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I valutatori: intervista a Giampiero Bigazzi
Produttore, editore, compositore, autore e musicologo, Giampiero Bigazzi ha cominciato a suonare nel 1968 e ha legato il suo nome a quello dell’etichetta Materiali Sonori. Più “organizzatore di suoni” che musicista, ha collaborato con importanti artisti e band fra i protagonisti della musica indipendente e di ricerca in Italia e nel mondo. Scrive, organizza festival, mette in scena spettacoli di narrazione e di teatro minimo musicale.
Tu sei musicista, produttore e discografico. Come si diventa produttore e discografico?
“Non c’è una scuola, un concorso, o un bando, c’è qualche meritevole corso, come quelli che organizza periodicamente il Centro Musica di Modena. Nella musica il ruolo del produttore corrisponde a quello del regista nel cinema e nel teatro. Un ruolo molto importante. Quindi è giusto che venga svolto da musicisti, persone che, come in una sorta di ‘chiamata’ si fanno produttori e poi anche discografici”.
Quali sono le caratteristiche che deve avere un produttore e un discografico per svolgere al meglio il suo lavoro?
“Nella musica il produttore non è l’uomo solo al comando, ma deve per forza interagire con i musicisti, creare e gestire la giusta miscela d’idee. E spesso è chi fa da ‘intermediario’ con il resto del mondo. Per fare il discografico bisogna avere sensibilità musicale, conoscenza della materia, delle tappe della sua realizzazione ed anche il senso degli affari”.
Come è cambiato il ruolo del produttore e del discografico nel corso degli anni?
“Non riesco a cogliere molti cambiamenti, soprattutto nel ruolo del produttore. Il regista del disco è sempre quello dagli anni ‘60. Capita che siano gli stessi titolari del progetto, i musicisti, a fare anche da produttori artistici e la cosa funziona ugualmente. Il ruolo del discografico invece è cambiato con l’esaurirsi della materia prima. Vendere dischi è sempre più difficile. Una volta si facevano i concerti per promuovere i dischi, oggi si fanno i dischi per organizzare un tour. Però esistono ancora le etichette e quindi esiste ancora il discografico”.
Credi che si possa in qualche modo uscire dalla crisi che attanaglia la musica? Se sì, come?
“Intanto la crisi in cui vivacchia il mercato della musica sta dentro una crisi terribile di tutto il sistema occidentale e forse planetario. Quindi la resistenza è ancora più dura. Soprattutto in Italia, Paese che ha sempre avuto una classe dirigente avulsa dallo ‘sfruttamento’ della cultura ed in particolare della musica. Oggi ci vuole molta più creatività di qualche anno fa. Si deve lavorare su più fronti. è una dura battaglia, che per il momento ha collezionato solo sconfitte”.
E’ plausibile pensare che la musica possa ancora inventare qualcosa di nuovo nel 2012?
“Penso di sì. In fondo anche i Beatles s’ispiravano a un rock‘n’roll pre-esistente e lo mescolarono con un certo tipo di canzone inglese. Non s’inventa mai qualcosa di completamente nuovo. E anche oggi si può e si deve mescolare, ma è più difficile, perché la comunicazione totale e la circolazione della musica rischiano di rendere tutto una gigantesca marmellata. Inoltre c’è il rincorrersi di antiche e nuove suggestioni. Amici mi fanno ascoltare i Radical Face, che mi piacciono, ma mi sembra di sentire Simon & Garfunkel: le stesse armonie nelle voci, gli stessi accordi, gli stessi strumenti. Oppure mi consigliano The Tallest Man On Earth, interessante, ma è uguale al giovane Dylan! E poi tutte queste band che usano rock ed elettronica. Una volta ho fatto ascoltare un CD dei Tuxedomoon ad una giovane amica, appassionata di elettronica, dicendole che avevo ricevuto questo demo da una band di Zurigo, per farne un disco, è rimasta folgorata: ‘Senti che suoni! Che originalità! Fallo, il disco’. ‘Cribbio’, rispondo io, ‘ma sono registrazioni del ‘79!’. Per inventare qualcosa di nuovo, ci vuole anche l’humus culturale e sociale adatto”.
Cosa ti spinge a lavorare con un artista piuttosto che con un altro?
“Per quanto riguarda la nostra storia, cioè quella più che trentennale della Materiali Sonori, i meccanismi sono stati per lo più casuali! Diciamo una specie di ‘meccanismo a incastro’. Noi siamo musicisti e quindi fin dall’inizio abbiamo suonato ed interagito con altri musicisti e questo ci ha portato a conoscerne altri ancora e quindi a creare una rete di collaborazioni e di proposte”.
Cosa pensi di Sonda?
“E’ un bel progetto, che fa onore non solo al Centro Musica di Modena che l’ha inventato, ma a tutti gli Enti che lo sostengono. è un modo per stare in sintonia con i ragazzi che fanno musica. Da parte mia, del Centro Musica e degli Enti, se lo vogliono, è un’occasione per avere sotto mano le tendenze contemporanee che animano la scena musicale e quindi è un mezzo per capire molte cose sulla cultura giovanile, non solo musicale”.
Sonda ti ha “dato” qualcosa in questi anni di collaborazione?
“Intanto devo ripetermi e dire che il Centro Musica di Modena è una delle esperienze più belle e utili per la musica in Italia. è una sorta di università dedicata alla musica popolare contemporanea. E per me è stato sempre un onore collaborarvi. Sonda mi ha permesso di venire a contatto, con serietà e continuità, con le produzioni musicali di un segmento importante della cultura musicale italiana. Per me è come una scuola, dove imparo a conoscere situazioni nuove, una specie di continuo corso di aggiornamento”.
