anche per altri gruppi d’età e altri generi, e che è sempre fonte di confronto, diversità, ricerca, crescita.
Senza di essa la musica e le altre forme d’arte finiscono inevitabilmente con il ripiegarsi non tanto su loro stesse quanto sui meccanismi di funzionamento più immediati, sui numeri: se funziona, allora è fatta bene; se non genera numeri, non ha valore.
Questa è la mia preoccupazione: che questo periodo ci lasci in eredità una mancanza di punti di vista, un’analisi solamente superficiale, un approccio puramente “industriale”.
Auspico invece un ritorno ai musicisti, alle competenze in studio di registrazione, alla ricerca e allo studio, anche e soprattutto nei generi più ascoltati e consumati: la ricchezza della musica sta proprio nel suo essere materia sviscerata da secoli e tuttavia sempre nuova e sorprendente.
La distruzione è un processo molto rapido, talvolta anche inebriante; la ricostruzione prende invece tempo e richiede energia e coesione di intenti e obiettivi.
La musica deve tornare centrale come tema delle vite di ciascuno di noi, per poter nuovamente ricoprire un ruolo nobile nelle conversazioni culturali e di cronaca, e tornare ad essere la soddisfazione di un bisogno primario dell’uomo.

I pensieri dei valutatori: Daniele Rumori

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

Mentre sto scrivendo questo articolo sono passati quasi 9 mesi dall’inizio dell’emergenza sanitaria che, tra le altre cose, ha devastato il nostro settore. E dopo nove mesi siamo ancora da capo: non abbiamo nessuna certezza sul nostro futuro. Non sappiamo né quando potremo ricominciare, né con quali regole. Dopo aver passato mesi a ragionare con i miei soci sul futuro del nostro amato Covo e su come ripartire, ora siamo concentrati soprattutto sul presente: bisogna trovare un modo di sopravvivere.

A metà febbraio 2020, dalle parti di Viale Zagabria 1 a Bologna si poteva percepire un clima di assoluto entusiasmo. Eravamo reduci dal meraviglioso concerto sold out degli Explosions In The Sky al Teatro Duse, da lì a poche settimane avremmo ospitato di nuovo i nostri amati Ash tra le mura del Covo, ed il finale di stagione si prospettava come uno dei migliori di sempre grazie anche a concerti come Ezra Furman, Italia 90, Boy Harsher e soprattutto Mark Lanegan. Non solo, piano piano stava prendendo forma quello su cui stavamo lavorando già da più un anno: un festival autunnale per festeggiare i primi 40 anni del Covo Club. Con un 50% di artisti confermati, proprio in quei giorni stavamo scegliendo il logo e cercando di capire quando sarebbe stato opportuno iniziare a fare i primi annunci.
Tutto questo fino al 23 Febbraio, giorno in cui, con un’ordinanza regionale, sono stati sospesi gli eventi musicali al chiuso. In quel momento, la nostra preoccupazione più grande era, banalmente, che saltavano gli Ash già sold out. Solo dopo qualche settimana avremmo capito che la nostra vita sarebbe cambiata radicalmente.

In questi nove mesi abbiamo:
• spostato, ri-spostato e spesso cancellato decine e decine di concerti.
• partecipato a mille tavole rotonde virtuali dove abbiamo provato a confrontarci con altri operatori ed anche con la politica. Spesso, purtroppo, con scarsi risultati.
• sentito le stesse persone dirci ad aprile che “il settore culturale andava completamente riformato perché nulla sarà come prima”, e poi a giugno che “in autunno si tornerà alla normalità e tutto sarà come prima, basterà indossare la mascherina nei luoghi al chiuso”.
• constatato di avere un governo che sul nostro settore ci ha capito poco o nulla.
• provato a ripartire seguendo rigidissimi protocolli, portando la nostra capienza a 46 persone sedute. Abbiamo comprato le sedie e fatto i lavori per permettere la giusta areazione dei locali. Abbiamo messo insieme una programmazione grazie ad artisti “amici” (che tanto ci fanno divertire), disponibili a suonare anche per una manciata persone. Non è bastato, ci siamo dovuti fermare di nuovo, una settimana prima di riaprire.

Al di là di tutto quello fatto o non fatto, abbiamo capito una cosa: in questa strana epoca non si può fare nessun programma, perché ogni giorno possono cambiare le regole. Ecco, PROGRAMMARE è l’essenza del nostro lavoro. Oggi è diventato impossibile farlo.

