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I pensieri dei valutatori: Gabriele Minelli

La pandemia ha inferto un duro colpo alla musica, intesa non solo come arte ma anche nelle sue vestigie commerciali. Abbiamo chiesto ai nostri valutatori una riflessione sulle criticità nate in conseguenza a questo stato eccezionale. Uno sguardo che passa attraverso gli occhi di produttori, discografici, direttori artistici, musicisti.

Metafore e similitudini si sprecherebbero, nel tentativo di definire i mesi folli che abbiamo attraversato, e che ancora stiamo vivendo.
Praticamente un anno intero, ormai, e nuovamente una vigilia di “lockdown”, senza che per il mondo della cultura, della musica, del teatro sia cambiato poi molto dal febbraio 2020.
Un anno vissuto in un’apnea lavorativa che sta lasciando tutti sfiniti, ma fortunatamente per noi discografici, ancora con uno stipendio, a differenza di tanti nostri colleghi che lavorano invece sui live, a fianco degli artisti, dietro le quinte, negli studi, davanti ai banchi, sopra ai palchi.
L’incapacità o la non-volontà del settore di “fare sistema” è emersa in tutta la sua contraddittoria evidenza: solo dal basso, e tuttavia sporadiche, sono nate iniziative capaci di spiegare al pubblico quanto l’industria culturale sia certamente intrattenimento, ma generi anche e soprattutto lavoro e risorse.
Sembra davvero che la definizione della parola “bisogno” sia diventata plastica e adattabile tramite esercizi di individualismo quotidiani: ma è sconcertante che, per l’ennesima volta, la componente culturale sia finita in fondo alla lista: dei provvedimenti, delle attenzioni, delle notizie, dei bisogni.
In questo panorama, alcune analisi risultano più semplici o immediate di altre: quelle sul digitale, sui demographics del consumo di musica, sulla predominanza di alcuni generi su altri, sulla palese incompletezza della filiera senza il mondo reale dei live.
Mi piace ripensare alla frase che mi disse un manager col quale lavoro, a proposito del pubblico di ragazzi giovani che ascoltano rap e trap e del comportamento che aveva osservato in loro durante il primo lockdown, con i club chiusi e una marea di nuovi singoli che venivano pubblicati ogni settimana in streaming: mi disse che, senza una vera occasione di confronto e di “ascolto sociale”, i ragazzini sembravano quasi persi, confusi e avevano difficoltà a capire quali dei brani o dei nuovi artisti fossero quelli “davvero fighi”, quelli da ascoltare e da rivendicare come propri, dei quali diventare fan.
Una componente sociale della musica, che è sicuramente possibile declinare anche per altri gruppi d’età e altri generi, e che è sempre fonte di confronto, diversità, ricerca, crescita.
Senza di essa la musica e le altre forme d’arte finiscono inevitabilmente con il ripiegarsi non tanto su loro stesse quanto sui meccanismi di funzionamento più immediati, sui numeri: se funziona, allora è fatta bene; se non genera numeri, non ha valore.
Questa è la mia preoccupazione: che questo periodo ci lasci in eredità una mancanza di punti di vista, un’analisi solamente superficiale, un approccio puramente “industriale”.
Auspico invece un ritorno ai musicisti, alle competenze in studio di registrazione, alla ricerca e allo studio, anche e soprattutto nei generi più ascoltati e consumati: la ricchezza della musica sta proprio nel suo essere materia sviscerata da secoli e tuttavia sempre nuova e sorprendente.
La distruzione è un processo molto rapido, talvolta anche inebriante; la ricostruzione prende invece tempo e richiede energia e coesione di intenti e obiettivi.
La musica deve tornare centrale come tema delle vite di ciascuno di noi, per poter nuovamente ricoprire un ruolo nobile nelle conversazioni culturali e di cronaca, e tornare ad essere la soddisfazione di un bisogno primario dell’uomo.


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