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I partner, le etichette: Error Broadcast
Error Broadcast nasce nel 2008 dal mio incontro con Sven Swift. Entrambi attivi con altri progetti discografici, con alle spalle le rispettive esperienze nella distribuzione digitale, abbiamo deciso da subito di utilizzare la rete come medium principale per individuare nuovi potenziali ascoltatori. Nonostante i diversi background musicali da cui proveniamo, la musica elettronica strumentale di matrice hip hop è stato il campo che abbiamo individuato come quello più interessante a livello di sperimentazione e di ricerca – infatti anche il mainstream trae sempre più ispirazione da questo tipo di contaminazioni – e, sfruttando al massimo la potenzialità della rete, è stato subito naturale ampliare il proprio raggio d’azione al di là dei confini nazionali (anche perché lavorando su un genere di ricerca guardare oltre l’Italia è stata una scelta obbligata). Da subito ci siamo caratterizzati come una label in grado di scoprire nuovi talenti (vedi il caso Shlomo, ndr), e spesso ci è capitato di lavorare con artisti dal grande potenziale, ma bisognosi di una figura guida: infatti anche se il concetto del DIY oggi si estende a molti fronti extra-musicali come il marketing, la comunicazione o la gestione delle vendite, un’etichetta discografica rimane una risorsa fondamentale per supportare e affiancare un arista nel proprio percorso di crescita. Un percorso che è di crescita anche per noi, perché quello che ricerchiamo è un approccio innovativo al suono elettronico. Per quel che riguarda il mio ruolo cerco infatti sempre di creare un contatto umano con l’artista, diventando così parte attiva nel processo creativo: coordinando il progetto ne curo ogni minimo dettaglio in prima persona, dalla direzione artistica al lavoro di comunicazione, dalla promozione on-line al rapporto con gli artisti. Ed è in quest’ottica che abbiamo deciso di partecipare a Sonda, perché siamo sempre interessati a scoprire i nuovi talenti e penso che tramite il progetto potremo intercettare artisti dal grande potenziale. In fondo l’Emilia Romagna è stata culla della cultura elettronica in Italia, basti pensare a realtà seminali come il Link di Bologna e il Maffia di Reggio Emilia dove molti addetti ai lavori – me incluso – si sono formati. Dovessi consigliare un artista su come pubblicare la propria musica, gli direi innanzitutto di ricercare il più possibile uno stile personale tenendo sempre a mente che al giorno d’oggi il fare musica deve essere accompagnato dalla conoscenza dei nuovi media di comunicazione, senza i quali è davvero difficile per un’artista emergere. Ormai i guadagni ottenuti tramite la vendita diretta di musica non sono più quelli di una volta per cui capita spesso di privilegiare la ‘viralità’ del free-download in particolare per artisti emergenti. Nel caso invece si decida di investire sulla stampa noi privilegiamo il vinile, perché mette in risalto il packaging, ha una una grande qualità sonora e mantiene un fascino senza tempo. Ovviamente alla base di tutto deve esserci un prodotto di qualità. Perché la competizione è durissima, e senza frontiere.
L’album più significativo della discografia di Error Broadcast è sicuramente “Shlo-fi” (2009), il debutto di Shlohmo, produttore losangelino ora considerato tra i principali esponenti della new wave elettronica americana. Pubblicato inizialmente in download gratuito, sull’onda del grande successo ottenuto è stato ristampato su doppio vinile nel 2011 ed è andato sold out in poco più di un mese. “Shlo-fi” rappresenta al meglio l’inclinazione di Error Broadcast a scoprire e produrre nuovi talenti, con assoluta priorità alla qualità delle produzioni e al loro carattere innovativo.
