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Il produttore artistico devo proprio chiamarlo? #2 (C.Bertotti)

INGCHYSS0290“C’era una volta il produttore artistico. Così come c’era l’arrangiatore, il paroliere e i cosiddetti “turnisti”… Poi sono comparsi Linn 9000, Atari e il magico protocollo MIDI: da allora, per chi voleva fare musica, tutto è diventato più democratico e accessibile. Una mezza rivoluzione, che come tale, ha purtroppo lasciato sul terreno anche un patrimonio ineguagliabile di esperienze e professionalità.

Molti figli dei giacobini di allora, oggi fanno musica senza sapere granchè di musica, arrangiano a orecchio un tanto al chilo e sulla carta d’identità hanno scritto ‘produttori’. Tanto quando vai in comune a farla, la carta d’identità, alla voce professione puoi dire qualsiasi cosa. È gratis. Oggi è difficile spiegare cosa dovrebbe essere un produttore artistico, è un ruolo come l’ala destra: di Causio o Sala in giro non ce ne sono più da tempo… Però conosco artisti che con il tempo sono diventati produttori di sé stessi. Gente con i controcoglioni che però, una volta conclusi i mix, si è spesso tormentata per un risultato che, in qualche modo, non rispettava le esigenti aspettative del proprio ego oppure più banalmente, faceva imprecare per le quantità smisurate di Malox assunte durante la lavorazione di un progetto troppo ‘sentito’, indispensabile e imprescindibile.

Quando devi elaborare o mettere a fuoco delle canzoni dandogli forma e identità è molto difficile riuscire a farlo su materiale che hai pensato tu fin dalla prima stesura. Sei condizionato, magari ti innamori di un arrangiamento che in realtà penalizza il brano in questione, non sei imparziale e questo pregiudica la visione obiettiva che più occorrerebbe in questa fase del lavoro. Il produttore ascolta delle canzoni, conosce chi le ha scritte, cerca di comprendere quali siano le coordinate attorno cui muoversi, le interpreta e immagina una forma e un indirizzo da dare all’intero progetto.

Non si limita a ‘vestire’ una serie di canzoni ma ipotizza un universo di riferimento. Uno spazio che NON è solo sonoro, ma è anche e soprattutto una messa a fuoco, la ricerca di un’identità, una conferma di quella precedente o un sovvertimento totale. Ho lavorato con diversi professionisti in questo ambiente: tecnici esperti, specialisti di ogni genere musicale, geni del marketing, tutta gente comunque competente in materia di tendenze e suoni. Ma in realtà in vita mia ho lavorato soltanto con due veri e propri “produttori”: Carlo Rossi e Roberto Vernetti. Entrambi piemontesi, entrambi geniali, entrambi fermi e irriducibili nelle loro convinzioni. Due fuoriclasse della musica con un’attitudine e un talento fuori dal comune.

Sono stato fortunato. Con Roberto ho potuto sgrezzare e affinare la conoscenza del suono. Da Carlo ho imparato la sintesi e l’armonizzazione fra l’elemento umano e la musica. Ho lavorato con Carlo Rossi a Revigliasco nell’inverno del 2005. C’eravamo conosciuti qualche mese prima a Torino ed erano bastati pochi minuti per capire che era una persona con la quale volevo lavorare. Facevo musica da tanti anni e gli ultimi due album pubblicati con la Bmg Ricordi ce li eravamo prodotti da soli (come predico bene e razzolo male io, nessuno mai…). Carlo ha riportato le lancette dell’orologio a cinque anni prima. Abbiamo lavorato nella sua casa-studio per tre mesi passando dalle ultime giornate di fine estate alle prime nevicate di inizio dicembre. I brani che sembravano già praticamente pronti per la stesura definitiva sono stati destrutturati, spogliati e privati di tutto ciò che non fosse strettamente essenziale. La cosa non era prevista, inizialmente non capivo e osservavo fra l’inquieto e il sorpreso, ma quando abbiamo riascoltato il materiale in quella forma così scarna tutte le convinzioni maturate in fase di scrittura e pre-produzione si sono automaticamente dissolte.

Carlo ci aveva posto di fronte a una semplice questione: che canzoni avevamo scritto? Quali e soprattutto quanto ci piacevano? Non veniva messo in discussione il genere o la qualità degli arrangiamenti. Semplicemente si voleva concentrare sull’essenza del nostro lavoro: il significato di 4 minuti di parole e musica. La fase successiva è stata intensa, faticosa ma soprattutto gratificante. In due mesi abbiamo riscritto praticamente tutti gli arrangiamenti, dalle ritmiche alle parti di orchestra. Carlo era lì, in maniera discreta ma tremendamente efficace: la notte buttavamo giù materiale su materiale, al mattino lui arrivava, rifiniva, tagliava e il pomeriggio ci si confrontava assieme.