Quindi? Che si fa? Prima o poi si dovrà ripartire, e quando sarà il momento sarà necessario ripartire dal basso, dagli artisti locali, dalle bands di quartiere e delle scuole. Dovremo essere capaci di creare nuove scene musicali. Dobbiamo provare a vederla come una grande opportunità per porre le basi per un nuovo futuro della musica indipendente nel nostro paese.
Inoltre, voglio pensare che si ripartirà dalla voglia di stare insieme delle persone. I live club, che negli ultimi anni avevano un po’ perso il loro ruolo di centri di aggregazione, potrebbero tornare ad essere protagonisti della vita sociale delle persone.
Quanto ci vorrà non lo so, nel frattempo faremo quello che noi italiani sappiamo fare meglio: improvviseremo e cercheremo di sopravvivere.

I pensieri dei valutatori: Roberto Trinci

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

E’ strano scrivere degli effetti della pandemia in un momento (scrivo a fine luglio, in Italia i numeri per fortuna sono molto bassi, ricominciano i primi tour in luoghi particolari) in cui non si sa se il peggio è passato o se invece deve ancora arrivare, magari a ottobre.
Non essendo il mago Otelma scriverò di quello che vedo e Adesso e Qui il peggio sembra passato.
Le prospettive per la discografia stando così le cose non cambiano poi di molto, un po’ di ritardi ma niente di che. Se parliamo del mercato musicale invece è chiaro che tutto il mondo della musica live dovrà rivedere conti e prospettive (i costi si alzano, i profitti calano) per cui ci saranno grandi problemi e probabilmente sarà necessaria anche una vera e propria ristrutturazione di tutto il comparto in Italia.
La ripartenza dopo il lockdown è più lenta del previsto per noi editori che, dalla morte del disco in poi, basiamo molti dei nostri introiti sulla musica dal vivo. Per fortuna restano gli introiti derivanti da radio e tv (visto che purtroppo anche il cinema è bloccato). Lo streaming che non ha risentito molto del lockdown purtroppo non è – incredibilmente! – ancora una voce significativa per gli editori.
Per quel che riguarda il lavoro a distanza in SonyATV è sembrato funzionare e sta ancora andando avanti ma mi sembra di poter dire che non ha superato pienamente la prova. Manca lo spirito aziendale e il lavoro di gruppo tra reparti diversi e per chi come me lavora direttamente con gli autori e gli artisti il contatto fisico, l’incontro vero e proprio, non è sostituibile con telefonate o videoconferenze (che peraltro io odio, ma questo è un problema mio…).
Se avessi una formula di business che potrebbe sostituire il “live” sarei l’uomo più ricco dello show-business. Purtroppo non è così ed inoltre penso che, a parte la questione economica. la musica live non potrà mai essere sostituita da un surrogato. Andare in un posto (magari bello) con persone (magari simpatiche) a vedere un artista che ti piace o con cui sei cresciuto non è una esperienza sostituibile e prima o poi dovrà tornare!
Chiaramente dal punto di vista economico l’unica possibilità per non subire il calo degli introiti della musica live sarà di aumentare e razionalizzare gli introiti derivanti dal digitale. La discografia in questo (tra youtube e spotify) è già più avanti e i ritardi accumulati dal mondo dell’editoria musicale vanno assolutamente recuperati o perlomeno ridotti. Non è possibile che nel 2020 per un editore musicale rappresentino una entrata economica più importante la vendita di vinili e cd che tutta la musica che passa da youtube…
Non mi sembra che siano uscite cose superflue da eliminare durante questa pandemia. Le cose, a mio avviso, superflue (tipo gran parte della promozione digitale) lo erano prima e lo resteranno poi.
E’ ovvio che le richieste di molti artisti andranno ridimensionate e questo purtroppo porterà ad allargare ancora di più il solco (già molto, troppo, grande) tra chi ha successo e chi non ce l’ha. La sparizione della “classe media” nel mondo della musica è un fenomeno che era già iniziato da anni e questa pandemia l’ha senz’altro peggiorata.
Voglio però chiudere con una nota positiva. Secondo me questa pandemia ha dimostrato che la musica (come il cinema, la letteratura, il teatro) non sono un semplice passatempo ma il tessuto stesso che va a formare le nostre vite che senza di esse si ridurrebbero ad una semplice alternanza tra lavoro e riposo. Penso che il dover fare a meno di concerti, festival, nuove uscite abbia fatto capire alla gente che la vita varrebbe meno (o sarebbe senz’altro molto meno divertente) senza questi “passatempi”.