I partner, le etichette: Unhip Records
Unhip Records è nata nel 2001 grazie a Giovanni Gandolfi, con l’idea di pubblicare split in vinile di artisti internazionali e successivamente anche di gruppi italiani – come Disco Drive, Settlefish e The Death Of Anna Karina – oltre a curare la versione in vinile dei lavori di Afterhours, Offlaga Disco Pax, Massimo Volume, Le Luci Della Centrale Elettrica. Ogni nostra pubblicazione ha una storia diversa, e nonostante spulciamo una quantità infinita di materiale e vediamo una vagonata di concerti (perché è là che si capisce se un gruppo merita o no) quello che rimane fondamentale per noi è la componente umana, l’unico vero comune denominatore è che pubblichiamo solo chi ci piace moltissimo, e i gruppi che ci piacciono moltissimo non sono poi così tanti. Per nostra fortuna la scena bolognese è sempre molto attiva e ricettiva verso le novità, anche se (come è naturale che sia) molto è cambiato rispetto a qualche tempo fa. Abbiamo visto evolversi gruppi, locali, molte situazioni diverse. Alcune resistono, altre si sono esaurite, e anche da questo fermento è nata Unhip. Che poi ci sia stata una flessione è vero, ma è un fenomeno che ha coinvolto tutto il circuito a livello nazionale, in parte anche come conseguenza di internet e della diffusione dei social network, perché hanno favorito il proliferare di gruppi e di musica nuova illudendo forse agli artisti di avere i mezzi e le competenze per promuoversi da soli. Le etichette che hanno lavorato bene in questi anni sono quelle che hanno capito il ruolo che deve avere una label ora, ovvero dare tutto quel supporto di cui un gruppo ha bisogno per non perdersi nel mare magnum del sottobosco musicale. Lo sviluppo della rete ha poi cambiato drasticamente il mondo musicale: se da una parte ha facilitato le relazioni e la diffusione della musica, dall’altra ha affossato alcune realtà (come Hausmusik, che distribuiva i nostri dischi in tutto il mondo e che è fallita nel 2008) e per questo bisogna essere più oculati se si vuole pubblicare un disco, valutare attentamente come spendere le proprie risorse. Dal momento che sta diventando sempre più decisivo il modo in cui un disco viene presentato e promosso, piuttosto che la sua qualità sonora, bisogna essere più recettivi ai cambiamenti, bisogna cercare nuove strade. Unhip infatti è molto cambiata rispetto a dieci anni fa, anche se mantiene sempre una identità abbastanza riconoscibile nel modus operandi. Un esempio è quello della campagna “Become An Unhipster”, un abbonamento all’etichetta con durata annuale, nato dal desiderio di creare un legame continuo con chi ci ha supportato in questi dieci anni: spedendo dei pezzi inediti (b-sides, estratti da concerti, a volte anche dei provini dei nostri gruppi chiedendo un feedback), recapitando in anticipo le nostre produzioni, creando uno spin-off del catalogo dedicato agli Unhipsters, agevolando l’acquisto del back catalogue e regalando degli ingressi per i concerti. Questo è stato l’anno zero, che ci è servito a capire come far funzionare il meccanismo al meglio, ora siamo già carichissimi per la prossima stagione, anche perché è un’attività che da una parte facilita il contatto con chi in fin dei conti permette all’etichetta di sopravvivere, ovvero chi compra la nostra musica, dall’altra permette anche di dar sfogo ad una certa creatività, cosa che solitamente non avviene compilando i moduli della SIAE.
“S” dei Drink To Me è l’ultimo album uscito per Unhip, a marzo 2012. È un disco a cui siamo molto legati, perché ci ha stregato fin dalla prima volta che abbiamo ascoltato i provini, e che ci sta dando molte soddisfazioni. Il merito va ai Drink To Me, capaci di tirar fuori un album spaziale, che unisce una marcata attitudine pop a una ricerca in continua evoluzione, sempre fresca, sempre nuova. E’ eclettico, a tratti disturbato, e dal vivo suona una meraviglia. Il fatto che sia considerato uno dei migliori dischi usciti quest’anno, ci rende particolarmente orgogliosi.
I valutatori: intervista a Marco Bertoni
Nato a Bologna nel 1961, Marco Bertoni inizia a 16 anni a suonare fondando il Confusional Quartet, gruppo storico della “new wave ialiana”. Dopo quell’esperienza inizia a lavorare a progetti di musica contemporanea (uno su tutti il lavoro di ricerca sulla voce umana, che coinvolge le voci di Carmelo Bene, Kathy Berberian e Demetrio Stratos) e di musica leggera (con Lucio Dalla, Gianni Morandi, Angela Baraldi, Bracco di Graci, Gianna Nannini). Produce poi Motel Connection, Maccaroni Circus, il primo lavoro di Bob Rifo, collabora con diversi top dj e cura remix per artisti come Morgan, Jovanotti, The Simple Minds, Raiz, Subsonica. Ha collaborato, infine, come arrangiatore per lo Zecchino d’Oro e ha scritto colonne sonore per il cinema, la tv e la radio. Oltre all’attività con il Confusional Quartet, continua oggi il lavoro di produttore musicale nel suo studio.
Tu sei musicista e produttore. Come sei diventato produttore?
“A livello professionale grazie a Lucio Dalla, che propose a me e a Enrico Serotti (chitarrista dei Confusional Quartet) di produrre un album, “A piedi nudi”, per Angela Baraldi, di cui avevamo scritto tutte le musiche. Nel ruolo di produttore si ‘scivola’ un po’ per forza data l’esperienza che l’età accumula e un po’ per caso, ritrovandosi adatti nel ruolo sia psicologicamente sia artisticamente. Io sono un produttore più artistico che ‘commerciale’, nel senso che tendo a soddisfare le esigenze dell’artista piuttosto che quelle del mercato cui si fa riferimento. Forse perché sono convinto che la sincerità e l’energia, alla lunga, siano le uniche cose importanti”.
Quali sono le caratteristiche che deve avere un produttore per svolgere al meglio il suo lavoro?
“Unitamente a conoscenze di elementi di grammatica musicale e armonia, credo che il produttore debba conciliare conoscenze tecniche nel campo della fisica sonora con conoscenze umane, perché deve avere a che fare con persone tanto diverse tra loro. è un’interfaccia tra chi crea e chi vende. Credo che debba avere delle antenne che fanno capire come e cosa fare per potenziare un lavoro, con il giusto distacco che il creatore non potrà mai avere”.
Com’è cambiato il ruolo del produttore nel corso degli anni?
“Credo poco, a parte la conoscenza delle nuove tecnologie digitali. In sostanza si tratta di aiutare l’artista a confezionare il suo lavoro in termini comunicativi. La crisi del settore ha portato oggi il produttore a rivestire spesso e volentieri anche il ruolo di fonico. Anzi a volte, adesso, si pensa che il produttore sia quella persona che ti mette a posto i microfoni e ti registra. Anni fa il mio lavoro si svolgeva con il fonico che seguiva le mie indicazioni e l’aiuto fonico, un ragazzo che stava imparando. Ora, invece, avviene molto in solitaria, ma devo dire che non mi dispiace seguire i progetti che produco fino al mastering, che solitamente faccio personalmente. è comunque indispensabile per il mio modo di lavorare che l’artista mi affianchi durante i missaggi, per avere un feedback continuo”.