Oggi, a distanza di tempo, credo sia il disco che suoni meglio tra tutti quelli che ho avuto la fortuna di scrivere e pubblicare. Grazie di tutto Carlo, è stato un vero onore”.

Le parole dei valutatori: Carlo Bertotti

untitled“Tricarico qualche anno fa ha scritto che la musica lo aveva salvato.

Ecco, in qualche modo potrei dire la stessa cosa: negli anni in cui la politica era ancora un ideale, quando indossare certi capi di vestiario o frequentare un certo locale determinava la tua appartenenza ad una data “tribù” la musica mi ha salvato. Dalle botte, dalla noia, dalla famiglia, dal conformismo.

Il concetto di “fare musica” negli ultimi decenni è cambiato radicalmente. Fino alla fine degli anni ‘80 si scriveva musica e si suonava, con un gruppo o da soli, in sala prove o in cantine umide.

Amplificatori, chitarre e synth si avvicendavano a seconda dei generi e i punti di riferimento erano artisti che hanno fatto la storia della musica e non intuizioni da un album e via come spesso accade nel terzo millennio.

La musica si comprava, non si rubava. Un album in uscita di un artista di cui eri fan lo assaporavi settimane prima e quando lo avevi tra le mani consumavi la copertina rileggendoti i crediti e guardandoti le foto a loop.

Dai novanta in poi la tecnologia ha determinato una frattura: da una parte chi ha continuato a fare musica come prima, dall’altra chi ha cominciato a usare le infinite possibilità di computer e campionatori per emanciparsi e creare in autonomia il proprio progetto. Tutto normale: qualcuno direbbe evoluzione della specie anche perché questa nuova impostazione di lavoro ha permesso l’affermazione di artisti di caratura mondiale.

Peccato però che le derive di questa “democrazia tecnologica” abbiano portato alla nascita di una modalità di fare musica del tutto differente. Quando ho cominciato a sentir dire a giovincelli trendy che la sera andavano a “suonare” in un locale armati di una borsa piena di cd e un paio di vinili ho capito che c’era un problema.

Faccio un distinguo: i deejay non sono una categoria da mettere all’indice. Qualche pezzo che senti alla radio non è neanche malaccio, per carità. Ma non venitemi a dire che un cappellino da baseball calcato all’incontrario sulla capoccia, un paio di tatuaggi, un mixerino e la borsa di cd che ti porti a tracolla fanno di te un musicista. Perché non è così, la musica è altro, scrivere musica è altro. Caparezza ha scritto “più stratocaster e meno dj”. Ecco, appunto.

Un giorno, nei primi anni ‘90 un mio caro amico discografico mi raccontò che un membro di un importante gruppo della mia stessa etichetta (gente che vendeva ai tempi parecchi album) gli aveva detto che avrebbe voluto scrivere una colonna sonora. Figo. Peccato che non sapeva neanche cosa fosse una nota, il suo mestiere nel gruppo presso cui militava consisteva nel far girare cd su cui l’altro tipo rappava. Ha anche tentato in seguito una carriera solista durata lo spazio di una stagione, forse meno. Mi sono sempre chiesto perché qualcuno avesse tirato fuori soldi per una minchiata epocale come quella, ma in questo Paese funziona così, anzi funzionava così perché adesso hanno finito i soldi.

Ho cominciato a seguire giovani artisti quando ho smesso di stare su un palco, ci si scrive, si confrontano idee e si danno consigli. Poi ognuno segue il suo istinto.

Ma a chi vuole fare musica oggi, a chi crede che la cosa lo faccia stare bene suggerisco un’unica cosa: prendete quello che vi serve, vestiti, strumenti, un po’ di soldi. Salutate a casa e prendete il primo aereo con destinazione a piacere. Il nord Europa, l’Australia, gli Usa, dove c…. volete ma andatevene di qui.

In Italia non si può fare. Non esiste la benché minima possibilità che ce la possiate fare. Potete avere il talento più cristallino, le idee più innovative, un carisma monumentale ma nulla vi salverà dall’indifferenza e dalla frustrazione ma soprattutto dall’insipienza di chi la Musica la dovrebbe proteggere e far crescere. Guardatevi da discografici, manager, direttori “artistici”, impresari, da chi lavora nelle radio, dai pennivendoli e imbrattacarte di chi scrive di musica e non ne sa nulla.

Quelli bravi hanno smesso da tempo oppure hanno lasciato da parte entusiasmi e ideali e pensano che dopotutto c’è ancora un mutuo da pagare o una ex moglie da mantenere.

Io non credo in un Paese dove le etichette più importanti investono ormai quasi unicamente su chi esce da un talent show.

Non credo a promoter che propongono date a rimborsi spese ridicoli o spesso inesistenti.

Non credo alle radio che fatturano cifre da capogiro grazie alla pubblicità e trasmettono musica da rincoglioniti.