E’ plausibile pensare che la musica possa ancora inventare qualcosa di nuovo nel 2012?
“Io sono un musicista e sento che la risposta è sì. La musica è comunque l’arte più antica e magica e il fatto che noi la pensiamo legata alla comunicazione e/o a un mercato, è una breve parentesi storica. La mia immagine della musica è: seduti in una strada polverosa di un Paese del nordafrica a sbattere dei sassi”.
Cosa ti spinge a lavorare con un artista piuttosto che con un altro?
“Solitamente, in questo periodo storico, i ragazzi mi fanno sentire dei provini, o m’invitano in sala prove. Se sento che posso dare qualcosa in termini di messa a fuoco e di crescita, mi metto in gioco e accetto la richiesta di collaborazione”.
Che cosa pensi di Sonda?
“Ottima cosa. Ottimo progetto e fa godere che sia finanziato dalle istituzioni. Con gli anni ho capito che tanto possono fare le istituzioni per la musica in termini di crescita sia culturale sia professionale. Sonda è un ottimo esempio di questo. Poter incontrare i giovani musicisti e parlare del loro lavoro (riconoscendolo come tale, un lavoro) è una bella cosa. Se ci fossero più iniziative come questa (nel territorio nazionale) le istituzioni almeno potrebbero pareggiare il diabolico cortocircuito cui da un po’ di anni stiamo assistendo: la tv (pagata dalla pubblicità) lancia degli artisti (non musicali, televisivi) e alcuni di questi raggiungono, grazie a questa forte esposizione mediatica, una certa notorietà, questa notorietà gli fa fare decine di serate nelle piazze pagati dalle amministrazioni pubbliche come attrazione artistica ‘popolare’. Asfissiante no? O per meglio dire, se c’è solo ciò, è una fotografia sfocata che comunque rende ancora più profondo il solco tra la musica ‘leggera’ e quella ‘alternativa’. In Italia il crossover è una chimera”.
Sonda ti ha “dato” qualcosa in questi anni di collaborazione?
“Certo, mi ha dato la necessità di chiarirmi alcuni passaggi per poi poter parlare ai ragazzi, mi ha dato la possibilità di mettere a frutto la mia esperienza per dare tantissimi consigli ai progetti che ho valutato. Ho avuto anche il piacere di ‘saltare la barricata’ e di trovarmi, dopo qualche anno di tutoraggio, dei ragazzi in studio a registrare il loro primo lavoro!”.
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I partner, le etichette: Aural Music
All’inizio degli anni ’90 cantavo in una band hardcore (Miskatonic University) e, visto lo scarso interesse delle label, decidemmo di fondare una casa discografica per autoprodurci (Boundless Records). Questa scelta mi fece scoprire e amare il lavoro del discografico, purtroppo però l’impresa naufragò sotto il peso dei debiti e dell’inesperienza, ma mi rimase la voglia di riprovarci in seguito, evitando se possibile gli errori commessi in passato. Così nel 1999 decisi che era tempo di far nascere Aural Music. Negli anni il lavoro di una casa discografica è molto cambiato: l’avvento di Internet su larga scala e la conseguente digitalizzazione della musica sono stati il più grande cambiamento nel mercato musicale dall’invenzione del vinile del 1878. Internet ha reso per la prima volta la musica accessibile e disponibile per tutti, ha permesso a band sconosciute di essere ascoltate su scala mondiale, ma ha anche portato la musica a perdere buona parte del proprio valore economico. Internet significa enormi benefici per quanto riguarda la promozione ed il marketing ma ha un solo grosso handicap: i dischi si vendono sempre meno e credo siano destinati a sparire. Nei primi anni per decidere chi pubblicare mi basavo molto sui cd che ricevevo via posta, ora con l’avvento dei vari social network, svolgo un’accurata e intensa attività di scouting sul web, e sono insomma io a contattare le band che mi interessano, dopo averne “scartate” a migliaia. La scelta finale è comunque sempre e solamente emozionale, non sono in grado e non voglio nemmeno scegliere in base a fattori di “business” o d’ipotetica redditività, è il vantaggio e nel contempo il limite di una piccola indie come noi. Un consiglio che mi sento di dare ai giovani musicisti è di auto prodursi. Ormai i costi di registrazione e mixaggio sono ai minimi storici e grazie al digitale ci si può far conoscere in un attimo. Poi se c’è il talento, la perseveranza e la fortuna, magari una major o un grosso agente potrebbero interessarsi. Ovviamente noi accettiamo ed ascoltiamo sempre i promo sia fisici che digitali, anche se il tempo è poco ed è quindi necessaria un po’ di pazienza prima di ottenere una risposta. Aural Music è specializzata nel metal, un genere musicale erroneamente definito “chiuso” e ortodosso, quando invece è uno dei più aperti alle contaminazioni ed agli esperimenti, per questo lo adoro. Con Aural Music ho creato diverse sotto etichette che si sono col tempo specializzate, la code666 (black metal sperimentale), la dreamcell11 (gothic e dark), la goregorecords (death metal), la Wormhole Death (deathcore/metalcore) e l’Amaranth Recordings (avanguardia ed elettronica). Le nostre produzioni sono fisicamente distribuite in tutto il mondo, infatti da subito la distribuzione è stata uno degli aspetti su cui mi sono concentrato di più. Non lavoriamo con un singolo distributore, ma ci affidiamo a grossisti per ogni nazione europea, oltre che per USA, Canada, Giappone, Cina, Australia…
Il nostro disco di maggior successo è “OM” dei Negura Bunget. Uscito nel 2006 per il nostro marchio estremo code666, è stato votato tra i migliori 30 dischi metal degli ultimi 10 anni dalla prestigiosa rivista inglese Terrorizer ed ha subito ottenuto una miriade di recensioni e riconoscimenti da parte della stampa. La band ha promosso il disco con un tour mondiale di quasi 270 date. “OM” ha venduto ad oggi oltre 15.000 CD, 2.000 vinili e quasi 5.000 copie digitali. Si tratta di un disco di black metal sperimentale, un genere di nicchia che assai difficilmente ottiene risultati simili, senza contare il fatto che sia la band sia noi non abbiamo operato nessuna scelta artistica, musicale, d’immagine o di censura che potesse in qualche modo favorirne la commercializzazione: il prodotto è uscito esattamente come la band voleva che fosse, come facciamo sempre qui in Aural Music.
I valutatori: intervista a Luca Fantacone
47 anni, laureato in Scienze Politiche, dopo un primo impiego come marketing assistant in Unilever, e un breve soggiorno a Londra, nel 1991 Luca Fantacone entra in Warner Music come product manager e poi come promotion manager. Dopo 4 anni passa in PolyGram, dove gestisce l’etichetta Black Out in qualità di direttore artistico. Segue una rapida esperienza in Sony Music e un’esperienza indie con la NuN Entertainment, al cui termine lavora due anni come free lance. Nel 2006 rientra in Sony Music, prima come digital marketing manager poi come direttore marketing del repertorio internazionale.
Dunque Luca, a bruciapelo: come si diventa A&R di una major discografica?
“Bisogna voler tradurre una passione in lavoro e non essere schizzinosi, perché in questo lavoro si fa di tutto e si deve essere pronti a fare di tutto. Saper improvvisare, non dare nulla per scontato, essere maniacalmente curiosi. Per me è stato il risultato di una volontà precisa: non ero sicuro di farcela e non avevo esperienza, ma avevo il desiderio di fare della musica un lavoro, non solo una costante quotidiana. Farne il mio centro, semplicemente”.
Prima di arrivare in Sony Music hai avuto modo di conoscere anche il mondo indipendente. Differenze, affinità… rimpianti?
“Penso che entrambe le esperienze mi siano state utilissime. Ho imparato molto da tutte le situazioni, e non penso che ‘essere indie’ o ‘major’ siano due mondi in opposizione, la vera differenza la fanno le persone. Ci sono persone ‘buone’ e ‘cattive’ sia nelle major che nelle indie, e di conseguenza buona o cattiva qualità del lavoro e dei risultati. NuN, ad esempio, era un ibrido: portata avanti con l’ambizione di una major e la sperimentazione di una indie, con capitali minori di una major ma con la sfacciataggine di voler investire in progetti di livello”.
Qual è secondo te, al giorno d’oggi, il ruolo delle major discografiche?
“Dato che il fulcro del business non è più la vendita del supporto fisico, il nuovo ‘centro di gravità permanente’ è la gestione del ‘marchio’ che un artista rappresenta quindi tutte le attività connesse all’artista stesso, dischi, tour, merchandising, publishing, diritti connessi, libri, partnership, sponsorizzazioni o altro. E’ semplice tanto quanto impegnativo: passare da record companies a entertainment companies. Il mio modo di lavorare è cambiato profondamente rispetto a 21 anni fa. Non penso come prima, non comunico come prima, non faccio strategie come prima. L’unica costante è che bisogna capire la musica che si propone per trasmetterla agli altri, e ovviamente essere sempre un po’ ‘irriducibili’, crederci a priori”.
Tutti cambiamenti accelerati sicuramente dalla rivoluzione digitale.
“Non solo. Ora è diverso il comportamento del pubblico, il come, quanto, quando e dove si consuma la musica, le conseguenze sulla produzione e promozione: l’industria deve interpretare i tutto questo e tradurlo nel modo di comunicare al pubblico i propri progetti, e in nuovo modello di business. Secondo me le cose non cambiano mai né in meglio né in peggio, ma è fondamentale essere attenti, curiosi e pronti a cambiare. Forse la cosa che rimpiango un po’ è ’ansia di cercare la musica che ci piace, ansia che ora è molto diminuita perché c’è fin troppa musica nell’aria”.
Parliamo di Sonda: come cambia il tuo approccio con gli artisti che ascolti tramite il progetto, rispetto a quelli che normalmente valuti per il tuo lavoro?
“La modalità non cambia molto, migliora però l’efficacia perché lo strumento Sonda è molto flessibile, e permette ascolti e feedback rapidi. In genere certo di essere molto schietto e sincero, non mi interessa tanto la qualità della registrazione o del missaggio (entro certi limiti) quanto la struttura delle canzoni o il testo, e nel caso di una band il fatto di avere un ‘proprio’ suono. Credo che un pezzo possa parlare la propria lingua indipendentemente dai soldi che si spendono nel suo confezionamento”.