Non credo più ad un Paese che non protegge un bene fondamentale come la cultura.

Pochi giorni fa una mia amica mi ha detto che gli hipster sono i mod del nuovo millennio. Volevo ammazzarmi perché probabilmente aveva ragione e questo spiega tutto.

Ma per questa volta metto da parte i barbiturici e soprassiedo: ho un mutuo da pagare e una ex moglie da mantenere anche io.

Ps: rileggendo queste righe sembra abbia un conto aperto con rap e hip hop. Niente di più sbagliato. Dai De la Soul ai Beastie boys la lista di chi fa bene questo mestiere è lunga. Anche in Italia. Un esempio: Salmo.

Una spanna sopra tutti”.


Carlo Bertotti
Autore, produttore e musicista, inizia la propria attività nei primi anni ’90 come compositore di musiche per cortometraggi e pubblicità. Nel 1996 fonda i Delta V insieme a Flavio Ferri, formazione con cui scrive e produce 6 album durante il decennio successivo. Parallelamente ha scritto e remixato brani per molti artisti italiani (Ornella Vanoni, Garbo, Alex Baroni, Baustelle, Angela Baraldi), e ha collaborato con Neil Maclellan (produttore di Prodigy e Nine Inch Nails), JC001 (Nitin Sawhney, Le Peuple de l’Herbe), Roberto Vernetti (La Crus, Elisa, Ustmamò).

Le scelte dei valutatori: Carlo Bertotti

Carlo Bertotti

GRAZIA CINQUETTIcinquetti
Una curiosità. Nomen omen: Grazia Cinquetti, non poteva che chiamarsi così.
Il lavoro di Grazia è indubbiamente una delle cose migliori che mi è capitata di ascoltare su Sonda. In “Anima e Corpo”, uno dei brani che ho ascoltato, si intrasentono Sakamoto e certi accordi di “emersoniana” memoria. Credo che Grazia sia un’artista che dovrebbe insistere sulla strada della ricerca cercando di non cedere a richiami troppo pop. Se riuscisse a dimenticare di essere italiana nel suono, senza quindi cedere alla tentazione del bel canto fine a se stesso, se si accorgesse fino in fondo che nel suo caso la voce è solo uno strumento che deve imparare a gestire rompendola e manovrandola, allora credo possa veramente fare cose importanti.

SESTO PROJECT
sesto projectSesto Project è un progetto indubbiamente interessante, che se “miscelato” e sviluppato bene in futuro potrebbe regalare al gruppo diverse soddisfazioni. In particolare si sente una maniera differente di approcciarsi alla costruzione dei pezzi: un modo intelligente di pensare una musica adatta sia al dancefloor di un club che a live veri e propri. Ascoltandoli istintivamente richiamano echi di Fatboy Slim o di Underworld e già questo è un buon punto di partenza! Nei loro brani a volte sembra di essere di fronte ad un remix: è una caratteristica particolare che andrebbe sfruttata di più. Non ricercano a tutti i costi la forma-canzone classica e se dovessero riuscire a far convergere tutta l’energia e gli spunti che emergono dai provini ci sono le premesse per un progetto decisamente originale.

ANIMAL FARM PROJECT
animalUn gruppo con delle idee, e questa, guardandosi attorno nel panorama delle band italiane, è già una notizia!
Una scrittura dei brani con un respiro quasi internazionale con un lavoro originale sulle armonie e con delle linee melodiche mai scontate. Un immaginario sonoro che spazia dai Sigur Ros ai primi Morcheeba con ampi margini di miglioramento soprattutto se in futuro volessero cimentarsi con l’italiano. Un’unica considerazione su questo punto: in Svezia, Francia, Olanda e Belgio vengono scritti e prodotti pezzi in inglese con un sound simile. In Italia invece non conosco molti gruppi che abbiano uno stile e un suono così e che cantino in italiano. Che dite? Speriamo non si perda un’occasione…

Carlo Bertotti
bertottiAutore, produttore e musicista, inizia la propria attività nei 
primi anni '90 comecompositore di musiche per cortometraggi e pubblicità.
 Nel 1996 fonda i Delta V insieme a Flavio Ferri, formazione con cui 
scrive e produce 6 album durante il decennio successivo. 
Parallelamente ha scritto e remixato brani per molti artisti italiani
 (Ornella Vanoni, Garbo, Alex Baroni, Baustelle, Angela Baraldi),
 e ha collaborato con Neil Maclellan (produttore di Prodigy e 
Nine Inch Nails), JC001 (Nitin Sawhney, Le Peuple de l'Herbe),
Roberto Vernetti (La Crus, Elisa, Ustmamò).