Un consiglio per un artista che voglia approcciare una grande etichetta come Sony Music…
“Confrontarsi, e creare del business insieme: i due ruoli, artista e discografico, devono essere complementari. Più nello specifico, selezionare bene i propri brani e presentare solo quelli in cui si crede ciecamente, oltre a organizzarsi per inviare altro materiale che faccia capire anche qual è il proprio ‘mondo’. Ed evitare di spendere troppo o affidarsi a sedicenti produttori che promettono qualunque cosa in cambio, appunto, di denaro”.
Per finire: c’è stato un caso in cui hai rifiutato qualcuno che poi hai avuto successo?
“Uno sì, legato ad un tempo di reazione minore che altri hanno avuto… Ma non dirò mai chi. Preferisco ricordarmi di quando firmai i Verdena senza che nessun mio collega li avesse mai neppure immaginati”.
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I partner, le etichette: Covo Records
La Covo Records è nata alla fine del 2010, essenzialmente dalla passione per il vinile. Daniele (l’altro socio del Covo) aveva già creato un’importantissima etichetta indipendente italiana, la Homesleep, ma questa volta i presupposti sono totalmente diversi, non certamente legati al mercato, o al successo commerciale. Piuttosto sono legati al nostro piacere di pubblicare band che ci piacciono e legate al territorio. Il nostro approccio è diverso rispetto al resto del panorama discografico. I dischi non si vendono e questa non è una novità dell’ultima ora, così abbiamo deciso di superare questa problematica, pubblicando fare solo sette pollici in vinile e in quantità limitata. Copertina uguale per tutte le pubblicazioni, come negli anni ‘60 era di norma per case discografiche entrate poi nella storia, con la speranza che nel tempo i nostri vinili diventino piccoli reperti da collezione. Il fatto di pubblicare solo vinili è stata dettata prima di tutto dalla nostra personale passione per questo tipo di supporto e perché pensiamo che il Compact Disc si estinguerà molto prima del vinile, inoltre riteniamo che sia ancora il supporto perfetto per ascoltare musica e per conservarla. La scelta degli artisti da produrre è prima di tutto dettata dalla provenienza, per la precisione Bologna. Ci teniamo a sostenere la scena locale per quanto possiamo fare e per quanto le idee siano sufficientemente buone da essere pubblicate. Il mio consiglio per entrare nel catalogo della Covo Records è quello di scrivere belle canzoni, stabilirsi a Bologna e avere tanta, tanta pazienza. Prima o poi qualcosa accadrà. La Covo Records non ha una vera e propria distribuzione. La vendita avviene direttamente attraverso le band, al Covo Club, oppure on line. Anche questa scelta è espressamente voluta per differenziarci rispetto alle altre etichette discografiche, tutte alla spasmodica ricerca di un distributore che faccia arrivare i loro dischi nei negozi, che però stanno numericamente diminuendo anno dopo anno. Il fatto di essere il braccio discografico del Covo Club non ci ha fatto prendere in considerazione la possibilità, ovviamente previo accordo, di pubblicare materiale registrato dal vivo durante i concerti che il locale ospita da trent’anni. Però magari, quando avremo esaurito i gruppi bolognesi, potremmo pensarci seriamente. Quindi ripensandoci, oltre a scrivere belle canzoni e trasferirsi a Bologna, forse bisogna anche suonare al Covo Club.
Il numero quattro in catalogo, l’ultimo nato per la Covo Records, è quello degli A Classic Education. Due cover version registrate in presa diretta, in analogico, che esaltano il suono e la band. La prima, Little Red Riding Hood di Sam The Sham And The Pharaos, quelli di Woolly Bully, la seconda Crawfish di Elvis Presley. La cosa curiosa è che entrambi questi brani sono in passato stati rivisitati da gruppi punk, o vicini al punk. Ricordo la versione di Little Red Riding Hood degli inglesi 999 e Johnny Thunders alle prese con Crawfish. Strane ma benvenute coincidenze. Ovviamente la cosa migliore rimane quella di andare ad ascoltare gli originali e trarre le proprie conclusioni.
I partner, le etichette: Materiali Sonori
«Il nome Materiali Sonori fu usato per la prima volta nel 1977, quando venne pubblicato il vinile ‘maso 001’. Il gruppo musicale fondato da Giampiero (Bigazzi ndr) aveva lavorato a un progetto con una scuola elementare. Giampiero e Luciano Morini avevano formato il Canzoniere del Valdarno, conoscevano un bel po’ di gente che suonava e così partì l’avventura della casa discografica. Sulle prime pubblicavamo progetti che altri musicisti ci proponevano, senza una logica precisa. Solo nella prima metà degli anni ’80 si concretizzò la consapevolezza di produrre artisticamente ed economicamente quei dischi che avremmo poi realizzato e tentato di distribuire. Insomma, solo più tardi ci rendemmo conto di cosa stavamo facendo». «Il metodo di lavoro, per quanto riguarda Materiali Sonori non credo sia cambiato molto, anche perché abbiamo sempre lavorato su più fronti: progettazione del disco, realizzazione, diffusione, concerti, promozione. Cercare sinergie, distribuire dischi non prodotti da noi». «Il fatto curioso è che, quando iniziammo a lavorare nel settore discografico, già si parlava della crisi del disco. Per quanto mi riguarda, ritengo colpevoli quei manager aridi e avidi all’interno dell’industria. Si è totalmente perso il senso artistico del prodotto discografico. Una volta venivano fatti incidere dischi anche a Miles Davis, perché l’industria – benché non lo comprendesse fino in fondo – si doveva in qualche modo lavare la coscienza. Commercializzava un’arte arricchendosi e in qualche modo sentiva di dover pagare pegno. Oggi non ha neppure questo senso di colpa». «Materiali Sonori decide di produrre un disco piuttosto che un altro in modo casuale. Non credo che ci sia mai capitato di collaborare con un musicista attraverso i provini che ci venivano inviati. Inizialmente ci vuole un passaggio di conoscenze, poi l’artista ci deve far simpatia e pensarlo come una persona curiosa. Se poi sopraggiungono unità d’intenti nasce il disco». «Penso che oggi, chi ha voglia di intraprendere la carriera di musicista da palco abbia di fronte due scelte. Tentare la fortuna seguendo l’iter dei vari format televisivi o cercare di far diventare la propria passione un lavoro che duri nel tempo. Nel primo caso spero che il nostro artista abbia la coscienza che – se gli va bene – è semplicemente una saponetta che sarà venduta in un supermercato. In attesa che l’industria se ne inventi un’altra ‘che lava più bianco’. Se avrà saggezza, saprà far tesoro dei propri guadagni e dei propri successi. Chi vuole intraprendere l’altra strada, cioè comunicare con gli altri in maniera sincera e senza facili successi può tentare di viverci per tutta la vita. Può ritagliarsi uno spazio decoroso e andare avanti, mettendo da parte le invidie e cercando sinergie costruttive. Oggi non c’è più la necessità di avere alle spalle una casa discografica. La tecnologia permette di realizzare buoni lavori anche in cameretta. Se mai ci vogliono buone idee». «Il fatto che Materiali Sonori sia probabilmente la più vecchia etichetta indipendente e tra le poche che hanno venduto i propri prodotti all’estero, non fa piacere. A mio avviso significa che noi vecchi operatori del settore, per le nuove generazioni, abbiamo costruito ben poco. Insomma: siamo profonda provincia e tale siamo rimasti».
Non mi piace molto guardare indietro, quindi come disco più importante per Materiali Sonori dico “Alabastro Euforico”. Però, questo progetto, unisce il passato con le nuove esperienze. Attraverso la proposta di brani inediti e l’interpretazione di altri autori, mescola generi che, seppur amalgamati nel suono e nello stile, spaziano dal minimalismo, al post-punk, alla tradizione popolare. Ha una combinazione di strumenti musicali che vanno dal classico quartetto d’archi, a strumenti dell’aria folk, a inserti elettronici e ambient. È tra le ultime produzioni, realizzata con un gruppo di musicisti che partecipano anche ad altri progetti dell’etichetta.
I valutatori: intervista a Carlo Bertotti
Autore, produttore e musicista, Carlo Bertotti inizia la propria attività nei primi anni ’90 come compositore di musiche per cortometraggi e pubblicità. Nel 1996 fonda i Delta V insieme a Flavio Ferri, formazione con cui scrive e produce 6 album durante il decennio successivo. Parallelamente ha scritto e remixato brani per molti artisti italiani (Ornella Vanoni, Garbo, Alex Baroni, Baustelle, Angela Baraldi), e ha collaborato con Neil Maclellan (produttore di Prodigy e Nine Inch Nails), JC001 (Nitin Sawhney, Le peuple de l’herbe), Roberto Vernetti (La Crus, Elisa, Ustmamò).
Hai iniziato la tua carriera come musicista, proseguendo poi anche come produttore, a metà degli anni ’90. Per quanto siano passati (relativamente) pochi anni, il mercato discografico è radicalmente cambiato: qual è stato secondo te il cambiamento più importante?
“Sicuramente la trasformazione più profonda è stata quella digitale, con la conseguenza che la musica online ha decretato la morte del sistema musicale, almeno in Italia. La realtà purtroppo è che il download selvaggio ha ammazzato soprattutto gli artisti più giovani, che fanno più fatica a emergere perché non c’è modo di investire su di loro ma si punta su personaggi più consolidati e quindi economicamente sicuri”.
Quindi non credi che la diffusione delle nuove tecnologie abbia avuto anche degli influssi positivi sulla scena musicale?
“Certamente è anche vero che con la tecnologia che abbiamo a disposizione ora c’è più ‘democrazia’, quella degli ultimi anni è stata una sorta di piccola rivoluzione digitale. Ci sono meno possibilità economiche ma contemporaneamente ci può esprimere più velocemente e con poche risorse”.
Quindi se dovessi consigliare un artista su come muoversi per pubblicare un album o approcciare un’etichetta discografica, nel mercato di oggi, cosa gli diresti?
“Difficile rispondere. Molto dipende dal tipo di repertorio dell’artista. Fondamentalmente però a chiunque consiglierei, anche se sembra vecchio stile, di lavorare tantissimo sul live: suonare ovunque e il più sovente possibile, farsi conoscere, far crescere il proprio pubblico e acquistare solidità sul palco. Nonostante il web e i social network, il live conta ancora molto”.
Un approccio molto legato alla “realtà”, piuttosto che ai media e alla promozione.
“Il fatto è che negli artisti che mi capita di incontrare, sia in Sonda che altrove, vedo spesso ottime intuizioni ma poca forza di volontà. Il problema dei nostri giorni, in Italia come altrove, è che la televisione e il sistema dei talent show hanno bloccato il mercato, sia per i musicisti che per le major discografiche. Sembra che la gavetta sia sostituibile con una partecipazione a X Factor o Amici, ma ovviamente non è così”.