I valutatori: intervista a Carlo Bertotti

Autore, produttore e musicista, Carlo Bertotti inizia la propria attività nei primi anni ’90 come compositore di musiche per cortometraggi e pubblicità. Nel 1996 fonda i Delta V insieme a Flavio Ferri, formazione con cui scrive e produce 6 album durante il decennio successivo. Parallelamente ha scritto e remixato brani per molti artisti italiani (Ornella Vanoni, Garbo, Alex Baroni, Baustelle, Angela Baraldi), e ha collaborato con Neil Maclellan (produttore di Prodigy e Nine Inch Nails), JC001 (Nitin Sawhney, Le peuple de l’herbe), Roberto Vernetti (La Crus, Elisa, Ustmamò).

 

Hai iniziato la tua carriera come musicista, proseguendo poi anche come produttore, a metà degli anni ’90. Per quanto siano passati (relativamente) pochi anni, il mercato discografico è radicalmente cambiato: qual è stato secondo te il cambiamento più importante?
“Sicuramente la trasformazione più profonda è stata quella digitale, con la conseguenza che la musica online ha decretato la morte del sistema musicale, almeno in Italia. La realtà purtroppo è che il download selvaggio ha ammazzato soprattutto gli artisti più giovani, che fanno più fatica a emergere perché non c’è modo di investire su di loro ma si punta su personaggi più consolidati e quindi economicamente sicuri”.

Quindi non credi che la diffusione delle nuove tecnologie abbia avuto anche degli influssi positivi sulla scena musicale?
“Certamente è anche vero che con la tecnologia che abbiamo a disposizione ora c’è più ‘democrazia’, quella degli ultimi anni è stata una sorta di piccola rivoluzione digitale. Ci sono meno possibilità economiche ma contemporaneamente ci può esprimere più velocemente e con poche risorse”.

Quindi se dovessi consigliare un artista su come muoversi per pubblicare un album o approcciare un’etichetta discografica, nel mercato di oggi, cosa gli diresti?
“Difficile rispondere. Molto dipende dal tipo di repertorio dell’artista. Fondamentalmente però a chiunque consiglierei, anche se sembra vecchio stile, di lavorare tantissimo sul live: suonare ovunque e il più sovente possibile, farsi conoscere, far crescere il proprio pubblico e acquistare solidità sul palco. Nonostante il web e i social network, il live conta ancora molto”.

Un approccio molto legato alla “realtà”, piuttosto che ai media e alla promozione.
“Il fatto è che negli artisti che mi capita di incontrare, sia in Sonda che altrove, vedo spesso ottime intuizioni ma poca forza di volontà. Il problema dei nostri giorni, in Italia come altrove, è che la televisione e il sistema dei talent show hanno bloccato il mercato, sia per i musicisti che per le major discografiche. Sembra che la gavetta sia sostituibile con una partecipazione a X Factor o Amici, ma ovviamente non è così”.

Quali sono le cose che ti colpiscono di più, quando ti trovi davanti un brano da valutare?
“Scrittura testi e composizione musica. Questa è la base da cui bisogna partire, quello che ci deve per forza essere, altrimenti manca il materiale. Poi le eventuali intuizioni sugli arrangiamenti”.

E hai mai sbagliato, qualche volta nel fare le tue valutazioni. Che ne so, qualcuno che hai bocciato come incapace e poi si è rivelato essere un successo.
“No, che io ricordi no. Nessun caso eclatante, almeno. Certo degli errori ne ho fatti anche io: per esempio ho fatto un errore di valutazione durante la promozione del primo album dei Delta V. Una cosa apparentemente piccola ma che alla fine ha influito pesantemente sulla carriera del gruppo. A volte capita…”.

Negli anni hai avuto modo di lavorare sia con indipendenti che major. Quali credi siano le differenze e i punti di forza (o anche di debolezza) delle une rispetto alle altre?
“Ognuna ha le sue peculiarità. La promozione delle major aiuta tantissimo in settori come radio e televisione, ed elargisce chiaramente dei budget per il recording cost molto più interessanti. Le indipendenti invece lavorano meglio sulla stampa specializzata, e hanno (o comunque avevano) persone più libere mentalmente ma per questo forse troppo poco inserite nel contesto e nella realtà di una musica italiana non al passo con le realtà estere”.

Spesso si parla di estero come a indicare qualcosa di migliore, di più “avanti” rispetto a noi: ma è veramente così? Tu che hai collaborato anche con molti artisti stranieri ci puoi raccontare quali sono le differenze nell’approccio alla musica.
“Delle differenze ci sono certamente, ma almeno per la mia esperienza posso dire che dipende dalle persone e non dalla nazionalità. Parlando di distinzioni nazionali quello che posso dire è che in Italia purtroppo le collaborazioni ultimamente sono diventate omologate, poco spontanee, se ne fanno troppe e a sproposito. Sembra quasi sia diventato l’unico modo per vendere qualche copia in più”.


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