Quali sono le cose che ti colpiscono di più, quando ti trovi davanti un brano da valutare?
“Scrittura testi e composizione musica. Questa è la base da cui bisogna partire, quello che ci deve per forza essere, altrimenti manca il materiale. Poi le eventuali intuizioni sugli arrangiamenti”.
E hai mai sbagliato, qualche volta nel fare le tue valutazioni. Che ne so, qualcuno che hai bocciato come incapace e poi si è rivelato essere un successo.
“No, che io ricordi no. Nessun caso eclatante, almeno. Certo degli errori ne ho fatti anche io: per esempio ho fatto un errore di valutazione durante la promozione del primo album dei Delta V. Una cosa apparentemente piccola ma che alla fine ha influito pesantemente sulla carriera del gruppo. A volte capita…”.
Negli anni hai avuto modo di lavorare sia con indipendenti che major. Quali credi siano le differenze e i punti di forza (o anche di debolezza) delle une rispetto alle altre?
“Ognuna ha le sue peculiarità. La promozione delle major aiuta tantissimo in settori come radio e televisione, ed elargisce chiaramente dei budget per il recording cost molto più interessanti. Le indipendenti invece lavorano meglio sulla stampa specializzata, e hanno (o comunque avevano) persone più libere mentalmente ma per questo forse troppo poco inserite nel contesto e nella realtà di una musica italiana non al passo con le realtà estere”.
Spesso si parla di estero come a indicare qualcosa di migliore, di più “avanti” rispetto a noi: ma è veramente così? Tu che hai collaborato anche con molti artisti stranieri ci puoi raccontare quali sono le differenze nell’approccio alla musica.
“Delle differenze ci sono certamente, ma almeno per la mia esperienza posso dire che dipende dalle persone e non dalla nazionalità. Parlando di distinzioni nazionali quello che posso dire è che in Italia purtroppo le collaborazioni ultimamente sono diventate omologate, poco spontanee, se ne fanno troppe e a sproposito. Sembra quasi sia diventato l’unico modo per vendere qualche copia in più”.
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I partner, le etichette: Trovarobato
La Trovarobato è nata attorno al 2002 /2003 dalla volontà dei Mariposa (gruppo di cui faccio parte) di gestire personalmente la propria attività discografica e la promozione delle proprie musiche. Dopo poco però abbiamo iniziato a ricevere interessamento e proposte anche da altri artisti e l’attività si è allargata. I primi artisti prodotti (oltre ai Mariposa) sono stati Transgender (band nella quale hanno militato Luca Cavina, ora bassista dei Calibro 35 e Paolo Mongardi attualmente bassista di Zeus! e Ronin). Inizialmente abbiamo scelto le produzioni che ci interessavano basandoci soprattutto su artisti conosciuti durante l’attività live dei Mariposa: successivamente siamo passati a una vera e propria attività di ricerca. Non esiste una “musica Trovarobato”: gli album che abbiamo prodotto sono molto eterogenei. Siamo interessati alla “ricerca”, in ogni ambito anche se specialmente nell’ambito della “forma canzone”. Il lavoro dell’etichetta da alcuni anni si è concentrato particolarmente sui meccanismi di promozione online tramite social network e sulla distribuzione digitale: su quest’ultima stiamo puntando molto e stiamo sperimentando una strategia, assieme alla fiorentina A Buzz Supreme, col progetto Digitalea (www.digitalea.it). Se dovessi dare un consiglio a un giovane artista che intende pubblicare il proprio lavoro (specialmente se per la prima volta) direi di guardarsi molto attorno, di essere curiosi, di capire come si muovono le cose, di non concentrarsi esclusivamente sull’attività esecutiva e “di palco”, ma di cercare di sviscerare i meccanismi che risiedono dietro alla produzione di un disco, alla sua promozione, all’organizzazione di concerti. E’ tramite una curiosità di questo tipo che è nata Trovarobato. Conoscere questi meccanismi è molto utile, permette una comprensione ad ampio spettro dei fenomeni, permette di capirli all’interno della loro complessità: e questo vale anche nel caso in cui non si pensi a un’autoproduzione e si consegni poi il proprio album nelle mani di un’etichetta e di un ufficio stampa. Sul nome dato all’etichetta, posso dire che Trovarobato è il titolo di una canzone dei Mariposa, tratta dal primo album “Portobello Illusioni” (2000) e poi ripresa in “Pròffiti Now!” (2005). E’ inoltre “l’insieme degli oggetti necessari all’arredamento di una scena teatrale, cinematografica o televisiva.”. E contemporaneamente identifica il luogo fisico dove contenerli. E’ una buona metafora per un’etichetta discografica, no? Perché ascoltare un disco targato Trovarobato? Per essere piacevolmente sorpresi, ogni volta, a ogni ascolto, a ogni canzone.
Sono molto legato a “Suzuki Bazuki”, un EP dei Mariposa considerato la prima uscita della Trovarobato. è importante perché è uno dei primi esempi in Italia di album interamente scaricabile da Internet (anno 2003). Abbiamo curato tutto internamente, dalla grafica alle strategie di promozione. è inoltre un album importante musicalmente all’interno della storia dei Mariposa, per la presenza di brani strumentali molto articolati e “sperimentali” e canzoni particolarmente diverse dal resto della nostra produzione del periodo.